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La rivoluzione di Papa Francesco: un milione di euro per aiutare i più deboli

Alleanza per Roma aperta a cittadini e istituzioni
Si chiama “Gesù Divino Lavoratore”. Stanziato un milione per partire intende essere un atto d’amore oltre la giustizia dovuta

Sorpresa Francesco. Anche in questa fase di progressiva uscita dal coronavirus, lancia l’invito a rimboccarsi le maniche facendo anzitutto qualcosa per le categorie più deboli e provate dalla pandemia. Per capirlo nella giusta portata occorre mettersi sul piano dell’amore che non esclude la giustizia che lo Stato deve garantire, ma sollecita un salto di qualità: per una società migliore, in più ci vuole l’amore. Nel piano di rilancio dell’economia e del lavoro per produrre reddito, il papa istituisce un Fondo per le categorie più deboli dei lavoratori in difficoltà perché colpite dalla pandemia nella diocesi di Roma di cui è vescovo. Primo a rincuorare nel momento di massima angoscia e paura collettiva, primo a mettere in campo  sul territorio una iniziativa di ampio respiro con l’intenzione di unire anziché dividere. Il Fondo lanciato da Francesco non si contenta di essere annunciata, ma è già una realtà in fase iniziale. Parte con un milione di euro, in attesa di altri contributi dai fedeli, da Roma Capitale e dalla Regione.

Non si tratta dunque di una sparata propagandistica, ma di un piano serio che viene illustrato oggi (venerdì) dal cardinale Vicario e dai suoi collaboratori invitati dal papa a portare avanti la fase di sviluppo operativo del Fondo che si chiama Gesù Divino Lavoratore. Non a caso. Intende sottolineare la natura propriamente ecclesiale dell’iniziativa che non intende sostituirsi ai compiti e alle responsabilità dello Stato e degli organi amministrativi regionali o territoriali, ma offrire una mano integrativa a quanto è dovuto ai cittadini per giustizia.

Francesco tiene bene a mente l’insegnamento sociale della Chiesa in materia di rapporti tra lo Stato e la Chiesa. Le tracce più aggiornate di questa dottrina si ritrovano nel magistero cattolico della misericordia sviluppato dallo stesso Francesco nel modo cristiano di considerare l’amore. Sfogliando l’enciclica Deus caritas est con la quale Benedetto XVI spalancava aria nuova nel dialogo con la storia contemporanea ci si imbatte in un’affermazione capitale per capire perché la Chiesa sia tanto determinata a restare a fianco dei poveri e dei deboli.

“L’amore — caritas — sarà sempre necessario, anche nella società più giusta. Non c’è nessun ordinamento statale giusto che possa rendere superfluo il servizio dell’amore. Chi vuole sbarazzarsi dell’amore si dispone a sbarazzarsi dell’uomo in quanto uomo. Ci sarà sempre sofferenza che necessita di consolazione e di aiuto”.

Se dunque resta punto fermo che “la Chiesa non può e non deve prendere nelle sue mani la battaglia politica per realizzare la società più giusta possibile. Non può e non deve mettersi al posto dello Stato”, è altrettanto vero e inconfutabile che la Chiesa “non può e non deve neanche restare ai margini nella lotta per la giustizia. La società giusta non può essere opera della Chiesa, ma deve essere realizzata dalla politica. Tuttavia l’adoperarsi per la giustizia lavorando per l’apertura dell’intelligenza e della volontà alle esigenze del bene la interessa profondamente”.

Diverse voci più o meno arrabbiate, più o meno informate, più o meno sincere sono apparse sui social e sulla stampa criticando in maniera sbrigativa il molto parlare della Chiesa di immigrati e di poveri, continuando a tenersi strette le sue proprietà immobiliari e i soldi donati dai fedeli. Voci smentite dai fatti, sebbene non sia compito della Chiesa sostituire le pubbliche autorità.

Ma il pontificato di Francesco sta incalzando la Chiesa – come non mai nel passato- a tenere in considerazione le parole del Vangelo dove si dice che saremo giudicati sull’amore e su quanto avremo fatto ai più esclusi e bisognosi di aiuto, attraverso le opere di misericordia. Aiutare i poveri e chi è nel bisogno è aiutare Gesù stesso rimasto a noi visibile in loro.

Lo sforzo immane di Francesco consiste nel portare la Chiesa a una pratica coerente con il lascito di Cristo: “Quod superest date pauperibus”.

Tradotto a lungo con il dare ai poveri “il superfluo” o gli avanzi della tavola, come misura comoda e bastevole a mettersi l’anima in pace, viene dal tempo del concilio Vaticano II compreso invece come far sedere i poveri alla stessa tavola dei commensali. Dare loro ciò che sta nel piatto e non gli avanzi. La traduzione rinnovata di questo versetto evangelico porta con sé una rivoluzione che richiede una lenta maturazione per cambiare mentalità.

La pandemia ha creato le condizioni di emergenza sociale tale che il papa ritiene sia giunto il tempo di fare una piccola forzatura per un passo gigantesco nella coscienza sociale dei cristiani.

Il Fondo Gesù Divino Lavoratore suggerisce questa conversione.  E’ un modo concreto di uscire migliori dalla crisi virale.

Mira a far rinascere Roma come città con un cuore solidale. Senza cuore ci sono furbizie o interessi.

Un Fondo è un modo concreto di passare dall’elemosina al sostegno dovuto per giustizia a chi soffre di più o annaspa nelle difficoltà.  “Vediamo che tanta gente sta chiedendo aiuto, e sembra che ‘i cinque pani e i due pesci’ non siano sufficienti” scrive Francesco nella Lettera al suo cardinale vicario nella quale lancia il Fondo chiedendo di perfezionarlo e  renderlo operativo. Lo stanziamento di partenza di un milione  intende sollecitare la moltiplicazione di risorse a sostegno della dignità del lavoro per i lavoratori “con contratti a termine non rinnovati”, “quelli pagati a ore”,   quella “grande schiera dei lavoratori giornalieri e occasionali”, e con un pensiero – Francesco li elenca nel dettaglio –  “agli stagisti, ai lavoratori domestici, ai piccoli imprenditori, ai lavoratori autonomi, specialmente quelli dei settori più colpiti e del loro indotto”. Molti “sono padri e madri di famiglia che faticosamente lottano per poter apparecchiare la tavola per i figli e garantire ad essi il minimo necessario”.

“Mi piace pensare che possa diventare l’occasione di una vera e propria alleanza per Roma in cui ognuno, per la sua parte, si senta protagonista della rinascita della nostra comunità dopo la crisi”.

Che sia questa Lettera – senza averla pensata in tal modo – un contributo al metodo per la riuscita degli Stati Generali proposti dal Governo per l’Italia dopo coronavirus?

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