Analisi, scenari, inchieste, idee per costruire l'Italia del futuro

[Il libro] Giuseppe Sabella (direttore esecutivo Think-in): «La ripartenza dell’industria non può prescindere dal rilancio della manifattura, ricomponendo la distanza tra economia e società che la globalizzazione ha prodotto»

Riportiamo di seguito l’introduzione del libro “Ripartenza Verde. Industria e globalizzazione ai tempi del Covid”, edito da Rubbettino Editore per la collana “Problemi Aperti”. L’autore, Giuseppe Sabella, è Direttore esecutivo di THINK-IN e research fellow della Donald Lynch Foundation (North Carolina, USA). È esperto di industria e coordinatore del progetto Think-industry 4.0. 

In principio, l’industria sceglieva l’Inghilterra. Del resto gli inglesi erano venuti velocemente a conoscenza della grande invenzione dello scozzese James Watt. La macchina a vapore – che poi si sarebbe diffusa in Giappone, USA, Europa e, anche, Italia – cambiava il mondo. Era l’inizio della modernità e di una crescita accelerata, non solo economica ma anche demografica e sociale. Parliamo di un’epoca che, attraverso varie fasi, è arrivata fino ai giorni nostri e che, non a caso, abbiamo chiamato era industriale.

L’industria è stata e continua a essere il sistema tecnico più sofisticato che abbiamo inventato e sviluppato per coniugare le risorse della terra e il lavoro dell’uomo, quello fisico come quello intellettuale. Tuttavia, a cavallo degli anni ’80 del secolo scorso, due fattori hanno inciso radicalmente segnandone un’evoluzione decisiva: le macchine elettroniche e la globalizzazione. E la combinazione di questi due fattori ci conduce allo scenario attuale, quello del digitale, dell’industria 4.0, delle supply chain e della superpotenza cinese.

E, anche, del covid-19. Perché al giorno d’oggi, tutto ciò che è locale è drammaticamente, anche, globale. Vedremo quale mondo uscirà dalla pandemia ma, ad oggi, la Cina è indiscutibilmente il grande vincitore della globalizzazione, in parte per propri meriti, in parte per errori altrui. Il processo di globalizzazione spostava quelli che Marshall chiamava i vantaggi della prossimità reciproca dall’Occidente alla Cina.

Negli USA, in GB e in Europa ci si era convinti che il futuro fosse quello di delocalizzare la manifattura per produrre a basso costo. Non solo, la Cina era diventata “la fabbrica del mondo”, anche in senso un po’ dispregiativo, con conseguente svalutazione del lavoro manuale e svuotamento di quei percorsi formativi così professionalizzanti che in Italia avevano dato un grande contributo all’industria e al lavoro, anche per il loro raccordo con il sistema imprese.

Ma, come diceva il grande aforista colombiano Gomez Davila, «più che l’imprevisto, è il previsto che coglie di sorpresa l’uomo esperto» . Perché ciò che il mondo occidentale aveva previsto – ovvero di rilanciare la propria produzione di ricchezza delocalizzando le produzioni – non è andato secondo aspettative. Anzi, è successo che, in 20 anni, la Cina è cresciuta moltissimo non solo in capacità produttiva ma anche in tecnologia per esempio, tanto da essere oggi la più importante manifattura a livello mondiale e il Paese più avanti nella frontiera digitale; ed è l’economia che il mondo e gli USA, l’altra superpotenza, stanno inseguendo.

Oggi la nostra industria, intesa anche come capacità di produrre ricchezza, si ritrova non solo più povera di ieri ma anche stressata da altri fattori con cui deve misurarsi: la sfida dell’innovazione, quella della sicurezza – drammaticamente importante anche in ragione di forme virali del tutto inedite – e quella che viene dalla crisi ambientale. Soprattutto in merito ai problemi dell’inquinamento, del riscaldamento globale e della crisi climatica, ad oggi ha prevalso l’idea – ispirata da quello che possiamo definire ambientalismo ideologico – che la soluzione fosse deindustrializzare, chiudere le industrie. Ambiente e salute sarebbero agli antipodi rispetto a ciò che è industria.

Le cose stanno davvero in questi termini? Sebbene esistano sufficienti elementi per dire che l’industria è il principale responsabile della crisi ambientale, ne esistono altrettanti per dire che è, allo stesso tempo, il principale attore che può ripristinare un equilibrio nel pianeta, sia per le potenti risorse di cui dispone, sia per la capacità che da sempre esprime per interagire, anche in modo virtuoso, con l’ambiente esterno.

Perché possiamo a ragione dire queste cose? Perché il digitale, il nuovo motore, ha introdotto un nuovo modello produttivo, oltretutto soggetto a evoluzione potente e velocissima, basato sul minor consumo di risorse. Sta a noi proseguire su questa strada, sfruttando anche la combinazione tra tecnologia e fonti energetiche alternative.

Ancora una volta, non è l’ideologia a promuovere il progresso ma è l’evoluzione di scienza e tecnica, perché è soprattutto questa il vero contenitore in cui ricadono le nostre forme più svariate di conoscenza: la tecnologia e le macchine non sono infatti nient’altro che idee della scienza in cammino. Scienza e tecnica si fanno luce a vicenda, il loro rapporto è circolare, vive di continui riflessi. E così è sempre stato, soprattutto nell’antichità, quando ancor prima che l’uomo fosse in grado di porsi le domande fondamentali sulla propria esistenza, già era capace di creare strumenti tecnici, persino per formarne degli altri. L’industria ha preceduto la filosofia per parafrasare una battuta felice.

Non a caso, per Martin Heidegger la tecnica è un modo del disvelamento: è, appunto, la prassi attraverso cui l’uomo conosce sé stesso e il mondo in cui abita. E che è quindi chiamato a custodire. Il presente attuale ci consegna una situazione in cui l’Europa si sta attrezzando per riavviare la sua economia attraverso l’innovazione dell’industria. È questa una grande notizia: significa ridare centralità all’economia reale, unico fattore di crescita non fittizia.

La ripartenza non può prescindere dal rilancio della manifattura ed è occasione per ricomporre la distanza tra economia e società che la globalizzazione ha prodotto, proprio in virtù del suo processo di delocalizzazione che ha voluto dire, in ultima istanza, deindustrializzazione, erosione di ricchezza e precarizzazione del lavoro (intesa anche come mancanza). Innovare significa investire verso il nuovo, ovvero nella direzione del digitale e del sostenibile. E ciò ha ricadute su produttività, creazione di valore aggiunto e occupazione, in particolare di qualità (che significa soprattutto occupazione giovanile).

Nell’auspicio che anche il nostro Paese sappia recitare la parte che gli spetta, l’imprevisto da covid-19 sta accelerando questo cambiamento dell’economia, proiettando sempre più l’industria, in particolare europea, verso le fonti alternative e rinnovabili: è questo un passaggio importante della transizione ecologica ed energetica. Ecco perché è ripartenza verde.

SCARICA IL PDF DELL'ARTICOLO

[bws_pdfprint display=’pdf’]

Iscriviti alla Newsletter

Ricevi gli ultimi articoli di Riparte l’Italia via email. Puoi cancellarti in qualsiasi momento.

Questo sito utilizza i cookie per migliorare l'esperienza utente.