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Ecco il Rapporto sulla competitività dei settori produttivi pubblicato dall’Istat | Il documento

Rapporto-competitivita

Il Rapporto sulla competitività dei settori produttivi, giunto alla undicesima edizione, fornisce un quadro informativo dettagliato e tempestivo sulla struttura, la performance e la dinamica del sistema produttivo italiano. Si tratta di un prodotto digitale composto da un e-book e da un’appendice statistica di indicatori settoriali scaricabili dal sito istituzionale Istat all’indirizzo https://www.istat.it/it/archivio/282020.

L’appendice statistica valorizza l’ampia informazione disponibile sui settori economici. Per ciascun comparto viene offerta una base dati di oltre 70 indicatori, ove possibile in serie storica e con dettagli settoriali, territoriali, dimensionali e per varie tipologie d’impresa. Nel corso degli anni tali database sono stati progressivamente arricchiti con informazioni provenienti dai registri statistici sulle imprese e relative alla forza lavoro interna alle imprese, agli scambi con l’estero, ai gruppi aziendali, alla presenza sul territorio.

Per ogni settore della manifattura e dei servizi sono inoltre disponibili schede di sintesi che riportano i principali indicatori sulla struttura, le strategie e la performance delle imprese. Le informazioni di natura congiunturale presenti nelle schede sono aggiornate in tempo reale e scaricabili dalla pagina web
https://www.istat.it/it/competitivita.

Il volume in sintesi

L’undicesima edizione del Rapporto vede la luce in una fase ciclica caratterizzata da persistenti segnali di incertezza sulle prospettive del quadro economico nazionale e internazionale, visibili a un’analisi sia macro sia microeconomica. Le conseguenze del conflitto russo-ucraino sui corsi delle materie prime (non solo energetiche) continuano a condizionare gli equilibri economici internazionali e a sostenere spinte inflazionistiche che, almeno in Europa, non si sperimentavano da alcuni decenni. La crisi energetica, inoltre, si è innestata su un tessuto produttivo già colpito dalle conseguenze della pandemia, i cui effetti sono ancora da valutare a pieno.

Sul piano macroeconomico, i dati internazionali mettono in evidenza un generalizzato indebolimento della crescita economica: tra il 2021 e il 2022 i tassi di crescita del Pil e del commercio mondiali si sono di fatto dimezzati. Questo tuttavia ha finito per alleviare le pressioni sui prezzi delle materie prime, risultate anch’esse in decelerazione tra la fine del 2022 e l’inizio del 2023.

L’indebolimento ciclico ha riguardato anche l’Italia, praticamente nella stessa misura: nel 2022 la crescita del Pil reale è stata poco più della metà rispetto a quella del 2021. Tale andamento, che ha comunque portato a un pieno recupero dei livelli pre-pandemici, è stato sostenuto in larga misura dai consumi delle famiglie e dagli investimenti, mentre la domanda estera netta e le scorte hanno fornito un contributo negativo. In particolare, la dinamica degli investimenti lordi in volume, che hanno superato i livelli del 2019, è stata trainata dalla spesa in macchinari e, sotto la spinta del cosiddetto Superbonus 110%, anche da quella in costruzioni, sia residenziali sia non residenziali.

Il ritorno dell’inflazione rappresenta l’aspetto che con maggiore forza si è imposto sullo scenario economico nel corso del 2022. I sensibili rialzi dei prezzi hanno condizionato in modo evidente gli scambi internazionali dell’Italia, divaricando i flussi di import ed export e le dinamiche del commercio in valore e in volume. Il valore delle importazioni di beni ha registrato l’incremento medio più elevato dal primo shock petrolifero degli anni Settanta, superando di una volta e mezza il tasso di crescita delle esportazioni, ma in volume entrambi gli aumenti appaiono sostanzialmente nulli. Sul piano geografico, si osserva una (contenuta) diminuzione delle quantità di beni esportate verso Germania, Francia e Spagna, una flessione marcata dei volumi esportati in Cina e Russia, un aumento delle vendite verso gli Stati Uniti.

Nel 2022 l’andamento dell’inflazione in Italia ha visto, al pari di altri paesi, una iniziale fase di accelerazione seguita da una attenuazione nei primi mesi del 2023, in corrispondenza della discesa dei prezzi dei beni energetici. Permangono, tuttavia, pressioni al rialzo in quasi tutte le altre categorie di beni e nei servizi; di conseguenza la componente di fondo continua a rimanere in costante accelerazione, facendo registrare, a febbraio 2023, un valore più che doppio rispetto alla media del 2022.

L’entità della fiammata inflazionistica, l’irrigidimento della politica monetaria e i timori relativi all’innescarsi di una possibile rincorsa salariale hanno spinto a valutare tali dinamiche anche alla luce degli scenari inflattivi del passato. Nella fase attuale, tuttavia, si riscontrano importanti differenze: una minore inflazione da domanda, una dinamica salariale più moderata (in particolare in Europa), una reazione delle banche centrali più rapida e incentrata su un’elevata trasparenza informativa per influire sulle aspettative degli operatori.

In particolare, nelle ultime settimane, Federal Reserve e Bce sembrano orientate a perseguire strategie più caute, anche sotto l’emergere di gravi difficoltà patrimoniali e gestionali di alcuni istituti di credito, bilanciando l’obiettivo dell’attenuazione delle pressioni sui prezzi con i rischi di recessione legati al peggioramento delle condizioni finanziarie di famiglie e imprese. In Europa sembra inoltre emergere una nuova fase di disallineamento di importanti condizioni macroeconomiche nazionali, già presenti nel periodo precedente e nei primi anni della moneta unica, che tendono ad accentuare le divergenze tra paesi in merito alla conduzione della politica monetaria, chiamata a conciliare esigenze diverse in relazione al livello di indebitamento e alle tendenze dei prezzi.

Il dibattito sull’entità, l’efficacia e il timing della politica monetaria, inoltre, è legato alle caratteristiche della fiammata inflazionistica. Per questa ragione è stato effettuato un esercizio di stima che individua il contributo fornito alle variazioni dell’indice IPCA, in ciascun trimestre, da tre distinte componenti: a) fattori di offerta; b) fattori di domanda; c) fattori non classificabili. I risultati mostrano come, nel determinarne la dinamica dell’inflazione di fondo, nel corso del 2022 i fattori di domanda e di offerta abbiano ricoperto un ruolo simile, ma nell’ultimo trimestre dell’anno – probabilmente anche a seguito del rallentamento dei consumi e delle politiche monetarie restrittive – prevalgono i fattori di offerta.

Anche la dinamica dell’IPCA generale, nel corso del 2022, è stata guidata prevalentemente da fattori di domanda (in particolare nei settori dei servizi e dei beni industriali non energetici) fin quando, sul finire dell’anno, la flessione dei consumi e l’irrigidimento della politica monetaria ne hanno limitato il contributo, senza tuttavia determinare una apprezzabile riduzione dell’indice generale, a causa del ruolo significativo ricoperto dai fattori di offerta.

La crisi energetica e l’inflazione da costi che ne è derivata hanno colpito il sistema produttivo italiano in modo trasversale, ma con una certa eterogeneità tra i diversi comparti.

Il commercio con l’estero dei settori produttivi ha generalmente evidenziato una dinamica in volume molto meno brillante rispetto a quella in valore, sia per le esportazioni sia per le importazioni; fanno eccezione alcuni comparti del Made in Italy: abbigliamento, pelli e, per quanto riguarda il solo export, anche il tessile e gli alimentari.

Le due crisi che hanno caratterizzato il periodo 2019-2022 non hanno invece modificato in misura sostanziale la rilevanza relativa dei principali partner commerciali dell’Italia (Stati Uniti, Germania, Francia, Spagna, Regno Unito, Russia e Cina, che complessivamente spiegano circa la metà dell’export in volume della manifattura): solo in due settori su 23 si segnala un cambiamento del principale mercato di sbocco.

Tuttavia emergono tracce di ricomposizione: gli Stati Uniti hanno guadagnato rilevanza in tutti i settori della manifattura, con l’eccezione delle bevande, gli altri mezzi di trasporto e la farmaceutica, a detrimento di Germania e Francia, che perdono peso nelle esportazioni in volume rispettivamente in 12 e 13 settori su 23. Dal lato delle importazioni cresce l’importanza relativa della Cina nell’import in volume di ben 19 comparti manifatturieri, con particolare rilievo negli altri mezzi di trasporto, nei macchinari, nell’elettronica (confermando il suo ruolo di leadership), nella chimica.

Il peggioramento del quadro economico intervenuto nel corso del 2022 trova riscontro anche nei dati di survey: l’adeguatezza della propria capacità produttiva, il grado di utilizzo degli impianti e le condizioni di accesso al credito forniscono indicazioni compatibili con una fase di potenziale indebolimento della domanda. Si segnalano poi alcune criticità in grado di condizionare l’attività d’impresa nel primo semestre 2023: nella manifattura prevalgono quelle relative alle conseguenze dei rincari energetici (oltre i due terzi delle imprese) e all’aumento dei prezzi dei beni intermedi (oltre la metà), nel primo caso diffuse in quasi tutti i settori manifatturieri, con picchi tra i comparti più energivori.

I costi di approvvigionamento dei beni intermedi, a loro volta, sono avvertiti come potenziale difficoltà, oltre che nella farmaceutica, anche nella stampa e in diversi settori tipici del modello di specializzazione italiano: alimentari, bevande, pelli, apparecchi elettrici. La disponibilità, più che il prezzo, dei beni intermedi costituisce infine un problema per oltre tre quarti delle aziende che operano nei mezzi di trasporto diversi dagli autoveicoli. Anche nei servizi, le criticità previste per il primo semestre 2023 riguardano in larghissima misura i rincari energetici, (circa i due terzi delle imprese) e quelli dei beni intermedi (oltre la metà); a differenza della manifattura, tuttavia, un terzo delle unità del terziario prevede serie limitazioni nel reperire forza lavoro adeguata. in particolare per le attività a più elevato contenuto di conoscenza e per quelle legate al turismo.

Le recenti dinamiche settoriali della manifattura possono essere colte anche attraverso l’Indicatore sintetico di competitività (ISCo), una misura multidimensionale della performance di ciascun comparto in relazione alla media manifatturiera. Tra il quarto trimestre 2021 e il quarto trimestre 2022, l’ISCo evidenzia una competitività superiore alla media per 12 settori su 23, in gran parte quelli che già l’anno precedente si erano segnalati per risultati economici relativamente migliori: abbigliamento e pelli, farmaceutica, i mezzi di trasporto diversi dagli autoveicoli, le altre attività manifatturiere, ma soprattutto il coke e raffinazione, la cui performance è tuttavia strettamente legata alla dinamica dei mercati energetici. In recupero il comparto automobilistico – dopo il vistoso ritardo registrato nell’anno precedente – e l’elettronica; in ritardo i mobili, la gomma e plastica e la metallurgia.

Le crisi del periodo 2019-2022 potrebbero aver avuto conseguenze anche sul posizionamento dei settori produttivi italiani all’interno del sistema degli scambi internazionali. Gli indicatori della Social Network Analysis, evidenziano per l’Italia, tra il 2019 e il 2022, una riduzione del grado di connessione in uscita – che comporta una tendenza alla concentrazione degli scambi – più marcata rispetto a quella degli altri principali paesi Ue e comune a quasi tutti i settori, con l’eccezione della farmaceutica. Al contrario, si segnala un incremento del grado di connessione degli scambi in entrata – con conseguente tendenza alla diversificazione – superiore a quello registrato per Francia e Spagna, con un contributo dei settori più eterogeneo e limitato a 10 settori
su 22.

Il Rapporto fornisce inoltre un’analisi dei meccanismi di trasmissione dell’incremento dei prezzi internazionali sugli scambi interni al sistema produttivo italiano e uno studio delle dinamiche di pass-through a livello settoriale. Riguardo al primo aspetto, si individuano i settori più esposti agli shock delle materie prime e la loro capacità di trasmettere tali impulsi al resto dell’economia; riguardo al secondo, un esercizio di simulazione mette a confronto la reazione dei comparti produttivi italiani alla variazione del prezzo degli input importati, ricavabile dalle tavole input-output, con quella effettivamente riscontrata; il differenziale fra le variazioni attese e quelle osservate è interpretabile come una misura della capacità di traslazione di tali rincari sui prezzi di vendita.

Dall’analisi emerge che i comparti (esteri) più rilevanti dal lato delle forniture internazionali (dai quali maggiormente dipende l’approvvigionamento di input produttivi da parte dell’Italia) sono l’estrazione, la chimica, la metallurgia e prodotti in metallo; i settori (italiani) più esposti (che più dipendono da queste forniture estere) sono le raffinerie, gli alimentari e bevande, la metallurgia e prodotti in metallo la chimica, la gomma, plastica e minerali non metalliferi, i macchinari e gli autoveicoli. Per questi settori, in particolare, vengono valutate l’estensione e la velocità di trasmissione degli impulsi al resto del sistema economico. A eccezione degli autoveicoli, tutti risultano poter trasmettere rapidamente l’aumento dei costi sui prezzi finali. Gli effetti sono più estesi nel caso della filiera del metallo (metallurgia e prodotti in metallo) e dei settori della gomma, plastica e minerali non metalliferi.

Inoltre, emergono tre macro-aree particolarmente interessate dalla trasmissione dello shock sui prezzi: la prima coinvolge la filiera agro-alimentare e si estende anche ai servizi ricettivi legati al turismo; la seconda si origina dai settori della raffinazione e della chimica e si trasmette ai trasporti, con importanti ripercussioni per il comparto energetico e con la manifattura; la terza si propaga dalla metallurgia e prodotti in metallo e dalla gomma, plastica e minerali non metalliferi, e investe in misura rilevante il resto della manifattura e le costruzioni.

Da un esercizio di simulazione, infine, emerge come nella maggior parte dei comparti industriali il rialzo dei prezzi (pass-through) abbia più che compensato l’aumento dei costi relativi agli input produttivi; solo in cinque settori su 17 i rincari sono risultati meno che proporzionali rispetto agli aumenti di prezzo degli input importati (spiccano le raffinerie, la farmaceutica, la gomma e plastica). All’opposto, tra i settori con pass-through positivo più ampio figurano quelli di energia, macchinari, legno, carta e stampa, chimica. Nei servizi la situazione è più eterogenea, con diffuse situazioni di aumenti meno che proporzionali: in otto dei 18 settori si riscontra
un pass-through meno che proporzionale all’aumento dei costi, in particolare nel commercio all’ingrosso, nelle telecomunicazioni e nelle attività professionali.

Un secondo esercizio di stima mira a valutare in quale misura i rincari di energia, beni alimentari e di altra manifattura hanno avuto un impatto differenziato sull’aumento dei prezzi alla produzione a livello regionale e provinciale.

A livello regionale, l’impatto dei beni energetici sull’aumento dei prezzi alla produzione risulta nella maggior parte dei casi più elevato rispetto alle altre categorie di beni, con un range che varia tra il 22,7% della Basilicata e il 73,8% della Valle d’Aosta-Vallée d’Aoste; più contenuto quello dei beni agricoli (tra lo 0,6%
del Lazio e il 7,5% dell’Emilia-Romagna).

A livello provinciale emerge una elevata eterogeneità fra province anche all’interno della stessa regione, in particolare se si guarda, ancora una volta, agli effetti dell’aumento dei prezzi dovuti ai beni energetici importati: tale componente pesa tra il 59,5 e l’82,9% nelle province di Catanzaro, Cosenza, Brindisi, Roma, La Spezia, Sondrio e Aosta, tutte province in cui sono localizzate imprese di produzione di energia. Sul versante degli aumenti riconducibili ai beni agricoli, l’impatto risulta più contenuto: il peso varia tra il 9,7 e il 22,6%.

L’analisi microeconomica approfondisce gli effetti della doppia crisi sul sistema delle imprese, analizzando inoltre le strategie di reazione di queste ultime. Nel fare ciò si fa ampio ricorso alle prime informazioni raccolte attraverso l’edizione anticipata del registro esteso Frame-Sbs e un modulo ad hoc sulle modalità di reazione alla crisi inserito a dicembre 2022 nell’indagine sul clima di fiducia delle imprese di manifattura e servizi.

Le analisi mostrano in primo luogo come, con riferimento al segmento delle imprese con dipendenti
(circa 1,5 milioni di unità, che nel 2021 spiegavano oltre l’80% dell’occupazione e del valore aggiunto totali), tra il 2019 e 2021 la crisi pandemica abbia impattato sulla struttura produttiva in misura sostanzialmente limitata in termini di numero di unità e di addetti (questi ultimi leggermente aumentati), con effetti di ricomposizione che hanno premiato il comparto delle costruzioni, a fronte di una contrazione nella manifattura e nei servizi di mercato. Tra i servizi, si osserva un ridimensionamento per le attività di alloggio e di ristorazione e quelle artistiche, sportive e di intrattenimento; nella manifattura, invece, alla contrazione di comparti della filiera dell’abbigliamento, quali pelli e abbigliamento si contrappone l’espansione della fabbricazione di autoveicoli, dei prodotti in metallo e della farmaceutica.

Un ulteriore effetto della crisi pandemica sul sistema produttivo è rappresentato dalle conseguenze sulla solidità economico-finanziaria delle imprese, che era andata progressivamente rafforzandosi negli anni successivi alla recessione del 2011-2013. Si propone un indicatore di solidità economico-finanziaria (ISEF) che classifica le società di capitali in quattro gruppi: “In salute”, “Fragili”, “A rischio” e “Fortemente a rischio”.

L’evidenza mostra come, tra il 2019 e il 2020, la quota di società fragili si riduca drasticamente, mentre quella delle fortemente a rischio scende ai valori minimi dal 2011. Al contrario, aumentano le percentuali delle società a rischio e di quelle in salute, nel caso di queste ultime raggiungendo un picco nell’arco del decennio. In un anno caratterizzato da una recessione di straordinaria intensità come il 2020, queste dinamiche potrebbero apparire anomale. Va ricordato, tuttavia, come nello stesso anno siano state attivate misure di sostegno alla liquidità d’impresa particolarmente pervasive.

Le analisi svolte mostrano come nella fase pandemica si siano registrati meno casi di entrata (downgrade) nella classe di società fortemente a rischio e più casi di uscita (upgrade) rispetto all’episodio di crisi
del 2011-2012. Un esercizio controfattuale rivela come i contributi forniti dal miglioramento delle condizioni economico-finanziarie e dall’ingente mole di aiuti erogata siano stati diversi nei due episodi recessivi: in particolare, nel 2020 l’effetto dei provvedimenti di sostegno alla liquidità delle imprese spiegherebbe la quasi totalità dei differenziali di upgrade e downgrade osservabili tra le due recessioni. Allo stesso tempo, il contributo pressoché nullo derivante dalla maggiore solidità economico-finanziaria risulta coerente con la natura esogena della crisi legata alla pandemia di Covid-19, allorché i provvedimenti di chiusura amministrativa hanno coinvolto le imprese indipendentemente dalle loro condizioni di bilancio.

I risultati del modulo ad hoc precedentemente citato permettono di fare luce sulla tenuta competitiva delle imprese durante la crisi energetica. Emerge anzitutto un quadro nel quale, nonostante la severità e la pervasività dell’impatto della crisi energetica, a fine 2022 le imprese italiane non intravedevano seri rischi operativi per la propria attività, almeno in relazione al primo semestre del 2023, con percentuali decisamente superiori a quelle registrate a fine 2021.

La reazione più frequente, a fronte di entrambi gli shock, è rappresentata invece dall’aumento dei prezzi di vendita, con una caratterizzazione in termini dimensionali: per le piccole e medie imprese l’unica alternativa all’aumento dei prezzi sembra essere rappresentata dal sacrificio dei margini di profitto mentre le grandi sembrano poter attuare strategie più complesse, incentrate anche sulla rinegoziazione dei contratti di fornitura e, in misura più contenuta, sul consumo di elettricità autoprodotta e sull’efficientamento energetico degli impianti. Questo, tuttavia, non ha comunque evitato, anche per questa tipologia di imprese, una riduzione piuttosto diffusa dei margini di profitto.

Nel complesso tra l’inizio e la fine del 2022, il margine operativo lordo (Mol) risulta diminuito per oltre la metà delle imprese in 18 settori su 23 (uniche eccezioni sono Coke e Raffinati, Prodotti da minerali non metalliferi, Elettronica, Altre manifatturiere), e nel 5,0% dei casi è divenuto negativo. Alla luce dell’entità degli shock che nel corso dell’anno hanno investito la struttura dei costi delle imprese, rimane comunque considerevole la quota di unità che è riuscita a salvaguardare i margini (30,9%) o addirittura ad aumentarli (8,8%).

Nel terziario, invece, la capacità di bilanciare gli aumenti dei costi incrementando i prezzi di vendita appare più limitata, di conseguenza risultano più diffusi i casi di riduzione dei margini di profitto. Inoltre, nei servizi emerge un più frequente orientamento al risparmio e all’efficientamento energetico, che sembra accompagnarsi a una maggiore forza negoziale nei rapporti di fornitura. Allo stesso tempo, risultano meno diffusi (ma comunque superiori al 45%) i casi di contrazione del margine operativo lordo.

Un esercizio di stima qualifica ulteriormente tali risultati, evidenziando in quale misura alcune scelte effettuate in reazione ai rincari energetici e – nel caso della manifattura – alle difficoltà nelle catene di fornitura riducano la probabilità di registrare un Mol negativo.

Nel comparto manifatturiero sembrano svolgere un ruolo rilevante sia l’aumento del valore delle esportazioni nel biennio 2021-2022, sia l’avere raggiunto livelli di produttività del lavoro superiori a quelli pre-pandemici. Un ruolo non trascurabile è svolto anche dalla capacità di contenere gli aumenti di costi di produzione attraverso la rinegoziazione dei contratti di fornitura di energia o la realizzazione di investimenti finalizzati a una maggiore efficienza energetica. Nei servizi, oltre a questi ultimi aspetti, appare rilevante anche l’appartenenza a un gruppo multinazionale, mentre la rinegoziazione dei contratti di fornitura svolge una funzione più limitata

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