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Covid, quei dieci giorni di ritardo che potevano evitare 4 mila morti. L’atto di accusa del virologo Crisanti | Il documento

Nei giorni 27 e 28 febbraio 2020 “il Cts e il ministro Speranza hanno tutte le informazioni sulla progressione del contagio che dimostravano come lo scenario sul campo” fosse “di gran lunga peggiore di quello ritenuto catastrofico”.

E le “informazioni sulla gravità della situazione” ad Alzano e Nembro furono oggetto di una riunione del Cts del 2 marzo “non verbalizzata ufficialmente” alla presenza “del ministro Speranza e del presidente Conte”.

Speranza e Conte “raccontano alla Procura di Bergamo di essere venuti a conoscenza del caso di Alzano e Nembro rispettivamente” il 4 e il 5 marzo.

Anche il governatore lombardo Attilio Fontana e l’allora assessore Giulio Gallera erano “informati sulla previsione degli scenari e sulla decisione di segretare il piano Covid”.

Sapevano, stando alla relazione del microbiologo Andrea Crisanti nella relazione agli atti dell’inchiesta sulla gestione del Covid in Val Seriana (in cui tra gli indagati ci sono l’ex premier Conte, l’ex ministro Speranza e i suoi tecnici) così come “gli organi decisionali nazionali”, che “al più tardi il 28 febbraio” l’indice di trasmissione aveva raggiunto e “superato il valore di due”.

E la “diffusione del contagio non lasciava dubbi che le azioni intraprese non stavano avendo effetto”.

E “ciononostante per 10 giorni non vengono prese azioni più restrittive”.

“La documentazione acquisita – scrive Crisanti – dimostra oltre ogni ragionevole dubbio di come il Cts, il Ministro Speranza e il Presidente Conte avessero a disposizione tutte le informazioni e gli strumenti per valutare la progressione del contagio e comprendere le conseguenze in termini di decessi”.

E sulla base “delle previsioni dello scenario con Rt=2 il Cts stesso e il Ministro Speranza condivisero la decisione di secretare il Piano Covid”, elaborato dall’epidemiologo Stefano Merler, “per non allarmare l’opinione pubblica”.

Sulla riunione del 2 marzo del Cts con Conte e Speranza, Crisanti scrive che “il Dott. Miozzo stende il verbale” che “non condivide con nessuno e rimane in suo possesso”.

Nella consulenza viene riportato anche quel “modello matematico” con cui Crisanti ha stimato l’effetto che misure più restrittive e tempestive, come la zona rossa, avrebbero avuto “sulla diffusione del virus e della mortalità”.

La zona rossa in Val Seriana, si legge, “al giorno 27 febbraio 2020 e al giorno 3 marzo 2020 avrebbe permesso di evitare, con una probabilità del 95%, rispettivamente 4148 e 2659 decessi”. Il 27 febbraio, secondo la consulenza, è la data in cui “il Cts e Regione Lombardia erano diventati consapevoli della gravità della situazione”.

Anche il governatore lombardo Attilio Fontana e l’allora assessore Giulio Gallera erano “informati sulla previsione degli scenari e sulla decisione di segretare il piano Covid”. Sapevano, stando alla relazione, così come “gli organi decisionali nazionali”, che “al più tardi il 28 febbraio” l’indice di trasmissione aveva raggiunto e “superato il valore di due”. E la “diffusione del contagio non lasciava dubbi che le azioni intraprese non stavano avendo effetto”. E “ciononostante – scrive ancora il microbiologo – per 10 giorni non vengono prese azioni più restrittive”.

“Già dal giorno 12.02.2020”, ossia otto giorni prima di Paziente 1, i componenti “prima della Merlerà task force del ministero e poi del Cts, erano “consapevoli della difficoltà di reperire Dpi e materiali per la loro produzione” e quindi conoscevano “la situazione di vulnerabilità in cui si trovava l’Italia e del rischio a cui avrebbero esposto la popolazione e gli operatori sanitari non prendendo iniziative idonee”.

L’Italia, quando scoppiò l’epidemia di Covid, “aveva un manuale di istruzione, questo era il piano pandemico. Se poi ha affrontato la pandemia senza un manuale è perché questo (…) è stato scartato a priori senza essere valutato dai principali organi tecnici del ministero”, ai quali l’ex ministro Speranza “fa riferimento (…) quando afferma che il piano era datato e non costruito specificamente su un coronavirus ma su un virus influenzale”.

Crisanti, nel sostenere ciò, si riporta tra l’altro alle dichiarazioni spontanee rese da Claudio D’Amario, ex direttore generale della Prevenzione sanitaria del ministero e ora indagato, “che gettano luce sul processo decisionale che ha portato a ignorare il Piano pandemico nazionale”.

Secondo la relazione “era l’unico documento operativo a disposizione che, sebbene non perfettamente allineato con le più recenti indicazioni di Oms conteneva ben dettagliate una serie di azioni (…) per contrastare la diffusione” del Covid. Crisanti, sempre proseguendo nella spiegazione del processo decisionale che portò a scartare il piano pandemico del 2006, ricorda che fu Silvio Brusaferro, alla guida del Iss e anche lui ora tra i 19 indagati, a proporre una “soluzione alternativa” e ipotizza che tale scelta sia stata fatta “dopo un’attenta valutazione tecnico scientifica”. Ma lo stesso Brusaferro, quando venne sentito come teste dai pm bergamaschi, alla domanda “quando ha letto per la prima volta il piano pandemico del 2006?'”ha risposto: “nessuno lo ha mai portato alla mia attenzione. Ho letto, come presidente dell’Iss, per la prima volta il piano pandemico del 2006, nel maggio 2020”

Cinque allarmi dell’Oms “ignorati”, tra il 5 gennaio e il 4 febbraio 2020: raccomandazioni, dichiarazioni e documenti di “allerta”, tra cui uno del 23 gennaio che riportava già “l’esistenza di grandi cluster” in giro per il mondo e non solo in Cina.

E almeno cinque riunioni del Comitato tecnico scientifico, tra il 26 febbraio e il primo marzo, nelle quali, malgrado la zona rossa fosse stata già applicata nel Lodigiano dopo la scoperta del paziente 1 e nei rapporti aggiornati fosse stato segnalato un “incremento giornaliero” di casi Covid in Lombardia del “30%”, non si prese alcuna misura per il focolaio più grave, quello di Alzano e Nembro, in Val Seriana.

Sono altri numeri che compaiono negli atti dell’indagine della Procura di Bergamo, documentando presunte sottovalutazioni dei rischi e omissioni “consapevoli”, oltre a quella cifra di più di 4mila morti che, secondo la maxi consulenza di Andrea Crisanti, si sarebbero potuti evitare.

Così sulla contestata mancata applicazione del piano pandemico, pur vecchio di 14 anni, che tira in ballo per epidemia colposa e rifiuto d’atti d’ufficio anche il direttore dell’Iss Silvio Brusaferro e l’allora ministro della Salute Roberto Speranza, gli inquirenti evidenziano che non furono tenute in considerazione preoccupazioni e indicazioni messe nero su bianco dall’Organizzazione mondiale della Sanità. E questo prima che l’Italia si accorgesse del virus col caso di Codogno.

Il 4 febbraio, si legge, l’Oms “raccomandava di affrontare l’emergenza pandemica anche con i vigenti piani influenzali”, per non parlare di documenti anche del 2014, anche questi acquisiti dai pm, nei quali si diceva di contrastare “le malattie da coronavirus” con “l’implementazione del piano pandemico”. Brusaferro e gli altri, invece, per l’accusa, scelsero “di non dare attuazione al piano”. Così, in sostanza, si arrivò impreparati alla “catastrofe”.

Una “piattaforma per caricare i dati finalizzati alla sorveglianza epidemiologica” fu creata solo il 26 febbraio, non ci fu alcun “tempestivo approvvigionamento” di mascherine e solo il “6 marzo” partì una “procedura negoziata per l’acquisto di dispositivi medici per terapia intensiva”. E queste sono soltanto alcune delle “azioni” che, per i pm, non vennero messe in campo prima che l’Italia facesse i conti col Covid davvero.

Sull’altro fronte, ossia la mancata zona rossa nella Bergamasca, quando la pandemia era già esplosa, sono indagati l’ex premier Giuseppe Conte, il governatore Attilio Fontana e i componenti del Cts. E gli atti raccontano le riunioni in cui, pur con la consapevolezza dei dati alla mano, non si stabilì la chiusura della Val Seriana. Il 28 febbraio, si legge, il Comitato sapeva già che presto si sarebbe arrivati a “1000 casi” in Lombardia e che si andava verso un quadro “catastrofico”.

Non cambiarono le cose nemmeno in un vertice del primo marzo, l’ultimo indicato negli atti. Solo “misure meramente integrative”. Tra il 27 e il 28 febbraio, con due mail Fontana aveva chiesto a Conte “il sostanziale mantenimento delle misure di contenimento già vigenti” non segnalando “criticità” in Val Seriana.

Per i pm, tuttavia, sapeva che “nelle zone ad alta incidenza del contagio gli ospedali erano già in grave difficoltà”. Solo il 2 marzo il Cts riferì a Conte la “necessità” della zona rossa ad Alzano e Nembro e il 3 marzo anche Fontana, attraverso l’assessore Giulio Gallera, ne chiese l’istituzione. Si arrivò, comunque, all’8 marzo quando l’intera Lombardia finì in lockdown.

Con la chiusura delle indagini per 19 persone sulla gestione della pandemia da Covid-19, la procura di Bergamo accusa il vertice di Regione Lombardia, ma anche l’allora premier Giuseppe Conte e l’ex ministro della Salute Roberto Speranza, insieme ai membri del Comitato tecnico scientifico, di aver omesso quelle misure che avrebbero salvato dal contagio e dalla morte migliaia di persone.

Oltre alla mancata zona rossa, i pm Silvia Marchina e Paolo Mandurino, coordinati dal procuratore capo Antonio Chiappani e dall’aggiunto Cristina Rota, accusano la catena istituzionale e medica della mancata attuazione del Piano pandemico regionale: accusa di epidemia colposa anche per l’allora assessore lombardo al Welfare Giulio Gallera. Rispondono di epidemia, omicidio e lesioni colpose anche i dirigenti sanitari di Bergamo per le lacune nella gestione dell’ospedale di Alzano Lombardo.

“La motivazione principale mia e della procura – commenta il consulente dei pm e ora senatore Pd Andrea Crisanti – è stata tentare di restituire agli italiani la verità su quelli che sono stati i processi decisionali che hanno portato a determinate scelte”.

Se la “zona rossa” fosse stata estesa “a partire dal 27 febbraio 2020”, 4.148 residenti nel bergamasco sarebbero ancora vivi. Secondo i pm, il presidente dell’Istituto superiore di sanità Silvio Brusaferro e l’allora capo del Cts Agostino Miozzo, gli altri componenti del Comitato tecnico scientifico e i funzionari del ministero, indagati per epidemia colposa insieme a Fontana e Conte (atti trasferiti al Tribunale dei ministri), avevano a disposizione “tutti i dati per estenderla” ai comuni della Val Seriana.

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