Roberto Ricci, Presidente Invalsi, è intervenuto al webinar organizzato dall’Osservatorio Economico e Sociale Riparte l’Italia dal titolo “La ripartenza della scuola, sfida da vincere per il futuro”. L’evento, moderato da Elena Ugolini, già sottosegretaria all’Istruzione nel governo Monti, ha visto tra gli ospiti anche Stefano Versari, Capo del Dipartimento per il sistema educativo di istruzione e formazione del Ministero dell’istruzione.
Dopo due anni di scuole a singhiozzo, dal rapporto Invalsi sono emersi dati importanti, che ci aiutano a leggere quali sono i problemi più evidenti della nostra scuola.
A luglio abbiamo pubblicato i dati delle rilevazioni effettuate in primavera e cercando di sintetizzare mi preme mettere a fuoco alcuni punti. Intanto perché penso che sia nostro dovere in primo luogo come cittadini, soprattutto in un momento come questo, cercare di cogliere gli aspetti positivi, buoni, che accadono sotto i nostri occhi, nonostante le difficoltà della primavera scorsa che erano più intense e più forti rispetto a quelle che viviamo oggi per diversi tipi di ragioni, e la partecipazione delle scuole è stata elevatissima. E questo è un dato importante sul quale riflettere.
Detto questo, i dati delle rilevazioni della primavera del 2021 ci dicono alcune cose, alcune abbastanza prevedibili, altre, soprattutto nella loro intensità, un po’ meno. Cosa voglio dire? E’ ovvio ed è vero in tutti i contesti, quando accade un evento inatteso e inaspettato, chi si affaccia a quell’evento con maggiore debolezza, risente maggiormente di quell’evento. E purtroppo questo è successo anche per la scuola. Questo per dire che cosa? Che laddove nel tempo si erano accumulate situazioni di debolezza, disagio e difficoltà, gli effetti della pandemia sono stati più pesanti, proprio perché l’interruzione della scuola in presenza ha prodotto effetti negativi più consistenti.
Ci sono però alcuni elementi che ci devono far riflettere, che li vedrei un po’ come i due poli, i due estremi dello stesso problema. Da un lato, soprattutto nella scuola secondaria di primo e secondo grado, medie e superiori, sono troppo alte, inaccettabilmente alte le quote di studenti che non raggiungono nemmeno le soglie di accettabilità. Dove per soglie di accettabilità intendiamo il raggiungimento minimo dei traguardi previsti dalle indicazioni nazionali o dalle linee guide. E questo è un estremo del problema.
L’altro estremo che secondo me è l’altra faccia ma della stessa medaglia, è che troppo pochi sono gli studenti che hanno degli ottimi risultati. Perché non dobbiamo dividere questo tema, perché anche coltivare e sviluppare gli studenti bravi cercando di farli diventare nel numero sempre più grande possibile, è un problema. E la pandemia ha ridotto la quota di questi studenti soprattutto tra coloro che provenivano da situazioni più difficili.
Cercando di sintetizzare potremmo dire che la pandemia ha tolto benzina al motore dei buoni risultati agli studenti che provenivano da famiglie meno agiate nel senso più ampio del termine. Questo credo che sia un elemento che ci debba far riflettere.
Un altro aspetto che mi permetto di sottolineare è questo: la pandemia ci ha aiutato a capire come abbiamo bisogno di dati e di informazioni per prendere delle decisioni, che ovviamente non devono essere dettate solo dai dati, ma i dati ci permettono di capire fenomeni che altrimenti faremmo fatica a capire.
Se ci pensate la collettività nazionale ha impiegato un po’ di tempo a capire che non era importante vedere qual era il numero assoluto dei positivi in una giornata, ma è rapportare il numero dei positivi al numero dei testati. E questo, per fare un esempio molto semplice, fa emergere un fenomeno che altrimenti non vedrei.
Ecco, dai dati Invalsi emerge che la quota di studenti che termina la scuola secondaria di secondo grado senza avere minimamente le competenze che ci aspettiamo dovrebbe avere dopo 13 anni di scuola, purtroppo è passata da circa il 7% del 2019, molto poco, ad oltre il 9,5% nel 2021. Osserviamo attraverso dei dati dei fenomeni che altrimenti non coglieremmo, e come sempre ciò che rimane nascosto in questi contesti sfavorisce chi avrebbe più bisogno di aiuto.
Io credo che se vogliamo avere i giovani che siano in grado di riprendere in mano una situazione non facile (perché non ci dimentichiamo che molto di quello che stiamo sostenendo adesso lo stiamo facendo attraverso dei debiti, e quindi avremo bisogno di giovani in grado di avere la forza di reagire alla situazione che stiamo creando) se abbiamo troppi allievi troppo deboli e troppo pochi allievi bravi potremo avere tutte le risorse del mondo, ma non avremo le persone in grado di farle fruttare.
Ci dobbiamo far carico di rendere operative le intenzioni, le intenzioni ovviamente devono essere definite da chi guida il sistema scolastico e compito del dato è aiutare chi prende le decisioni a capire in quale misura queste intenzioni sono state raggiunte. Credo che siano molto di più le ragioni che ci uniscono, anche nei diversi punti di vista, rispetto a quelle che ci dividono. Quello che abbiamo imparato dalla pandemia è che ci dobbiamo focalizzare su queste, perché c’è in gioco non solo il futuro dei giovani, ma il futuro di tutta la società e quindi dobbiamo garantire un’inclusione agita, reale.
I dati fanno vedere che a mano a mano che si cresce con i livelli scolastici aumentano le differenze. Dovrebbe essere il contrario nella scuola, cioè la scuola dovrebbe garantire di ridurre le differenze e dare a tutti l’acqua necessaria per nuotare. Cosa vuol dire che ci sono ragazzi che non raggiungono il livello minimo? Forse non è chiara a tutti la gravità di questa situazione. L’altro tema è che vediamo questi dati, ma non riusciamo a fare nulla. Dal tuo osservatorio riesci a dire che cos’è che può incidere su questa situazione?
Cerchiamo di guardare in faccia cosa voglia dire stare al di sotto di questi livelli minimi, proprio per darci anche contezza della gravità del problema. Un ragazzo che dopo 13 anni di scuola non ha raggiunto quello che noi chiamiamo il livello minimo è per esempio un ragazzo che in quattro o cinque righe di un testo, se le informazioni che vengono date nel testo sono più distanti di due righe, non riesce a metterle insieme. Attenzione, non informazioni da intuire, bensì informazioni che vengono già date.
Oppure ragazzi che non sono in grado di ricostruire la successione temporale logica di un periodo, di una frase o un paio di frasi. Per esempio “i giocatori decidono di dare avvio alla partita dopo essersi assicurati di essere in 22. Qual è la successione temporale di queste azioni?”. Questi studenti fanno fatica a capire che il “dopo essersi assicurati di essere in 22”, anche se viene detto alla fine della frase, non è l’ultima azione compiuta, ma è logicamente la prima. Oppure un quadrato messo dritto sul foglio e uno uguale messo in diagonale, i ragazzi non sono in grado di capire che hanno la stessa superficie. Quindi parliamo di cose veramente basilari.
Credo che questo ci debba chiamare tutti all’urgenza del problema. Cosa fare nel concreto?
L’Invalsi, e qui mi tiro le orecchie da solo, deve essere chiaro, comunicativo, cerchiamo di sforzarci e dobbiamo fare ancora di più. Dal mio punto di vista, dal mio osservatorio, io credo che il modo migliore per affrontare il problema sia di non stracciarci le vesti e di affrontare concretamente le cose. Questo vuol dire che noi abbiamo le indicazioni nazionali, con dei traguardi, alcuni espressi meglio altri no, ma comunque ci sono. Molte delle cose che facciamo devono essere orientate a raggiungere quei traguardi. Non serve rispettare una tradizione che è la stessa magari da 50 anni.
Bisogna anche tenere conto che la società è cambiata, e quindi è anche nostro compito cercare di coinvolgere gli studenti rispetto al raggiungimento di questi traguardi. E questo non vuol dire derubricare gli obiettivi, ma con molta umiltà e anche concretezza puntare sugli aspetti che le scuole e gli insegnanti in scienza e coscienza ritengono fondamentali.
Dal suo osservatorio e dalle risposte dei ragazzi, si possono vedere quali sono i fattori che incidono positivamente sull’apprendimento?
Questa domanda va al cuore del problema, perché se riusciamo a trovare quei fattori che facilitano l’apprendimento, troviamo la strada dalla quale partire. Su questo, non solo i dati dei nostri questionari, ma anche una letteratura molto vasta ci dicono che la cosa non è semplice. Però alcune cose le vediamo. Alcune sembrano ovvietà, ma dobbiamo capire la rilevanza anche delle cose ovvie.
Intanto, la capacità degli adulti in generale nel creare negli studenti una visione di come si identificano, come si immaginano da lì ad alcuni anni. Non è tanto importante se si immaginano di fare l’astronauta o di guidare il treno, ma l’importante è che abbiano un’idea di che cosa vogliano fare. Quindi aiutare gli studenti ad avere un senso di prospettiva, che poi anche se si modifica non è un problema. Questo, se noi come adulti ci chiediamo quante volte lo facciamo, non credo che ne usciamo proprio soddisfattissimi.
Secondo elemento che pesa tanto, e che ci impone di porre grande attenzione da subito, e intendo proprio dalla scuola di infanzia, è che la variabile che incide maggiormente è il livello di preparazione che mano a mano si accumula. Ossia ogni livello di preparazione che ho accumulato nel passaggio precedente è il trampolino più forte per avere successo nelle fasi successive. Quindi l’attenzione che deve essere riservata alla scuola dell’infanzia, alla scuola primaria e via via a tutti gli altri ordini di scuola, è fondamentale. Non facciamo l’errore di pensare che la scuola per i piccoli sia una piccola scuola. Tutt’altro, è una scuola determinante.
Un tema su cui è più difficile intervenire è la disponibilità di risorse culturali, nel senso più ampio del termine, non solo i classici libri, ma tanti altri elementi hanno una forza predittiva nei confronti degli studenti. Quindi motivazione, prospettiva verso gli studenti e poi ambienti che favoriscano l’apprendimento.
A mio giudizio, e questo non emerge dai dati Invalsi, ma c’è molta letteratura in questo senso, una scuola che è consapevole del proprio ruolo ma in una società che è consapevole del ruolo della scuola riesce a fare tanto.
Se posso dire una cosa, ci sono anche dei messaggi positivi che sono emersi dalla pandemia. Uno è che la scuola conta tantissimo. La scuola, pur con tutti i problemi che ci sono, comunque fa la differenza. Questo vuol dire che noi delle cose le possiamo spostare guardandole in faccia. Lo studente va veramente messo al centro, stando molto attenti alle differenze che si vengono a creare a volte indotte anche senza volerlo.
Come campanello d’allarme è che noi assistiamo da diversi anni, anche prima della pandemia, a una trasformazione persino della scuola primaria, ma soprattutto della scuola media, verso un modello strisciante di scuola superiore. Questo fa tanto male ai nostri studenti, soprattutto a quelli più deboli.
Attenzione quindi alle differenze, come anche ai gap formativi. Noi non possiamo sopportare di avere dei fantasmi in classe. Se i buchi che magari all’inizio sono piccoli e non vengono colmati, poi divengono delle voragini?
Esatto, solo che a volte sono delle gabbie che ci creiamo da soli, solo che il cancello non è chiuso… apriamolo! Non confondiamo dei fattori che determinano da elementi organizzativi con obblighi. Non sono scritti da nessuna parte. Voglio dire che le differenze ci sono, ma questo non deve giustificare il fatto che io sia messo in un angolo o che sia normale e accettabile che io perda il ritmo. Il cancello si può aprire concentrandosi sugli elementi fondamentali, e le indicazioni nazionali sono un’ottima cartina di tornasole.
Chi pensa che il ritorno a bocciatura a man bassa sia la soluzione a tutti i problemi lo dimostri. E non lo è mai stato, in realtà è un’apparente soluzione, semplicemente perché quelli li cacciavi fuori dalla scuola e nel loro banco non li vedevi più, ma li vedeva qualcun’altro.
Come fai a dire che non serve la bocciatura? Non è giusto il rigore e la responsabilità?
Sì, assolutamente, però ciò che conta è la misura delle cose. La bocciatura è un estremo rimedio che in alcuni casi può servire. Ma io boccio quando mi sono tuffato tutte le volte e ho provato a portarti a galla, ma alla fine non ci sono riuscito. E portarti a galla vuol dire accontentarmi di raggiungere i traguardi fondamentali. Quanto tempo sprechiamo in altre cose? Possiamo inventarci delle cose che sono già nell’ordinamento.
Se non facciamo così, anche l’idea apparentemente buona di non avere classi troppo affollate diventa una risorsa nel momento in cui io faccio una didattica diversa, perché se poi io faccio la stessa didattica che facevo su 23 su 15, non cambia niente. E’ questo che deve essere messo in gioco. Se allora averne 15 mi consente di curare i bravi e quelli meno bravi, va bene, se invece continuo a dire “questo è il mio livello, sei tu che lo devi raggiungere”, allora tanto vale fare classi da 30 studenti.
Nei dati Invalsi, chi viene bocciato, l’anno dopo fa peggio, e questo non succede solo in Italia. L’accumulo anche di una sola ripetenza diventa una sorta di bivio dove le strade si separano, pur se ci sono poi le eccezioni. Di fatto la bocciatura risponde a un’esigenza organizzativa del sistema scolastico. Se immaginiamo che io ti boccio e poi tu riprendi e recuperi il tuo percorso, questo nei numeri non c’è.
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