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Lucio Poma (economista Nomisma): «Dobbiamo avvicinare i giovani agli Istituti tecnici e puntare su competenze specifiche»

Secondo quanto emerge dalle statistiche Istat del secondo trimestre 2021, i posti di lavoro vacanti in Italia sono circa 250 mila. Posti liberi retribuiti e contendibili, ma non ci sono candidati. Impieghi, chiarisce l’Istat, «per i quali il datore di lavoro cerchi attivamente un candidato adatto al di fuori dell’impresa interessata e sia disposto a fare sforzi supplementari per trovarlo».

Ci sono oltre due milioni e mezzo di disoccupati e 14 milioni di inattivi, che per diverse ragioni non fanno parte della forza lavoro. In teoria, una massa potenzialmente enorme di manodopera che potrebbe produrre ricchezza. Ma nella pratica, un esercito di cittadini per la gran parte fuori dal mercato.

Questo spiega perché moltissime aziende lamentano di non riuscire a reperire migliaia di profili professionali. «Cerchiamo disperatamente figure da assumere, ma agli annunci non risponde nessuno», è il refrain degli imprenditori. «È un problema salariale, non pagate abbastanza i dipendenti», è la risposta standard dei sindacati. La realtà è molto più complicata e la politica sembra faticare a comprenderla, soprattutto quando tira in ballo il reddito di cittadinanza che «permette ai giovani di stare sul divano invece di faticare».

Nel secondo trimestre 2021, il tasso di posti vacanti destagionalizzato si attesta all’1,3% nel complesso delle attività economiche, all’1,4% nell’industria e all’1,6% nei servizi. Il confronto con il trimestre precedente mostra un incremento più marcato nei servizi (+0,5 punti percentuali) e più debole nell’industria (+0,2).

Randstad Research, il centro di ricerca della multinazionale specializzata in risorse umane, nei mesi scorsi ha stilato un rapporto sul “matching”, lanciando un allarme sulla ripresa post Covid che «rischia di riproporre il paradosso di un elevato livello di disoccupazione associato alla difficoltà di riempire i posti di lavoro dai quali dipendono la qualità e la sostenibilità della ripresa stessa». Per il 58% delle aziende intervistate da Randstad sono le carenze tecnologiche e tecnico-scientifiche a essere rilevanti nella difficoltà di reperimento.

Negli ultimi cinque anni, prima dell’arrivo dell’emergenza sanitaria, la composizione degli occupati è molto cambiata. Ci sono, per esempio, 140.000 contabili e 145.000 muratori in meno. Al contempo 144.000 magazzinieri non qualificati e 77.000 camerieri in più. È vero che sono cresciute alcune professioni chiave, con un aumento degli specialisti in marketing (92.000), degli analisti software (solo 86.000). Ma tutto ciò non basta. Si assiste comunque alla mancanza sia di addetti altamente specializzati che di quelli con poche (o zero) competenze.

Nell’indagine di Randstad Research, le assunzioni con maggior difficoltà di reperimento vedono queste cinque categorie in cima alla classifica: camerieri, cuochi, conduttori di mezzi pesanti e camion, commessi, tecnici della vendita e della distribuzione. Se invece, si prendono in considerazione le qualifiche con maggior tasso di difficoltà di reperimento sul totale delle assunzioni pianificate, questi sono i profili: tecnici meccanici, programmatori, saldatori e tagliatori a fiamma, analisti e progettisti di software, specialisti di saldatura elettrica. Per l’Ance, gli operai specializzati nell’edilizia e nella manutenzione degli edifici sono introvabili.

Così in Italia, ma lo stesso scenario si vive in Europa, nel Regno Unito e anche negli Stati Uniti. «È una questione importantissima ed è più vecchia del Covid, il virus ha amplificato alcuni problemi, nonostante il nostro Paese adesso stia andando benissimo dal punto di vista economico» dice Lucio Poma, capo economista di Nomisma .

Ma questi sono problemi strutturali e derivano dalla grande rivoluzione che si chiama Industria 4.0. Non è una rivoluzione solo tecnologica, è molto più ampia. Il packaging, la farmaceutica, l’automotive: in questi settori ci sono imprese che fanno fatica a trovare i giovani che servono».

Da un lato abbiamo un tasso di disoccupazione giovanile molto alto e dall’altro molte aziende non trovano i giovani. Com’è possibile?

«Non è che non ci sono i giovani pronti a lavorare, sono le imprese che non trovano le competenze richieste: ingegneri informatici, fisici, matematici e così via. Poi ci sono tutti quegli addetti che lavorano con le macchine ed escono dagli istituti tecnici scientifici». Secondo l’economista «ci sono due sfide da vincere: la prima è avvicinare i nostri giovani agli istituti tecnici e il ministro dell’Istruzione Bianchi sta puntando molto su questo. Bisogna smetterla di pensare che gli istituti professionali siano una seconda scelta rispetto ai licei, questo è un fenomeno tipicamente italiano».

«La seconda questione è che le competenze che servono sono sempre meno generali e sempre più particolari. Le migliori imprese, infatti, stanno investendo nella formazione interna, hanno anche le academy perché c’è bisogno di formare i lavoratori sul tipo di tecnologia che quella impresa sta utilizzando. Se potessero, a questi addetti farebbero un contratto a vita: temono che dopo aver investito tanto su una persona, poi vada con la concorrenza»

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