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Stefano Micossi (economista): «Ecco quali sono le difficoltà al tetto al prezzo del gas»

L’energia rimane una delle principali preoccupazioni per i cittadini europei, che attendono con ansia «l’ambizioso pacchetto annunciato dalla Commissione europea per affrontare la crisi energetica e contenere i prezzi del gas e dell’elettricità, che non ha ancora trovato il consenso degli Stati membri». A spiegarlo è l’economista Stefano Micossi.

«La pressione dell’opinione pubblica è forte, dunque un accordo non può mancare. Sulla proposta italiana di un tetto al prezzo del gas la strada resta in salita, dato che non si riesce ancora a stabilire la portata della misura: solo alle esportazioni russe o a tutte le vendite di gas? E imponendolo a quali imprese, solo le utilities o anche agli auto-produttori che scaricano sul mercato piccoli eccessi di produzione? Solo sul prezzo del gas o anche sul prezzo dell’energia prodotta con energie rinnovabili?» spiega Micossi dalle colonne del magazine digitale Inpiù.net.

«La soluzione a ciascuna di queste domande ha implicazioni profonde per i produttori di energia, molto diverse da paese a paese. Sappiamo anche che la Russia con ogni probabilità sospenderà le forniture di gas all’Europa se questa cercasse di applicare un tetto al prezzo delle sue esportazioni, ma questo farebbe saltare il prezzo del gas ancora più in alto. Inevitabilmente, il tetto al prezzo del gas implicherebbe razionamenti che possono indurre forti segmentazioni di offerta nel mercato interno, compromettendone il funzionamento», scrive sul magazine online InPiù.net.

«Una misura sulla quale invece un consenso starebbe emergendo è quella di una tassa di scopo sui profitti delle imprese produttrici di energia, i cui proventi – stimati ora dalla Commissione in 140 miliardi di euro – sarebbero poi redistribuiti a famiglie e imprese in maggior sofferenza. La Commissione, però, vuol seguire la strada di tassare i maggiori profitti derivanti dalla lievitazione dei prezzi di gas ed elettricità (gli “extra-profitti”). Ciò implica di transitare attraverso la corporate income tax, attendendo le dichiarazioni dei redditi per accertare i maggiori utili e, poi, una distribuzione dei proventi attraverso il bilancio pubblico. Di certo non si privilegerebbero l’urgenza né l’efficacia».

«A ragion veduta il governo italiano ha seguito la strada diversa di colpire un “indicatore” degli utili, definito da una variabile osservabile immediatamente, e cioè l’incremento delle transazioni Iva rispetto a un anno base. La misura è apparsa criticabile sia nella scelta dell’anno base, il 2020, che fu l’anno della crisi pandemica più acuta, dunque con transazioni Iva anormalmente basse; sia nella definizione della base imponibile, che includeva anche operazioni che con gli utili proprio non c’entrano (qualche aggiustamento ora è in corso). Ma l’impostazione era quella giusta: scegliere una base imponibile immediatamente osservabile e applicare subito l’imposta, rendendo le risorse immediatamente disponibili per aiutare famiglie e imprese. Se c’è ancora tempo, il nostro governo dovrebbe far valere con la Commissione la sua superiore saggezza, evitando in ogni caso di seguire la Commissione su una strada sbagliata».

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