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L’UE perde la gara con gli aiuti USA su digitale e green | Lo scenario

Senza innescare una dannosa guerra dei sussidi tra le due sponde dell’Atlantico, l’Ue può e deve fare di più per la politica industriale.

Nel confronto con Washington sugli strumenti messi in atto, secondo Assonime, l’associazione delle società italiane per azioni, Bruxelles esce perdente.

E non tanto per le strategie o la volontà di semplificare, ma per la fragilità degli strumenti che vengono in larga parte lasciati ai singoli Stati.

“Con il risultato – dice Stefano Firpo, direttore generale dell’associazione al Sole 24 Ore – di frammentare il mercato unico a favore degli Stati con spazi fiscali maggiori”.

Il Quaderno sulla politica industriale europea di Assonime sarà presentato giovedì in occasione dell’assemblea biennale alla quale parteciperà il capo dello Stato Sergio Mattarella e alla quale interverranno anche il commissario Ue per l’Economia Paolo Gentiloni, il ministro degli Affari Ue, Pnrr e coesione Raffaele Fitto e il viceministro dell’Economia Maurizio Leo.

Secondo Firpo “bisogna scongiurare una guerra dei sussidi Ue-Usa, evitare la corsa al buy european in contrapposizione al buy american e disegnare una politica industriale comune che vada oltre un generalizzato rilassamento delle norme sugli aiuti di Stato puntando a strumenti centralizzati di incentivazione”.

Il rapporto passa in rassegna l’Ira (Inflation reduction act) degli Stati Uniti per la transizione verde, con una dotazione di 400 miliardi di dollari, e il pacchetto europeo che dando seguito al Piano industriale del Green deal è stato al momento declinato nel Critical raw materials act (per una maggiora autonomia sulle materie prime critiche), nel Net-Zero industry Act (produzione europea per almeno il 40% del fabbisogno delle tecnologie green strategiche) e nella proposta di riforma del mercato elettrico europeo.

Sempre in attesa di un possibile Fondo sovrano.

A emergere è la sproporzione tra gli obiettivi di autonomia strategica e le azioni proposte.

“Servirebbero investimenti molto significativi, nell’ordine delle decine se non delle centinaia di miliardi di euro tra capex e opex, tutti in larga misura non contemplati a oggi nei piani delle imprese”.

In sostanza, fa notare Firpo, “lo sforzo maggiore in termini di sostegno e attivazione di risorse è lasciato quasi esclusivamente nelle mani degli Stati membri per mezzo di un abbassamento della guardia sugli aiuti”.

Le misure Usa appaiono di più facile applicazione (crediti di imposta per 10 anni) rispetto a quelle europee, vincolate tra l’altro alla soluzione di specifici fallimenti di mercato.

Inoltre, a differenza degli incentivi americani, al di là di poche eccezioni, quelli europei sono limitati alle spese in conto capitale e non si applicano ai costi operativi (opex).

C’è poi un fattore di intensità.

Un’impresa che produce componenti per pannelli fotovoltaici negli Usa può ottenere un credito di imposta fino al 60%, nella Ue si arriva tra il 40 e il 60% solo nelle regioni particolarmente svantaggiate e per investimenti fino a 350 milioni, oppure per le piccole imprese.

“Da un lato – aggiunge Firpo – l’Ira costituisce una scossa positiva per l’Europa perché dimostra che si possono perseguire gli obiettivi della digitalizzazione e della transizione ecologica incentivando l’industria e non solo regolamentandola e fissando oneri aggiuntivi.

Dall’altro l’Europa ora deve accelerare su una politica adeguata, che resti compatibile con un sistema multilaterale di libero scambio.

C’è da considerare anche un tema di riconfigurazione delle produzioni per esigenza di derisking dalle dipendenze strategiche.

Non si può continuare a perseguire un modello di sviluppo basato su uno schema neo-mercantilista di crescita basata sulle esportazioni”.

Se si guarda al livello di diffusione al 2030 cui ambisce la Commissione per pannelli fotovoltaici o elettrolizzatori, ad esempio, la produzione attuale è, rispettivamente, appena all’1,9% e 9,2%.

Tra le proposte di Assonime c’è una revisione dello strumento Ipcei (gli Important projects of common european interest che finanziano ad esempio la ricerca su chip, batterie, idrogeno) estendendolo all’ambito della produzione, prevedendo anche una fonte di finanziamento centrale, europea, accanto a quelle attuali, cioè degli Stati membri e dei privati, e un accentramento nelle mani della stessa Commissione per garantire un coordinamento su progetti multi-Paese e un taglio dei tempi di autorizzazione che oggi sono anche di un anno e mezzo.

Nel suo rapporto, Assonime esplora la possibilità di individuare nuovi canali di finanziamento del bilancio Ue per coprire le esigenze della politica industriale europea.

“Sicuramente serve una capacità fiscale centrale, che poi si espliciti in un Fondo sovrano può non essere rilevante”, commenta Firpo, aggiungendo che “le maggiori risorse necessarie per finanziare il bilancio Ue dovrebbero comunque godere di una certa autonomia rispetto ai trasferimenti degli Stati membri”.

L’idea è puntare sulla Befit che andrebbe a determinare una base imponibile comune per le società europee con più di 750 milioni di fatturato, su cui innestare una aliquota d’imposta compatibile con la Global minimum tax e che potrebbe sostituire in toto o in parte le Ires nazionali per questa categoria di imprese.

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