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[L’analisi] L’indipendenza di Taiwan come l’Ucraina. Ecco perché può deflagrare il conflitto tra Usa e Cina

La questione di Taiwan è il nodo irrisolto delle relazioni tra Cina e Stati Uniti: la Cina la rivendica come parte del proprio territorio nazionale e ne promette la “riunificazione”, mentre gli Stati Uniti promettono di difenderla anche a costo di ricorrere alla forza militare qualora Pechino tentasse di invaderla. Oggi la tensione tra Pechino e Washington tocca un nuovo picco con l’avvertimento pronunciato a Tokyo dal presidente Usa, Joe Biden. Lo status internazionale di Taiwan è determinato dalla politica della “unica Cina” – in base alla quale il riconoscimento formale di Pechino implica la rottura dei rapporti diplomatici con Taipei – e il cui effetto è stato di portare l’isola a un progressivo isolamento.

L’unica Cina

La politica della “unica Cina” si accompagna al principio che porta lo stesso nome – in base al quale Pechino considera l’isola una parte del proprio territorio, destinata alla riunificazione – e non riconosciuto oggi da Taipei. La politica dell’unica Cina è alla base stessa delle relazioni tra Cina e Stati Uniti, in base agli accordi presi per lo stabilimento delle relazioni diplomatiche nel 1979, quando gli Usa hanno rotto i rapporti ufficiali con Taiwan. La relazione tra Cina e Stati Uniti è legata ai tre comunicati congiunti nei quali Washington dichiara di riconoscere – usando il verbo “acknowledge” con una sfumatura meno forte del verbo “recognize” – la posizione di Pechino, in base alla quale esiste una sola Cina e Taiwan è parte della Cina.

Il rapporto degli Stati Uniti con l’isola è legato, poi, al Taiwan Relations Act, che garantisce il supporto di Washington a Taipei. Il Taiwan Relations Act mette in chiaro che l’avvio delle relazioni diplomatiche con la Repubblica Popolare Cinese si basa sull’aspettativa che il futuro di Taiwan sia determinato con “mezzi pacifici” e stabilisce che Washington potrà fornire armi all’isola, punto su cui sia la Cina e che gli Stati Uniti ammettono di non avere trovato un accordo, e che irrita costantemente Pechino all’annuncio di ogni commessa di Washington a Taipei.

La storia della contesa

Con la sconfitta nella guerra civile contro i comunisti di Mao Zedong, nel 1949, i nazionalisti di Chiang Kai-shek si ritirarono a Taiwan, facendone la sede del governo della Repubblica di Cina: sia Pechino che Taipei rivendicarono di rappresentare tutta la Cina, e da allora Pechino non ha mai rinunciato all’opzione del ricorso alla forza militare per riconquistare l’isola, pur sostenendo la “riunificazione pacifica” di Taiwan alla Repubblica Popolare Cinese.

La situazione di Taiwan cambiò con gli anni Settanta, quando gli Stati Uniti iniziarono a stringere relazioni con la Cina, culminate nel riconoscimento diplomatico di Pechino nel 1979: oltre agli Usa anche molti altri Paesi hanno spostato le loro sedi diplomatiche da Taipei a Pechino. Con la rottura di molte relazioni diplomatiche, Taiwan è riconosciuta da soli 14 Paesi al mondo, in gran parte Stati insulari del Pacifico e dei Caraibi.

Nel 1971, inoltre, Taiwan ha perso il suo seggio alle Nazioni Unite: la sua partecipazione a eventi internazionali come le Olimpiadi è legata all’utilizzo di denominazioni dell’isola che non accennino a un suo status di sovranità, ed è sempre più minacciata dall’opposizione della Cina. Ciò nonostante, molti Paesi mantengono rapporti non ufficiali con Taiwan sul piano economico, commerciale e culturale. Il principio dell’unica Cina a cui spesso fa riferimento la diplomazia di Pechino nelle dichiarazioni in cui respinge ogni “intromissione” nella questione di Taiwan è frutto, invece, di un “consenso” risalente al 1992 tra rappresentanti dei due lati dello Stretto.

Il patto del 1992

L’interpretazione del concetto di “unica Cina” è però tutt’altro che univoca: nel 2015, durante lo storico summit di Singapore con il presidente cinese, Xi Jinping, il presidente di Taiwan, Ma Ying-jeou, ha sottolineato che il principio comprende le divergenze di opinioni tra i due lati dello Stretto e che entrambe le parti possono esprimere le rispettive interpretazioni «ad alta voce». La parziale sintonia tra Cina e Taiwan dopo il vertice di Singapore è durata poco. I rapporti tra Pechino e Taipei sono peggiorati nel 2016, con l’arrivo al vertice dell’isola di Tsai Ing-wen – rieletta a inizio 2020 per un secondo mandato presidenziale – che non ha mai dichiarato di riconoscere il principio della “unica Cina”, in un chiaro strappo rispetto alla linea adottata dal suo predecessore.

Al contrario, per la presidente di Taiwan, che chiede il mantenimento dello status quo nello Stretto, l’isola è già di fatto indipendente, e il «consenso del 1992» è un mero «fatto storico», avvenuto prima delle riforme costituzionali di metà anni Novanta, che hanno portato, nel 1996, alle prime elezioni dirette per il presidente dell’isola. La posizione di Tsai rappresenta uno smacco per Pechino, che considera la presidente di Taiwan e il suo partito – il Partito Democratico-progressista – un covo di «indipendentisti» a cui gli Stati Uniti inviano «messaggi sbagliati» con il loro sostegno, irritando Pechino che richiama periodicamente Washington al rispetto degli accordi presi nei tre comunicati congiunti.

Il modello cinese fallito in partenza

La Cina punta alla riunificazione con Taiwan tramite il modello “un Paese, due sistemi”, già in vigore per Hong Kong e Macao, dopo il ritorno alla Cina delle ex colonie, rispettivamente nel 1997 e nel 1999. La proposta, più volte ventilata da Pechino, è stata più volte respinta da Taiwan, e così avvenne anche nel 2019, nel pieno delle proteste pro-democrazia di Hong Kong, represse da Pechino con l’imposizione di una legge sulla sicurezza nazionale nella città.

Il modello “un Paese, due sistemi” applicato a Hong Kong è considerato ormai lettera morta dalla comunità internazionale – in particolare dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna – in seguito alla repressione di Pechino, e la stessa Tsai ne aveva rifiutato l’applicazione per l’isola. La sua attuazione, aveva detto, ha portato Hong Kong «sull’orlo del caos», e Taiwan si sarebbe difesa dalle offensive diplomatiche e dalla coercizione militare di Pechino. Il deterioramento dei rapporti ha riguardato pressoché ogni aspetto delle relazioni tra Pechino e Taipei. Sul piano diplomatico, in pochi anni, otto Paesi sono passati a riconoscere la Cina rompendo i legami con Taiwan, rimasta con soli 14 alleati diplomatici.

La strategia di Pechino

Sul piano economico, Pechino ha messo in atto diverse forme di coercizione contro le aziende straniere (dai brand della moda alle linee aeree) che omettevano riferimenti chiari all’appartenenza dell’isola al territorio cinese. L’ultima grande mossa di Pechino per ostacolare Taiwan sul piano economico risale al settembre scorso, quando la Cina ha presentato con una settimana di anticipo rispetto all’isola la propria candidatura alla Comprehensive and Progressive Trans-Pacific Partnership. La possibilità di aderire al patto di libero scambio che comprende undici Paesi che si affacciano sul Pacifico marginalizzerebbe l’isola, per la manifesta opposizione della Cina alla partecipazione in qualsiasi forma di Taiwan ai consessi internazionali: le ricadute negative per una possibile esclusione di Taipei dalla Cptpp sono stimate da Taipei in almeno mezzo punto percentuale di prodotto interno lordo.

È, però, sul piano militare che la pressione si è fatta più intensa: i 150 aerei da combattimento cinesi che in cinque giorni hanno solcato i cieli dell’isola tra l’1 e il 5 ottobre scorsi sono solo l’esempio più evidente della pressione di Pechino, che quotidianamente viola lo spazio di Difesa aerea di Taiwan, e che si compone anche di transiti nello Stretto o al largo delle coste orientali dell’isola di proprie unità navali, e di esercitazioni mirate. Taiwan ha risposto aumentando il budget destinato alla Difesa per fronteggiare una minaccia di invasione percepita come sempre più reale e che, secondo le parole del ministro della Difesa Chiu Kuo-cheng, potrebbe realizzarsi già entro il 2025.

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