Analisi, scenari, inchieste, idee per costruire l'Italia del futuro

[L’intervento] Gian Carlo Blangiardo (presidente ISTAT): «L’inasprimento delle sanzioni su gas e petrolio russi avrà effetti devastanti sul PIL»

Il presidente dell’Istat Gian Carlo Blangiardo è stato sentito in audizione sulle previsioni connesse all’esame del Documento di economia e finanza 2022 e ha ricordato quale sarebbe l’effetto di un inasprimento delle sanzioni su gas e petrolio russi: “Un tasso di crescita del Pil inferiore rispetto alle previsioni tendenziali di 0,8 punti percentuali nel 2022 e 1,1 nel 2023, mentre il tasso di inflazione risulterebbe più alto di 1,2 punti nel 2022”.

Dati di ‘peso’ considerato anche l’elevato valore dell’interscambio: nel 2021 le importazioni italiane di merci dalla Russia hanno raggiunto il valore di 17,6 miliardi di euro, mentre le importazioni di merci dall’Ucraina sono ammontate a 3,3 miliardi di euro. In Italia intanto i consumi iniziano ad arrancare: considerando il trimestre dicembre-febbraio, le vendite sono stimate in calo (-0,4%). E un’ultima previsione negativa: “l’inevitabile azzeramento” della domanda russa di turismo “che avrà un importante impatto sui ricavi”.

Riportiamo di seguito il suo intervento integrale.

Introduzione

In questa audizione mi soffermerò sull’evoluzione recente dell’economia italiana e presenterò alcuni elementi di valutazione del quadro tendenziale proposto nel DEF oggi in discussione. Come è noto, siamo in una fase di accresciuta incertezza, caratterizzata dal diffondersi di robuste spinte inflazionistiche, a cui si sono aggiunti negli ultimi mesi i forti rischi di natura geopolitica dovuti al conflitto in Ucraina, che avranno – con ogni probabilità – effetti rilevanti sull’economia, seppure al momento di difficile previsione. Infine, richiamerò brevemente lo scenario demografico del 2021, un quadro che mostra ancora i segni dello shock indotto dalla pandemia.

L’evoluzione recente dell’economia italiana

Il contesto internazionale (1)

Dopo l’intensa fase di ripresa osservata nel 2021 nelle principali economie mondiali, il 2022 si è aperto con una stabilizzazione del commercio mondiale di merci in volume (a gennaio, secondo il Central Planning Bureau, la variazione in termini congiunturali rispetto a dicembre è stata nulla), insieme a un deterioramento delle prospettive per gli scambi internazionali. Il PMI globale sui nuovi ordinativi all’export di marzo è, infatti, sceso sotto la soglia di espansione, segnalando una possibile contrazione della domanda mondiale nei prossimi mesi.

Nello scenario globale il conflitto tra Russia e Ucraina ha accentuato le tensioni nei mercati delle materie prime, innescate già dallo scorso anno dalle strozzature sul lato dell’offerta. A marzo, hanno continuato ad accelerare i prezzi del gas europeo (+56% in termini congiunturali) e, in misura minore, quelli del petrolio (+21,0%) e dei beni alimentari (+11,6%).

Nel corso del 2021, l’accelerazione dell’inflazione si è manifestata prima – e in misura più accentuata – negli Stati Uniti, sospinta anche dalla forte ripresa dell’economia (2). Dalla fine dello scorso anno, l’aumento dei prezzi si è diffuso velocemente all’area dell’euro, alimentato dalla risalita delle quotazioni del gas sul mercato europeo. A marzo, in termini tendenziali, l’inflazione euro headline (7,5%, da 5,9% di febbraio) e quella core (3,2%) si sono collocate sui massimi dal 1998, sostenute dall’andamento dei prezzi energetici, ma con aumenti diffusi tra le componenti.

In Cina, la risalita dei prezzi è risultata invece modesta grazie all’andamento dei listini dei prodotti alimentari, condizionati dalle nuove misure di lockdown e da alcuni fattori temporanei (3). A marzo, tuttavia, anche i prezzi al consumo cinesi hanno registrato un aumento significativo (+1,5% tendenziale, dallo +0,9% di febbraio).

Le prospettive di una politica monetaria più restrittiva da parte della Federal Reserve e la preferenza degli investitori per mercati più stabili hanno amplificato l’apprezzamento del dollaro che, a marzo, è stato scambiato in media a 1,10 dollari per euro (1,13 dollari per euro a febbraio). Le prospettive per l’economia americana restano moderatamente positive. La fiducia dei consumatori rilevata lo scorso mese dal Conference Board ha registrato un modesto rialzo: ad essere migliorate sono le condizioni correnti per economia e mercato del lavoro, mentre peggiorano le aspettative per il futuro.

Nell’area dell’euro, i dati congiunturali non incorporano necessariamente ancora gli effetti delle tensioni geopolitiche. A febbraio, le vendite al dettaglio in volume sono cresciute dello 0,3% congiunturale (+0,2% il mese precedente) e tutte le principali componenti di spesa hanno superato i livelli pre-Covid, con l’esclusione di carburanti e abbigliamento, che continuano a risentire delle limitazioni alla mobilità. Nello stesso mese, il tasso di disoccupazione è sceso al 6,8% (+6,9% a gennaio). I giudizi degli operatori sulle prospettive per l’Area euro hanno subito comunque un peggioramento: l’indice composito ESI della Commissione Europea a marzo è tornato appena al di sotto del valore, relativamente elevato, registrato ad aprile 2021. L’impatto del conflitto ha determinato anche un forte incremento delle aspettative delle imprese sui prezzi di vendita, che hanno toccato nuovi massimi storici.

(1) Il quadro recente degli andamenti dell’economia internazionale e nazionale è descritto con maggior dettaglio nella “Nota mensile sull’andamento dell’economia italiana” diffusa ieri.
(https://www.istat.it/it/archivio/269362)
(2) L’inflazione al consumo a marzo ha raggiunto una crescita tendenziale dell’8,5%.

(3) Come il crollo dei listini della carne di maiale, dovuti al taglio di produzione per l’influenza suina.

L’economia italiana

Nel 2021 la crescita dell’economia italiana è stata robusta (+6,6%) e, alla fine dell’anno, il Pil in volume è quasi tornato al livello dell’ultimo trimestre del 2019. Tra le maggiori economie dell’Area euro l’entità del recupero è stata seconda solo a quella francese, mentre in Germania e in Spagna il livello è risultato ancora nettamente inferiore ai valori pre-crisi. In tutti e quattro i Paesi, la ripresa è stata guidata sia dai consumi interni (con un ruolo di rilevo del settore pubblico soprattutto in Francia), sia dagli investimenti.

La buona performance dell’economia italiana nel 2021 è stata anche sostenuta dalla dinamica dell’export di beni che, dopo la caduta del 2020 (-9,0% in valore), ha registrato una crescita considerevole (+18,2%), superiore sia a quella dell’area dell’euro nel suo insieme (+17,2%), sia a quella di Germania e Francia (rispettivamente +14,1 e +15,8%).

Come per gli altri paesi, l’andamento dell’economia in corso d’anno ha tuttavia risentito dell’emergere di nuove difficoltà dal lato dell’offerta (le interruzioni nelle catene di fornitura, le occasionali strozzature nel sistema dei trasporti, ulteriori misure di contenimento sanitario disposte in alcuni Paesi) e da una veloce diffusione delle pressioni inflazionistiche generate dalla salita delle quotazioni delle materie prime (4).

Nel quarto trimestre 2021, il risultato lordo di gestione e il valore aggiunto delle società non finanziarie hanno subito un calo congiunturale (pari rispettivamente a -1,3% e -0,2%), determinando una riduzione della quota di profitto di 0,5 punti percentuali rispetto al trimestre precedente. Il tasso di investimento (23,1%) è però tornato ad aumentare – avvicinandosi ai valori massimi registrati nel secondo trimestre (23,2%) –, grazie ad un incremento degli investimenti fissi lordi del 3,2%.

Le informazioni relative ai primi mesi del 2022, seppure ancora riferite prevalentemente al periodo precedente il conflitto in Ucraina, segnalano nel complesso un rallentamento dei livelli di attività.

A febbraio, l’indice della produzione industriale destagionalizzato ha registrato un deciso rimbalzo congiunturale (+4,0%) che segue la caduta del mese precedente (-3,4% rispetto a dicembre). Nella media dicembre-febbraio l’indicatore ha mostrato, tuttavia, una diminuzione dello 0,9% rispetto ai tre mesi precedenti. La flessione congiunturale nel trimestre mobile è stata diffusa, e con intensità simile, a tutti i raggruppamenti industriali, ad eccezione dell’energia, che ha segnato un aumento modesto (+0,4%). Nello stesso periodo, le variazioni tendenziali hanno mostrato una certa eterogeneità, con riduzioni più ampie per i beni intermedi (-1,8%) rispetto agli strumentali (-0,2%) e aumenti rispettivamente del 2,7% e del 2,3% per energia e beni di consumo.

A gennaio, le esportazioni di beni in valore hanno registrato un ulteriore progresso (+5,3% la variazione congiunturale), sostenuto dall’incremento delle vendite delle principali categorie di beni esportati (in particolare di quelli strumentali e intermedi) e diffuso tra le aree di destinazione dei prodotti. Le importazioni, sebbene in calo rispetto al mese precedente (-2,0%), hanno tuttavia segnato nel periodo novembre-gennaio una dinamica più vivace (+11,1% la variazione in valore rispetto ai tre mesi precedenti, +4,7% quella dell’export).

Nello stesso mese, il forte rialzo delle quotazioni delle materie prime ha indotto una robusta crescita dei prezzi all’import dei prodotti energetici (+124,9% la variazione tendenziale dei valori medi unitari) e di quelli dei beni intermedi (+31,8%). Tali andamenti si sono riflessi negativamente sul saldo commerciale italiano, determinando, oltre al forte disavanzo degli scambi energetici, anche un deterioramento del saldo al netto dei beni energetici, che resta comunque positivo.

A febbraio, i dati relativi agli scambi extra UE hanno evidenziato una dinamica positiva per entrambi i flussi, con un aumento congiunturale più marcato per le importazioni rispetto alle esportazioni (rispettivamente +3,4% e +0,7% per il totale al netto dei beni energetici).

Infine, a gennaio, l’indice destagionalizzato della produzione nelle costruzioni ha segnato una moderata flessione dopo la robusta fase espansiva dei mesi precedenti; nella media novembre-gennaio l’indicatore è cresciuto del 4% rispetto ai tre mesi precedenti.

(4) Una fotografia dettagliata del sistema produttivo italiano alla vigilia del conflitto in Ucraina è descritta nell’ultima edizione del Rapporto sulla competitività dei settori produttivi. Si veda Istat, https://www.istat.it/it/archivio/268378.

Focus: L’interscambio commerciale tra Italia, Russia e Ucraina

Nel 2021 le importazioni italiane di merci dalla Russia hanno raggiunto il valore di 17,6 miliardi di euro, con un ampio disavanzo commerciale (pari a 9,9 miliardi).

Le importazioni italiane di merci dall’Ucraina, nello stesso periodo, sono ammontate a 3,3 miliardi di euro (con un disavanzo commerciale di 1,2 miliardi). (5)

I principali prodotti importati dalla Russia sono il “Petrolio greggio e gas naturale” (11,3 miliardi di euro), i prodotti della metallurgia (3,2) e quelli della raffinazione (1,3); tra quelli importati dall’Ucraina, si evidenziano i prodotti della metallurgia (2,0 miliardi di euro) e quelli alimentari (circa 350 milioni). In particolare, proviene dalla Russia oltre il 25% delle importazioni italiane di greggio e gas naturale (le importazioni di “gas naturale allo stato gassoso” dalla Russia rappresentano oltre il 54% del totale delle importazioni del nostro Paese di tale prodotto), il 15,1% di quelle di coke e altri prodotti della raffinazione e il 56,5% delle importazioni italiane di carbone. Il 6,6% dell’import del nostro Paese di prodotti della metallurgia proviene dalla Russia (il 4,2% dall’Ucraina). Il 9,8% dell’import italiano di altri minerali da cave e miniere proviene, invece, dalla sola Ucraina.

Nel 2021, le esportazioni italiane di merci verso la Russia ammontano a 7,7 miliardi di euro e riguardano per oltre 2,1 miliardi vendite di macchinari e apparecchiature n.c.a.; seguono le esportazioni di articoli di abbigliamento (circa 0,9 miliardi) e di prodotti chimici (0,7 miliardi). L’export verso l’Ucraina è invece pari a 2,1 miliardi di euro, di cui il 22,1% realizzato dalle vendite di macchinari e apparecchiature n.c.a. (circa 470 milioni).

Le informazioni relative alle caratteristiche delle imprese italiane coinvolte nell’interscambio commerciale con Russia e Ucraina – i cui dati più recenti si riferiscono all’anno 2019 (6) –, indicano in oltre 11 mila le imprese manifatturiere che hanno esportato merci in Russia, per un valore complessivo di circa 6 miliardi di euro; quelle che hanno esportato merci in Ucraina erano quasi 7 mila, realizzando vendite per 1,2 miliardi. Le imprese esportatrici di grandi dimensioni (con almeno 250 addetti) hanno fornito il contributo maggiore all’export verso la Russia.

Nel 2019, le grandi imprese esportatrici (oltre 900 unità con almeno 250 addetti) hanno realizzato il 49% delle esportazioni verso tale paese; le imprese di medie dimensioni (50-249 addetti) e le piccole (meno di 50 addetti) hanno realizzato rispettivamente il 29% e il 22%. Il contributo delle imprese all’export verso l’Ucraina è risultato, invece, sostanzialmente analogo per le tre classi dimensionali: il 34% dell’export verso l’Ucraina è stato realizzato dalle grandi imprese, al pari delle medie, e il 32% dalle piccole.

Nel 2019, le imprese italiane manifatturiere che hanno importato merci dalla Russia erano poco più di 1.300 per un valore complessivo delle importazioni di 5,1 miliardi; quelle che hanno importato merci dall’Ucraina erano 900, per un ammontare di acquisti di 1,7 miliardi. Le grandi imprese hanno effettuato oltre l’84% del totale degli acquisti all’estero dalla Russia, mentre sono state soprattutto le medie imprese ad aver realizzato acquisti dall’Ucraina (per un valore pari al 46% dell’import complessivo da tale paese).
Nel dettaglio settoriale, sono state le imprese che operano nei settori della raffinazione (per 2,6 miliardi di euro) e della metallurgia (1,5) ad aver effettuato i maggiori acquisti dalla Russia. Per le imprese del settore della raffinazione, gli acquisti dalla Russia rappresentavano il 12,4% del totale delle proprie importazioni; per quelle della metallurgia il 5,6%. Con riferimento a queste ultime, un ulteriore quota pari al 4,0% proveniva dall’Ucraina. Per le imprese della chimica, gli acquisti dalla Russia erano il 5,1% del totale dei propri acquisti all’estero; per quelle dell’industria del legno, gli acquisti dalla Russia e dall’Ucraina rappresentavano rispettivamente il 2,2% e il 2,9% del totale delle proprie importazioni. Infine, per le imprese dell’industria alimentare, il 2,2% degli acquisti all’estero di merci proveniva dall’Ucraina.

(5) Nel 2021, sono quasi 15 mila gli operatori economici italiani che hanno esportato merci in Russia e oltre 10 mila in Ucraina; dal lato dell’import, si tratta rispettivamente di poco più di 2.500 e di 1.800 operatori.

(6) Le informazioni relative ai flussi di interscambio delle imprese esportatrici e importatrici (base dati TEC-FrameSBS) si basano sull’integrazione di tre diverse fonti statistiche: il registro statistico delle imprese attive (ASIA), il registro degli operatori che realizzano scambi con l’estero di merci (COE) e il sistema informativo “Frame” per la stima dei risultati economici delle imprese (Structural Business Statistics, SBS).

In questo processo di integrazione sono escluse le imprese non residenti e le imprese residenti sul territorio nazionale la cui attività prevalente rientra nei seguenti settori: attività di servizi finanziari (escluse le assicurazioni e i fondi pensione) (codice 64 della classificazione ATECO 2007), assicurazioni, riassicurazioni e fondi pensione (escluse le assicurazioni sociali obbligatorie) (codice 65), attività ausiliarie dei servizi finanziari e delle attività assicurative (codice 66), amministrazione pubblica e difesa; assicurazione sociale (codice 84), attività di organizzazioni associative (codice 94), oltre a estrazione di gas naturale (codice 062) e produzione, trasmissione e distribuzione di energia elettrica (codice 351).

Focus: I cambiamenti delle catene di fornitura

Uno dei principali effetti della crisi indotta dalla pandemia, che ha impresso shock differenziati tra paesi e settori, è stato quello di ostacolare il funzionamento − in maniera temporanea o permanente − delle catene internazionali del valore (7).

Per valutare l’estensione del fenomeno presso le imprese italiane, è stata condotta, nel mese di gennaio 2022, una indagine ad hoc presso il campione di imprese di manifattura e servizi che partecipano alla rilevazione mensile sui climi di fiducia. In particolare, è stato chiesto alle imprese se nel corso del biennio 2020-2021 avessero sperimentato difficoltà o interruzioni nell’approvvigionamento delle forniture e, nel caso, quali strategie avessero messo in campo per farvi fronte.

I risultati hanno evidenziato che oltre la metà delle unità internazionalizzate ha rilevato problemi di approvvigionamento e vendita, senza distinzioni di rilievo tra classi dimensionali ma con una elevata eterogeneità settoriale (la diffusione è maggiore nei settori delle apparecchiature elettriche, elettronica, macchinari, gomma e plastica). Per più di un terzo delle imprese, la natura di tali difficoltà è percepita come temporanea, tanto da non richiedere alcuna strategia di reazione; un ulteriore terzo ha invece modificato sia i volumi acquistati, sia il numero dei fornitori, in particolare nei settori dell’alimentare, dell’automotive, della chimica e della farmaceutica.

Tuttavia, per l’85,8% delle imprese importatrici di materie prime e beni intermedi, tali cambiamenti non hanno riguardato la composizione geografica dei paesi di provenienza dei fornitori. Anche per quanto riguarda l’attività di export, modifiche determinate dalla pandemia hanno interessato una frazione molto limitata di imprese: il 90,2% delle unità che hanno venduto beni all’estero nel biennio 2020-2021 ha mantenuto invariati i paesi di destinazione, senza differenze di rilievo in termini dimensionali e settoriali (in tutti i comparti tale quota è superiore all’80%).

Infine, sotto la spinta dei nuovi fenomeni emersi negli ultimi anni, parte dell’indagine è stata dedicata a verificare la presenza di eventuali segnali di accorciamento delle catene del valore e di rientro di parte della produzione precedentemente delocalizzata all’estero. Si tratta, naturalmente, di fenomeni che interessano una quota minoritaria delle unità produttive del nostro Paese: solo il 12,9% ha realizzato, nel 2020-2021, almeno parte della propria produzione all’estero. Il rientro in Italia delle linee di attività estere (reshoring) e il loro spostamento verso paesi più vicini al nostro (nearshoring) hanno riguardato rispettivamente il 9,7% e il 10,1% di tale segmento di imprese.

(7) Per approfondimenti su questo tema, si veda il paragrafo 2.3 “I cambiamenti delle catene di fornitura nelle valutazioni delle imprese” dell’ultima edizione del Rapporto Istat sulla competitività dei settori produttivi (https://www.istat.it/it/archivio/268378).

Focus: il 2021 del turismo e i possibili effetti del conflitto in Ucraina

Nel 2021 i flussi turistici di tutti i Paesi europei hanno mostrato segnali di ripresa rispetto al 2020 quando, a causa della crisi sanitaria, avevano registrato una caduta senza precedenti (8). Secondo Eurostat, nel 2021, il numero delle notti trascorse (presenze) nelle strutture ricettive nell’Unione europea è stato pari a circa 1,8 miliardi, valore in crescita del 27% rispetto al 2020, ma inferiore di circa il 37% rispetto al 2019.

I dati relativi all’Italia mostrano una tendenza migliore rispetto alla media europea, con un incremento nel 2021, rispetto al 2020, del 34,4% delle presenze negli esercizi ricettivi e del 32,6% degli arrivi (9); il recupero nel nostro Paese ha avuto intensità analoga nel comparto alberghiero e in quello extra-alberghiero. Il numero di presenze totali in Italia, pari a poco più di 280 milioni di notti nel 2021, risulta tuttavia ancora notevolmente inferiore ai livelli registrati nel periodo pre-pandemico (-36% circa rispetto al 2019), vicino a valori che non si osservavano dalla metà degli anni ’90 (circa 286 milioni di presenze nel 1995).

Con il superamento delle restrizioni dovute all’emergenza sanitaria, nel 2021 la componente estera della domanda turistica ha segnato una dinamica più sostenuta rispetto a quella domestica (rispettivamente +57,5 e +23,8% di presenze su base annua), restando tuttavia su livelli molto lontani da quelli pre-crisi (-47,7% rispetto al 2019). (10)

Mentre l’attenuarsi dell’emergenza pandemica lasciava presagire un possibile consolidamento della ripresa del settore, gli effetti del conflitto in Ucraina potrebbero ulteriormente ripercuotersi sul comparto. In particolare, il turismo di provenienza russa ha rappresentato una fonte di domanda vivace nell’ultimo decennio, con un picco di quasi 8 milioni di presenze nel 2013. La prima crisi Ucraina del 2014, con le sue conseguenze di sanzioni economiche e la svalutazione del rublo avevano provocato un calo delle presenze dei russi in Italia che però, a partire dal 2017, erano tornate a crescere fino ai circa 6 milioni del 2019.

Con gli effetti dell’emergenza sanitaria le presenze sono crollate a circa un milione nel 2020 e hanno avuto un ulteriore calo nel 2021 pari a circa il 40 per cento. L’inevitabile azzeramento di questa domanda che deriverà dal conflitto avrà un importante impatto sui ricavi da turismo: i turisti russi sono da tempo tra quelli con la maggiore capacità di spesa (145 euro di spesa pro-capite giornaliera nel 2018, al quarto posto dopo giapponesi, cinesi e canadesi (11) e tra quelli più inclini a privilegiare le strutture alberghiere di lusso (più del 40% delle presenze dei russi nel 2019 erano registrate in questa tipologia di struttura).

(8) Per approfondimenti sui contenuti di questo Focus, si veda il Box “2021: un anno in chiaro-scuro per il turismo” dell’ultima edizione del Rapporto Istat sulla competitività dei settori produttivi
(https://www.istat.it/it/archivio/268378).
(9) I dati 2021 sono provvisori.
(10) Per una analisi della domanda turistica nel 2021 e dell’impatto della pandemia sulla ripresa dei flussi turistici, si veda anche Istat, “Viaggi e vacanze in Italia e all’estero”,
https://www.istat.it/it/archivio/269231.
(11) Si veda il Box “Ruolo e performance del settore turistico italiano” dell’edizione 2020 del Rapporto Istat sulla competitività dei settori produttivi (https://www.istat.it/it/archivio/240112).

Le famiglie

Nel quarto trimestre del 2021 il reddito disponibile e i consumi delle famiglie consumatrici hanno registrato aumenti congiunturali di intensità simile (rispettivamente +1,3% e +1,2%), con un lieve aumento della propensione al risparmio (11,3%, +0,2 punti percentuali); il potere di acquisto ha registrato un marginale miglioramento (+0,1%), condizionato dall’aumento dei prezzi (+1,2% il deflatore implicito dei consumi). Nel complesso, in media d’anno, il reddito disponibile nel 2021 è comunque aumentato del 3,8% e il potere di acquisto del 2,1%, mentre la propensione al risparmio delle famiglie è scesa al 13,1% dal 15,6% del 2020, restando tuttavia ancora notevolmente superiore a quella pre-crisi (8% nel 2019).

I dati relativi ai primi mesi del 2022 sembrano mostrare un’attenuazione della fase di miglioramento dei consumi. A febbraio, le vendite al dettaglio in volume hanno segnato una crescita dello 0,4%, trainate dai beni non alimentari (+1,6%); considerando il trimestre dicembre-febbraio, le vendite sono tuttavia stimate in calo rispetto al trimestre precedente (-0,4%).

I segnali sul mercato del lavoro sono rimasti positivi. Rispetto al mese precedente, a febbraio, è aumentata l’occupazione (+0,4%, pari a +81mila unità) ed è diminuito il numero di persone in cerca di lavoro (-1,4%, pari a -30mila unità) e di inattivi tra i 15 e i 64 anni (-0,6%, pari a -79mila unità). A marzo, le attese delle imprese sull’andamento dell’occupazione iniziano, tuttavia, a presentare segnali meno favorevoli.

Nel confronto con i livelli pre-pandemia (febbraio 2020), il numero di occupati a febbraio 2022 risulta inferiore di 90 mila unità, con un recupero nell’ultimo anno di circa 800mila occupati; i segnali di miglioramento del mercato del lavoro si scontrano però con il forte aumento dei lavoratori a termine (+252mila) e la contemporanea riduzione dei lavoratori permanenti (-158mila) e degli indipendenti (-185mila).

Infine, secondo le stime aggiornate di Contabilità nazionale, le ore lavorate sono cresciute nel quarto trimestre del 2021 dello 0,2% in termini congiunturali, in rallentamento rispetto alla eccezionale ripresa dei trimestri precedenti. Il monte ore resta tuttavia ancora inferiore dell’1,7% rispetto ai livelli pre-crisi (quarto trimestre 2019).

Focus: La povertà assoluta e le spese per consumi nel 2021

Secondo le stime preliminari diffuse lo scorso 8 marzo (12), nel 2021 le famiglie in povertà assoluta sono il 7,5%, quota sostanzialmente in linea con quella del 2020 (7,7%); gli individui in povertà sono circa 5,6 milioni, pari al 9,4%, un valore identico a quello del 2020, quando il numero di persone povere era aumentato di 1 milione rispetto al 2019.

Nonostante il rilevante aumento delle spese per consumi delle famiglie, la povertà in Italia è rimasta dunque sostanzialmente stabile, per via di un incremento più contenuto della spesa delle famiglie meno abbienti (13) e della salita dell’inflazione (+1,9% nel 2021), senza la quale la quota di famiglie in povertà assoluta si sarebbe attestata al 7,0% e quella degli individui all’8,8%. L’evoluzione del processo inflazionistico nel 2021 ha avuto un impatto maggiore sulle famiglie meno abbienti, che destinano una quota di spesa più elevata nel loro bilancio ai beni energetici e a quelli alimentari (14).

Si segnala che l’Istat diffonderà domani i dati aggiornati al primo trimestre 2021 delle misure dell’inflazione per classi di spesa delle famiglie, in cui saranno misurati gli effetti dell’ulteriore accelerazione dei prezzi nei primi mesi dell’anno corrente.

Le spese energetiche sono, del resto, in larga misura al di fuori delle scelte discrezionali delle famiglie. Secondo le stime preliminari dell’Indagine sulle spese delle famiglie per l’anno 2021, la quota di spese energetiche per l’abitazione (15) sulla spesa totale (16) è pari al 7,6% per le famiglie che appartengono al quinto di spesa più basso e al 7,8% nel secondo, per poi calare al 6,9%, 6,2% e 5,3% nel terzo, quarto e ultimo quinto rispettivamente; più specificamente, tra le famiglie in povertà assoluta, le spese energetiche per l’abitazione incidono per l’11,3% (contro il 6,4% delle famiglie non in povertà).

Rispetto al 2020 – quando è risultata in peggioramento soprattutto al Nord – la povertà nel 2021 è stimata in aumento tra gli individui sia nel Mezzogiorno (dall’11,1% al 12,1%, +196mila) sia nel Centro (da 6,6% a 7,3%, +75 mila). Nelle regioni settentrionali il numero di famiglie in povertà è sceso invece di oltre 108mila unità (da 7,6% del 2020 a 6,7%) e quello di individui di 301mila (da 9,3% a 8,2%).

Secondo le stime preliminari del 2021, il totale dei minori in povertà assoluta è pari a 1 milione e 384mila: l’incidenza si conferma elevata (14,2%) e sostanzialmente stabile rispetto al 2020, ma maggiore di quasi tre punti percentuali rispetto al 2019 (11,4%).

Valori elevati dell’incidenza di povertà assoluta si continuano a osservare per le famiglie con persona di riferimento di 35-54 anni, colpite in modo significativo dalla crisi (9,9% per quelle con persona di riferimento tra i 35 e i 44 anni e 9,7% per quelle con persona di riferimento tra 45 e 54 anni). Infine, l’incidenza della povertà peggiora ulteriormente tra le famiglie con persona di riferimento in cerca di occupazione (dal 19,7% del 2020 al 22,6%) e tra le famiglie composte da soli stranieri (da 26,7% a 30,6%).

(12) Si veda: https://www.istat.it/it/archivio/267222. Le stime definitive saranno rese disponibili il 9 giugno (spese per consumi) e il 15 giugno 2022 (povertà). I dati sono quindi suscettibili di revisioni.
(13) Secondo le stime preliminari diffuse l’8 marzo, la spesa media mensile è cresciuta nel 2021 del 4,7% (+2,8% al netto dell’inflazione), con evidenti differenze tra le famiglie più abbienti (+6,2%) e quelle meno abbienti (+1,7%).
(14) Nel 2021, l’indice armonizzato IPCA è stato pari al +2,4% per le famiglie con minore capacità di spesa e a +1,6% per quelle più abbienti. Si veda: https://www.istat.it/it/archivio/265512.
(15) Le spese energetiche considerate includono sia la spesa per “Energia elettrica, gas e altri combustibili” (ECoicop 04.5) sia quella per riscaldamento centralizzato, se distinguibile dalle altre spese condominiali.
(16) La spesa totale è qui considerata al netto degli affitti figurativi.

Focus: L’indagine sui consumi energetici delle famiglie del 2021

Il settore energetico riveste oggi un’importanza cruciale, sia per le ragioni connesse ai cambiamenti climatici e la necessità di operare la transizione energetica, sia per le attuali e rilevanti implicazioni di natura geopolitica e socioeconomica.

L’informazione statistica su questo settore risulta pertanto di particolare rilevanza per il nostro Paese, anche ai fini della definizione e del monitoraggio della Strategia Nazionale di Sviluppo Sostenibile, del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) e del Piano per la Transizione Ecologica.

In questa direzione, l’indagine 2021 sui Consumi energetici delle famiglie offre un contributo al completamento del quadro nazionale delle statistiche sull’energia, relativamente al settore residenziale. L’indagine ha raccolto informazioni dettagliate sulle dotazioni energetiche delle famiglie e sulle modalità di impiego di tali apparecchiature, ricostruendo il quadro complessivo dei consumi energetici e delle relative spese nell’anno passato.17 L’indagine – svolta per la prima volta nel 2013 –, si è basata su un campione di oltre 54mila famiglie, rappresentativo a livello nazionale e regionale. I risultati sono in fase di elaborazione e a maggio e a luglio è prevista l’uscita di due pubblicazioni dedicate. Di seguito si riportano alcune prime evidenze, basate su dati ancora provvisori.

Nel 2021, il 98,6% di famiglie dispone di un impianto o apparecchio singolo di riscaldamento dell’abitazione, quota sostanzialmente stabile rispetto al 2013. La quota residua di famiglie senza riscaldamento risiede principalmente nel Mezzogiorno, dove raggiunge il 3,4% (valore ridotto di un terzo rispetto al 2013). Il sistema di riscaldamento più usato dalle famiglie (come sistema unico o prevalente) è l’impianto autonomo (65,7% delle famiglie), mentre l’impianto centralizzato o gli apparecchi singoli (fissi o portatili) sono usati – come sistemi prevalenti – rispettivamente dal 17,1% e 17,2% delle famiglie. Nel Centro-Nord, il ricorso agli apparecchi singoli è minore che nel Mezzogiorno (intorno al 10% delle famiglie, rispetto al 34%) e in calo rispetto al 2013, a vantaggio dell’impianto centralizzato e in misura minore di quello autonomo. Nel Mezzogiorno, la situazione è più variegata, con alcune regioni che mostrano la tendenza a un maggiore ricorso agli apparecchi singoli.

Il metano, utilizzato dal 66,1% delle famiglie, si conferma la fonte di alimentazione più utilizzata per il sistema di riscaldamento prevalente dell’abitazione (nel 2013 era il 70,9%). Una diminuzione delle fonti di alimentazione tradizionali e non rinnovabili (metano, gasolio, GPL) rispetto al 2013 è andata a vantaggio principalmente dell’energia elettrica (da 5,1 a 8,2%): l’elettrificazione degli impianti termici è uno dei principali target per la riduzione di emissioni di CO2.

Il 99,6% delle famiglie dispone di acqua calda sanitaria nella propria abitazione (quota sostanzialmente stabile rispetto al 2013); il sistema di riscaldamento dell’acqua coincide nel 71,2% dei casi con quello del riscaldamento dell’abitazione. Quasi tre famiglie su quattro (72,6%) utilizzano come sistema prevalente l’impianto autonomo; il 13,1% uno scaldacqua elettrico, il 6,5% un impianto centralizzato, e il 5,6% a metano (nel 2013, rispettivamente: 73,9%, 13,6%, 5,8%, e 5,3%).

Nel 2021, quasi una famiglia su due (48,8%) ha un sistema di condizionamento, con un forte incremento rispetto al 2013 (29,4%).

(17) I principali temi indagati sono: le caratteristiche delle abitazioni; gli impianti in dotazione all’abitazione per il riscaldamento, la produzione di acqua calda sanitaria e il condizionamento; il loro numero, fonte di alimentazione, caratteristiche tecniche e modalità di utilizzo da parte delle famiglie; i sistemi per l’illuminazione e gli elettrodomestici; le spese sostenute nell’anno di riferimento per i consumi energetici (energia elettrica, metano, GPL, gasolio, biomasse).

I prezzi

A marzo, in base alla stima preliminare, la variazione tendenziale dell’indice per l’intera collettività (NIC) è risultata pari a 6,7% (5,7% a febbraio), determinando un ulteriore aumento dell’inflazione acquisita per il 2022 (5,3%, da 4,3% a febbraio). La persistente tendenza al rialzo è legata agli andamenti dei prezzi dei beni energetici e alimentari, che risentono nell’ultimo periodo anche delle turbolenze geopolitiche. I prezzi della componente energia hanno segnato un incremento tendenziale del 52,9%, sospinti dalle ampie fluttuazioni delle materie prime e del gas naturale: la crescita è stata più sostenuta per la componente dei beni regolamentati (94,6%) rispetto a quella dei non regolamentati (38,7%).

Anche i prezzi dei beni alimentari hanno subito una ulteriore accelerazione (+5,5%, da +4,6% di febbraio), sostenuti dagli aumenti degli alimentari non lavorati (8,0%), influenzati dai rincari delle materie prime agricole. Le altre componenti dell’indice mostrano ancora spinte al rialzo contenute: nei servizi, l’incremento tendenziale dei prezzi si è confermato stabile (all’1,8%), mentre si è accentuato per i beni industriali non energetici (1,6%, da 1,1% di febbraio).

Gli aumenti del “carrello della spesa”, riferito ai prezzi dei beni alimentari per la cura della casa e della persona, hanno continuato ad accelerare (5,0% a marzo da 4,1% del mese precedente). L’evoluzione dell’inflazione di fondo, nell’accezione che esclude gli energetici e gli alimentari freschi, ha mostrato un ulteriore rialzo (2,0% da 1,7% di febbraio), con i primi segnali di diffusione delle spinte inflazionistiche nel sistema.

A marzo, l’indice armonizzato dei prezzi al consumo IPCA è cresciuto in termini tendenziali del 7,0%, in misura meno intensa a quanto osservato nell’area euro (7,5%). Il differenziale inflazionistico dell’Italia è quindi tornato negativo, come effetto principalmente dell’ampliamento del gap relativo ai beni industriali non energetici (-1,6 punti percentuali) e ai servizi (-0,8).

L’andamento dell’inflazione italiana ha continuato a risentire delle spinte dal lato dei costi, dovute agli aumenti dei prezzi delle materie prime – in particolare del gas naturale –, dei recenti apprezzamenti del cambio dollaro/euro e delle strozzature dell’offerta in alcuni comparti strategici per l’industria italiana. In particolare, l’impennata dei prezzi dei beni energetici importati si riflette progressivamente sulla componente energetica dell’indice IPCA, seppure con intensità relativamente contenuta.

I rialzi dei prezzi dei beni energetici coinvolgono anche i prezzi alla produzione sul mercato interno, in aumento del 41,4% su base annua. Al netto del comparto energetico, la crescita è pari all’11,7% in termini tendenziali. Anche per il raggruppamento dei beni di consumo si manifesta un ulteriore rafforzamento delle tensioni sui prezzi (+6,0% in termini tendenziali), confermando la diffusione del fenomeno inflativo nelle diverse fasi della distribuzione.

Il perdurare della fase di aumento dei prezzi si riflette sulle attese di consumatori e imprese. A marzo, nel settore manifatturiero, gli imprenditori che producono beni destinati al consumo, hanno rivisto al rialzo le aspettative di inflazione. Dal lato dei consumatori, le cui attese si spingono a un orizzonte temporale più lontano, è tornata ad aumentare la quota di coloro che si aspettano aumenti più o meno intensi.

Le prospettive a breve termine

L’impatto del conflitto in Ucraina sul sistema economico rimane di difficile misurazione e si innesta all’interno di una fase del ciclo caratterizzata da una economia che ha perso slancio nell’ultimo trimestre del 2021, ma che mostra ancora un alto livello del tasso di investimento e un miglioramento delle condizioni sul mercato del lavoro.

A marzo, l’indice di fiducia dei consumatori è sceso di circa 12 punti rispetto al trimestre precedente, condizionato dai giudizi negativi sul clima economico e su quello futuro. Tra le imprese, l’andamento della fiducia è differenziato tra i comparti: la fiducia nelle costruzioni è salita ulteriormente segnando un nuovo massimo storico, mentre è diminuita quella delle imprese manifatturiere e dei servizi, che pure registrano un deciso miglioramento nel comparto del turismo. Tra le imprese manifatturiere emerge, inoltre, un aumento della quota di chi segnala ostacoli all’attività di esportazione.

In questo scenario, la forte accelerazione dell’inflazione, condizionata dall’andamento dei prezzi dei beni energetici, costituisce ancora il principale rischio al ribasso a cui si associano i possibili effetti negativi legati al rallentamento del commercio internazionale e all’apprezzamento del dollaro.

L’Istat diffonderà la stima preliminare del Pil riferita al primo trimestre il 29 aprile e l’aggiornamento del quadro previsivo sulle prospettive per l’economia italiana nel biennio 2022-2023 il 7 giugno.
Al fine di ampliare gli indicatori disponibili per il monitoraggio del ciclo economico, l’Istat sta sperimentando un nuovo indicatore coincidente che ha l’obiettivo, mese per mese, di fornire una stima del segno della variazione congiunturale nel trimestre e una indicazione della sua intensità. A partire da un ampio set di serie storiche riferite alla congiuntura italiana ed europea con un elevato livello di disaggregazione settoriale, la metodologia utilizzata prevede la selezione degli indicatori in grado di fornire il migliore segnale in termini di coerenza con le variazioni trimestrali del Pil. Gli indicatori così selezionati vengono poi aggregati fornendo una misura sintetica dell’andamento del ciclo economico, con campo di variazione tra 0 e 1, dove lo 0 indica una variazione congiunturale del Pil decisamente positiva e 1 significativamente negativa.

I risultati tratti da tale metodologia, che sarà illustrata più in dettaglio nella nota mensile sull’economia italiana di maggio, indicavano a gennaio e febbraio segnali debolmente favorevoli per la variazione del Pil nel primo trimestre, mentre il dato di marzo segnalava una variazione decisamente negativa. Considerando nell’insieme le indicazioni dei primi tre mesi dell’anno in corso, si giunge a un risultato coerente con una variazione congiunturale del Pil nel primo trimestre moderatamente negativa.

La valutazione degli scenari macroeconomici del DEF

Il quadro tendenziale presentato nel DEF è elaborato incorporando, almeno in parte, gli effetti del conflitto in Ucraina. L’evoluzione della guerra e gli effetti delle sanzioni finanziarie ed economiche alla Russia decise dai paesi occidentali restano tuttavia caratterizzate da un’elevata incertezza che rende la valutazione degli scenari macroeconomici estremamente difficile.

Per tenere conto di questa complessità il DEF presenta gli impatti macroeconomici collegandoli a differenti scenari di rischio. Il primo scenario è caratterizzato da un inasprimento delle sanzioni che porta a un’interruzione degli afflussi di gas e petrolio dalla Russia a partire da aprile 2022 e che perdura per tutto il 2023.

In questo scenario si assume che le aziende del settore riescano ad assicurare il soddisfacimento del fabbisogno grazie alla diversificazione degli approvvigionamenti, anche se l’embargo provoca un ulteriore rialzo dei prezzi del gas, dell’elettricità e del petrolio rispetto allo scenario base prefigurato nel quadro tendenziale. Questa ipotesi porterebbe a un tasso di crescita del Pil inferiore rispetto alle previsioni tendenziali di 0,8 punti percentuali nel 2022 e 1,1 nel 2023, mentre il tasso di inflazione (misurato dal deflatore dei consumi) risulterebbe più alto di 1,2 punti nel 2022 e 1,7 nel 2023. Ulteriori scenari presentati considerano difficoltà maggiori nel processo di approvvigionamento delle materie prime da parte delle imprese, un apprezzamento dell’euro e un peggioramento delle condizioni finanziarie.

Con l’obiettivo di fornire elementi utili alla valutazione dello scenario tendenziale previsto nel DEF, l’Istat ha effettuato alcune elaborazioni sulla base del modello macroeconometrico MeMo-It. In presenza del mantenimento del livello dei prezzi dei beni energetici sugli elevati livelli del periodo per tutto l’anno in corso, il Pil italiano risulterebbe nel 2022 inferiore di 0,7 punti percentuali rispetto a quello stimato in uno scenario base in cui le quotazioni dei beni energetici rimanessero sui livelli di inizio anno. Questo risultato risulta in linea con i valori presentati nel DEF. Ulteriori shock negativi sull’economia italiana potrebbero tuttavia derivare da una più severa riduzione del commercio internazionale, rispetto a quella presentata nel quadro tendenziale, ovvero a un ulteriore apprezzamento del dollaro nei confronti dell’euro.

Una riduzione del commercio internazionale nel 2022, pari a circa 3 punti rispetto alle ipotesi dello scenario base del DEF, comporterebbe una riduzione aggiuntiva del Pil pari a 0,7 punti percentuali, mentre un ulteriore apprezzamento di dieci centesimi del dollaro nei confronti dell’euro, causerebbe come effetto principale un’ulteriore pressione sul livello del deflatore dei consumi pari a 0,5 punti percentuali. Nello scenario più avverso da noi stimato dunque, l’impatto sul prodotto del 2022 sarebbe inferiore di 1,4 punti percentuali rispetto allo scenario base.

Il monitoraggio del PNRR tramite gli indicatori SDGs

Come riportato nel Programma Nazionale di Riforma (PNR), la crescente attenzione ai temi del benessere e dello sviluppo sostenibile ha determinato l’integrazione nel Semestre europeo degli Obiettivi di sviluppo sostenibile (OSS) previsti dall’Agenda 2030 delle Nazioni Unite (PNR, pag. 79). In particolare, come riportato nell’Annual Sustainable Growth Survey 2022, “The Sustainable Development Goals (SDGs) will be further integrated into the European Semester”.

Questa prospettiva implica un uso crescente degli indicatori di sviluppo sostenibile (SDGs), vincolando i paesi europei al loro utilizzo sia per il confronto con la media Ue sia per valutarne i progressi economici, sociali e ambientali. In quest’ottica, il PNR presenta una prima analisi degli obiettivi di sviluppo sostenibile articolata nelle quattro dimensioni previste: sostenibilità ambientale, transizione digitale e produttività, equità, stabilità macroeconomica. “La disamina si basa sui risultati del Rapporto di Monitoraggio di Eurostat, sui dati rilevati a livello nazionale dall’Istat sugli SDGs e sulla Relazione sugli indicatori di Benessere Equo e Sostenibile (BES)”.

Le analisi presentate rafforzano quanto espresso dall’Istat nell’audizione del 5 ottobre 2021 nell’ambito dell’“Attività conoscitiva preliminare all’esame della nota di aggiornamento del Documento di Economia e Finanza 2021”: “il sistema degli indicatori di sviluppo sostenibile (SDGs) reso disponibile dall’Istat potrebbe contribuire in termini di strumenti di monitoraggio e verifica dei progressi del PNRR per quel che riguarda le dimensioni della sostenibilità”18. In particolare, il Rapporto annuale sugli SDGs presentava una prima, ma capillare, analisi della relazione fra gli SDGs e le 6 Missioni previste dal Piano, insieme ad una valutazione delle divergenze territoriali.

Le attività svolte dall’Istat per l’aggiornamento del sistema degli indicatori SDGs potrebbero quindi costituire un elemento portante per lo sviluppo di un sistema integrato di monitoraggio e analisi per la valutazione del PNRR. Come ricordato nell’audizione, “adottare tale framework richiederebbe, tuttavia, investimenti mirati allo sviluppo di nuove metodologie e fonti di dati che consentano una decisa riduzione della tempistica di diffusione, oltre a un ampliamento delle misure statistiche su alcuni temi, come la digitalizzazione e le infrastrutture. Inoltre, si dovrebbe puntare a un affinamento del processo di valutazione che connette tra loro le variazioni delle misure statistiche con le politiche individuate”.

Gli obiettivi di finanza pubblica

Lo scorso 4 aprile, l’Istat ha diffuso i dati aggiornati del Conto delle Amministrazioni Pubbliche (AP) nell’ambito del normale processo di revisione connesso alla disponibilità di nuove fonti informative19.
Nel 2021, l’indebitamento netto delle AP è diminuito di 2,4 punti percentuali del Pil, (dal 9,6% del 2020 al 7,2%), a seguito della riduzione del disavanzo primario (da -6,1% nel 2020 a -3,7%). Il valore dell’indebitamento netto è risultato di oltre due punti percentuali meno negativo della stima indicata nei precedenti documenti programmatici (9,4% nella NADEF e nel Documento Programmatico di Bilancio). Il quadro più favorevole è ascrivibile principalmente a un andamento delle entrate tributarie e contributive migliore delle previsioni.

Nel complesso, la pressione fiscale si attesta al 43,5% del Pil, oltre un punto e mezzo superiore alle previsioni. Inoltre, la dinamica delle spese complessive è risultata più contenuta di quanto atteso nei documenti programmatici, anche per il minor utilizzo di alcune misure di sostegno. Va tuttavia rilevato che parte delle differenze di composizione è ascrivibile al diverso trattamento contabile di alcune misure di esonero (sgravi contributivi) che nel conto delle AP sono rappresentate in spesa come maggiori contributi alla produzione, mentre nei documenti programmatici erano stati contabilizzati in riduzione delle entrate contributive.

Il DEF oggi in esame aggiorna le previsioni di finanza pubblica per il triennio 2022-2024 e presenta quelle per il 2025, alla luce delle nuove prospettive macroeconomiche. Queste risultano decisamente meno favorevoli rispetto al quadro della NADEF dello scorso settembre, principalmente a causa dell’aumento dei prezzi dei beni energetici, alimentari e materie prime e per il conflitto in Ucraina. Inoltre, il nuovo quadro di finanza pubblica incorpora, oltre alle prime evidenze per il 2022 del monitoraggio dei conti pubblici, gli effetti finanziari delle misure più recenti volte a mitigare le ricadute sul sistema economico dell’incremento dei prezzi dei prodotti energetici.

Nel quadro tendenziale del DEF, che include l’effetto degli interventi già attuati alla data di chiusura della previsione (marzo 2022), la crescita del Pil nominale è pari al 6,0% nell’anno in corso (era 6,4% nella NADEF), mentre l’indebitamento a legislazione vigente si attesta al 5,1% del Pil, migliore di mezzo punto percentuale rispetto allo scenario programmatico della NADEF (5,6%). Tale miglioramento è principalmente ascrivibile alle maggiori entrate che più che compensano le stime più elevate di spesa corrente e in conto capitale rispetto alla NADEF. La pressione fiscale è attesa comunque scendere quest’anno al 43,1% del Pil. Si conferma anche nel triennio 2023-2025 la progressiva diminuzione dell’indebitamento, che scenderebbe al 3,7% nel 2023, per passare al 3,2% nel 2024 sino a ritornare sotto la soglia del 3% nel 2025 (2,7%).

Il quadro programmatico del DEF incorpora, oltre agli effetti finanziari delle misure già approvate, anche il nuovo pacchetto di provvedimenti in corso di definizione per favorire la tenuta del quadro economico e che include, tra gli altri, l’incremento dei fondi per le garanzie sul credito e ulteriori interventi per contenere i prezzi dei carburanti e il costo dell’energia. Le misure di prossima attuazione peggiorano i saldi di bilancio del quadro programmatico rispetto al tendenziale ma confermano, pur in un contesto congiunturale più sfavorevole, i valori indicati nei precedenti documenti di previsione.

Nell’anno in corso l’indebitamento netto in rapporto al Pil passa dal 7,2% nel 2021 al 5,6%. Per gli anni successivi, si prefigura un graduale miglioramento al 3,9% nel 2023, al 3,3% nel 2024 e al 2,8% nel 2025. Il saldo primario programmatico, dopo il sensibile miglioramento nel 2021 (dal -6,1% al -3,7%), conferma il cambio di tendenza risalendo al -2,1% nel 2022 per tornare poi gradualmente su valori positivi nel 2025, collocandosi allo 0,2%.

Nel DEF l’incidenza sul Pil programmatico del debito pubblico, misurato al lordo delle passività connesse agli interventi di sostegno finanziario in favore di Stati Membri della UEM, è prevista in discesa per tutto il periodo in esame. Quest’anno si ridurrebbe di quasi quattro punti percentuali, passando dal 150,8% nel 2021 al 147% e attestandosi, alla fine dell’orizzonte di programmazione, al 141,4% del Pil (0,2 punti in più rispetto al tendenziale). Anche dopo questa sensibile riduzione, nel 2025 l’incidenza del debito sul Pil rimarrebbe comunque oltre sei punti percentuali sopra il valore del 2019 (134,6%).

Nell’arco di tempo considerato dal DEF, lo sforzo finanziario è previsto protrarsi sin tanto che l’attività economica non ritorni sul trend pre-crisi. L’impostazione via via meno espansiva della politica di bilancio, anche per il progressivo esaurirsi delle misure straordinarie di contrasto della crisi, si riflette nella graduale riduzione del deficit e nel ridimensionamento del rapporto del debito sul Pil. Tale prospettiva presuppone, inoltre, l’attuazione del programma di investimenti e riforme previsto dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). Rimangono, tuttavia, ampi margini di incertezza sulle prospettive dell’economia che si estendono necessariamente anche alle valutazioni delle tendenze prospettiche delle finanze pubbliche.

(18) https://www.istat.it/it/archivio/262025.

(19) Si veda Istat, https://www.istat.it/it/archivio/266825. I conti nazionali, diffusi inizialmente il 1 marzo, sono stati rivisti ed aggiornati il 4 aprile, in seguito alla revisione sui valori per l’anno 2021 effettuata a causa della rettifica dei dati di importazione in valore del gas naturale allo stato gassoso per i mesi da luglio a dicembre 2021, nonché di alcune modifiche degli aggregati di finanza pubblica imputabili al normale processo di revisione. La rettifica dei dati era stata comunicata dall’Istat con Nota del 24 marzo 2022 (https://www.istat.it/it/archivio/268489).

Lo scenario demografico

Nel 2021 la pandemia continua a esercitare effetti sul comportamento demografico, pur se attenuati rispetto all’anno precedente.

La popolazione residente va contraendosi costantemente dal 2014, quando era pari a 60,3 milioni. Al 1° gennaio 2022, secondo i primi dati provvisori, la popolazione ammontava a 58 milioni 983 mila unità, con una perdita cumulata nell’arco di 8 anni di circa 1 milione 363 mila persone. Rispetto a questo ammontare complessivo, i comportamenti demografici emersi nel corso del solo 2021 appaiono responsabili del calo registrato per circa 253 mila unità (20).

Nel 2021, la variazione relativa della popolazione è dunque pari al -4,3 per mille, in moderato miglioramento rispetto al 2020 (quando era stata del -6,8 per mille). Scomposta nelle singole componenti, la variazione 2021 è il risultato di un saldo migratorio con l’estero pari a +2,7 per mille e a un ricambio naturale del -5,2 per mille.

Ben prima che il Covid facesse sentire i suoi effetti sul piano demografico, la dinamica della popolazione italiana era già contraddistinta da una persistente e sempre più intensa caduta della natalità. Un fenomeno che si è indubbiamente accentuato nell’ultimo decennio, ma che viene da lontano: avendo radici nelle profonde

Sin dal lontano 1977, quasi mezzo secolo fa, il numero medio di figli per donna – l’indicatore che misura la capacità riproduttiva di una popolazione – è sceso in Italia sotto la soglia delle due unità che assicurano il ricambio generazionale.

Il Covid, unitamente alle restrizioni forzate sul piano della mobilità residenziale e del numero di matrimoni celebrati, ha prodotto un impatto psicologico specifico nel 2020 (perlomeno a partire dal mese di marzo), con effetti sulle scelte riproduttive portate a termine nel 2021. Del resto, se si fosse procreato con la stessa intensità e col medesimo calendario di fecondità del 2019, quando si erano registrate 420 mila nascite, nel 2021 se ne sarebbero osservate circa 405 mila, anziché i 399 mila effettivamente registrati. Il solo effetto strutturale legato al processo di invecchiamento e riduzione della popolazione femminile in età feconda comporta dunque un calo, a parità di calendario riproduttivo, di almeno 15 mila nascite, mentre l’ulteriore riduzione di 6 mila nati sul 2020 può essere attribuita più direttamente all’impatto della pandemia sui livelli riproduttivi.

Nel 2021 il numero medio di figli per donna si è attestato a 1,25, in lieve rialzo rispetto all’1,24 del 2020, nonostante l’ulteriore declino delle nascite. Ciò si deve al deficit dimensionale e strutturale della popolazione femminile in età feconda, che si riduce nel tempo e presenta un’età media in aumento.
In prospettiva, il contrasto alla perdurante denatalità nel nostro Paese richiede non solo di aumentare il numero di figli, ma anche di ampliare la platea potenziale di donne in età feconda che va progressivamente assottigliandosi. Mettere al mondo un figlio appare sempre più una scelta rinviata nel tempo con effetti necessariamente negativi sul numero effettivo di figli rispetto a quelli idealmente desiderati. L’età media al parto ha raggiunto nel 2021 i 32,4 anni (+0,2 sul 2020), un parametro in crescita ormai da anni (era 30,5 nel 2002).

Stante il legame positivo tra nuzialità e intenzioni riproduttive – considerato che tutt’oggi nel Paese circa due terzi delle nascite hanno origine all’interno del nucleo coniugale –, la ripresa della nuzialità del 2021 potrebbe sottintendere un parziale recupero di nascite nel corso del 2022. In tal senso, i primi segnali di ripresa, per quanto assai timidi, si ravvisano già nel passaggio tra il 2021 e l’anno in corso. Nel bimestre dicembre 2021-gennaio 2022 si sono registrate quasi 67 mila nascite, circa l’8% in più di quanto rilevato nel medesimo periodo del precedente anno, ma ancora il 5% in meno di quanto osservato nel bimestre dicembre 2019- gennaio 2020.

Di pari passo alla contrazione delle nascite vi sono i continui guadagni – dopo la fase di regresso prodotta nel 2020 dall’effetto Covid-19 – sul piano della durata della sopravvivenza che, coniugati con l’invecchiamento di coorti di nascite che nel passato erano assai numerose, hanno prodotto e continueranno a produrre uno straordinario aumento della popolazione nelle età senili e molto anziane.

Nel complesso, l’età media della popolazione transita, tra l’inizio del 2021 e l’inizio del 2022, da 45,9 a 46,2 anni, mentre vent’anni fa era inferiore di oltre quattro anni (41,9).

La popolazione ultrasessantacinquenne, 14 milioni 46 mila individui a inizio 2022 in base alle stime, si è accresciuta di 105 mila unità rispetto a inizio 2021 e costituisce il 23,8% della popolazione totale contro il 23,5% dell’anno precedente. Viceversa, risultano in diminuzione tanto gli individui in età attiva quanto i più giovani: i 15-64enni (-198 mila) scendono dal 63,6% al 63,5%, mentre i ragazzi fino a 14 anni passano dal 12,9% al 12,7% del totale (-160 mila).

In nessuna regione, neanche in quelle che hanno subito un maggior impatto dalla pandemia, la super-mortalità del 2021 determina una momentanea riduzione del processo di invecchiamento. Al Nord e al Centro le popolazioni ultrasessantacinquenni, che rispettivamente crescono dal 24,1% al 24,3% e dal 24,2% al 24,5%, registrano una variazione relativa più contenuta di quella del Mezzogiorno, per quanto quest’ultima area del Paese resti mediamente più giovane sotto il profilo dell’età (dal 22,3% al 22,7%).
I flussi migratori netti con l’estero, pur tornati ampiamente positivi nel 2021, sono ancora lontani dal poter controbilanciare la perdita di popolazione dovuta a cause naturali, così come avveniva nel primo decennio degli anni 2000 e nella prima parte del secondo, fino a tutto il 2013 incluso.

Non è difficile immaginare quali conseguenze vadano profilandosi tanto sul piano degli equilibri di welfare, quanto su quelli del sistema economico, degli orientamenti culturali, e delle stesse scelte politiche e programmatiche. Conseguenze che, per non dare luogo a uno scadimento nella qualità della vita, impongono interventi tempestivi e decisi su più fronti.

Ciò che emerge con forza dal messaggio contenuto in questi dati demografici è dunque il bisogno di una significativa spinta verso un “rinnovamento” della popolazione nella sua accezione non solo quantitativa, ma anche qualitativa. Occorre agire sul capitale umano, sia favorendone la “produzione” – rimuovendo gli ostacoli (economici, normativi e culturali) che impediscono la realizzazione dei progetti di fecondità – e in parallelo l’“acquisizione” – governando i flussi di mobilità –, sia valorizzando quella componente più “matura” che ha ancora energie e competenze validamente spendibili nel sistema Paese.

(20) Si veda Istat, Indicatori demografici, https://www.istat.it/it/archivio/269158.

SCARICA IL PDF DELL'ARTICOLO

[bws_pdfprint display=’pdf’]

Iscriviti alla Newsletter

Ricevi gli ultimi articoli di Riparte l’Italia via email. Puoi cancellarti in qualsiasi momento.

Questo sito utilizza i cookie per migliorare l'esperienza utente.