Il notista politico Stefano Folli su Repubblica sottolinea come, almeno dal 24 febbraio, giorno in cui è cominciato l’attacco russo all’Ucraina, il governo Draghi sia entrato in una fase di stabilità dovuta alle nuove, eccezionali circostanze in cui l’intera Europa si trova.
A essere precisi, il presidente del Consiglio non correva reali pericoli nemmeno prima, tuttavia la navigazione era accidentata. Ora i problemi restano ma la cornice è diversa. Non c’è dubbio che la politica estera torna a essere l’elemento cruciale della vita pubblica come fu agli albori della Repubblica, quando la Guerra Fredda aveva diviso in modo netto le forze di governo da quelle di opposizione. L’adesione convinta al sistema delle alleanze occidentali, e quindi ai valori e ai principi connessi, costituiva l’ovvio pre-requisito per contribuire a gestire un Paese membro della Nato.
Oggi la situazione è differente, ma solo fino a un certo punto. Il conflitto aperto nell’Europa dell’Est, con il rischio che l’incendio si allarghi, è un fatto senza precedenti dalla Seconda guerra mondiale. Comunque si concluda questa tragedia, è chiaro che non si tornerà più al passato. La crisi è destinata a rimodellare la convivenza civile e quindi anche il dibattito politico.
È vero, sulla linea da tenere verso la guerra Draghi l’altro giorno ha ottenuto in Parlamento un consenso largo. Egli stesso, fatto abbastanza inusuale, si è rivolto all’opposizione, cioè a Fratelli d’Italia: «Voglio ringraziare tutte le forze politiche, e in particolare l’opposizione, per la grande prova di unità e spirito costruttivo in questa crisi».
Un gesto che conferma la nuova centralità della politica estera, ma coglie anche la prova di maturità offerta da Giorgia Meloni. La quale avrebbe potuto cullarsi nell’ambiguità e invece ha compreso in fretta che stavolta era necessario schierarsi. Ciò significa che il vecchio populismo-sovranista è da relegare in un cassetto.