Fabrizio Curcio, capo del Dipartimento della Protezione Civile, ha rilasciato in esclusiva all’Osservatorio Economico e Sociale Riparte l’Italia, in occasione del webinar online, dal titolo “L’Italia dei vaccini”. L’evento, moderato dal giornalista Luca Telese ospite anche Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto Superiore di Sanità.
Dottor Curcio, la sua è un’icona bellissima, quella di un errante che combatte contro le emergenze italiane. Per ciò che riguarda il Covid dal punto di vista della Protezione Civile, siamo stati impreparati lo scorso anno, ora non dovrebbe più coglierci di sorpresa. Allora le faccio una domanda sulle procedure che avete introiettato e che devono impedire il ripetersi di episodi di disorganizzazione e disagio: che cosa ha la Protezione Civile ora nel suo Dna, come esperienza, per impedire di ritrovarsi in trincea e un passo indietro rispetto al virus, come accaduto in passato?
«La riflessione che faccio è duplice. Questa emergenza ha dei tratti di atipicità insita nel tipo di emergenza, cioè sanitaria. Ci eravamo scordati in Italia e in Europa e nel mondo, cosa significasse avere a che fare con una pandemia. È un qualche cosa che ha veramente fiaccato quella che noi chiamiamo “resilienza”. Il nostro sistema è un sistema sussidiario, non è di resilienza: cioè se c’è un problema sul territorio, l’altro pezzo di territorio, non affetto da quel problema, ti viene a dare una mano. Come avviene per i terremoti, le alluvioni e tutte le emergenze che viviamo. Noi ci siamo trovati ad avere a che fare con qualcosa che è accaduto direttamente su tutto il territorio nazionale. Anche se nella prima fase in una maniera un po’ diversa e nella seconda fase in una maniera più omogenea. Quindi per la prima volta abbiamo dovuto trovare, all’interno delle capacità territoriali, la forza di reagire. E anche gli strumenti, che in qualche modo lo stesso governo nel tempo ha messo in piedi, sono strumenti di resilienza, sono strumenti che, faccio l’esempio dei vaccini fatti dai farmacisti, non si sarebbero mai potuti immaginare, perché fuori da quello che era il concetto ordinario medico. Oggi invece è un elemento che viene messo a disposizione per aumentare la disponibilità delle persone ad accedere al vaccino».
«Questa emergenza ha un elemento di tipicità importante che non possiamo sottovalutare, cioè il fatto che l’emergenza ha necessità di un coordinamento, che nella sua parte iniziale non è stato chiarissimo. Come ad esempio il rapporto che esiste tra le Regioni e lo Stato centrale. Ma è un’emergenza nazionale in cui la responsabilità è nazionale o è un’emergenza nazionale che comunque vede la responsabilità dei governatori e in qualche modo questa responsabilità ognuno la esercita rispetto al proprio territorio? Da questo elemento non siamo ancora pienamente usciti».
«Noi abbiamo una capacità oggi di gestire quest’attività molto più omogenea rispetto alle prime fasi. Abbiamo uno strumento che oggi viene utilizzato in una maniera molto più importante che è il tema della condivisione nell’ambito dello Stato-Regioni, con i presidenti che si confrontano con lo Stato centrale. Ma ci sarà alla fine di questa emergenza da fare una riflessione: nelle emergenze nazionali, qual è la responsabilità dello stato centrale e del territorio nella gestione uniforme di un’emergenza di questo tipo?».
«E questo è uno dei temi che, secondo me, era presente anche prima della pandemia. Noi lo sappiamo bene perché nell’emergenza gestita dalla Protezione Civile questo è tipico. Noi lavoriamo, prendo l’esempio del sisma del Centro Italia che ha visto 4 regioni colpite, con 4 modelli un po’ diversi, poi noi facciamo un po’ di fatica ma poi omogenizziamo, ma 4 regioni riusciamo a omogenizzarle. Ma quando ne hai 20 questo ragionamento non funziona più».
«C’è un altro elemento che secondo me è stato fuorviante all’inizio di questa gestione emergenziale: la gestione delle emergenze non deve essere confusa con altro. Noi abbiamo confuso inizialmente, come Paese – non mi riferisco a quelli che si sono caricate le responsabilità di quest’esperienza, come Brusaferro – per una forma di non comprensione del fenomeno, il tema della gestione emergenziale con il tema dell’acquisizione di beni e servizi. Il tema della gestione emergenziale non l’acquisizione di mascherine e ventilatori. Quello è un pezzo importante della gestione emergenziale, direi fondamentale, ma non è la gestione emergenziale. La gestione emergenziale è la rete di relazioni che metti in piedi, per far sì che quei ventilatori, quelle mascherine, una volta acquisite, diventino poi uno degli strumenti che alla fine metti in piedi per reagire alla pandemia, in questo caso, o a un’altra emergenza. Questo tema vorrei sottolinearlo: gestire le emergenze è un mestiere, non è un qualche cosa che possiamo improvvisare. Per questo parliamo di pianificazione, per questo parliamo di gruppi che si occupano di gestione».
«Faccio l’esempio della Costa Concordia, ricorderete tutti l’episodio del 2012. Era un’emergenza ambientale, infrastrutturale? Che emergenza era quella nave di fronte a una delle più belle isole d’Italia? Io non lo so che tipo di emergenza fosse, anche ora che l’abbiamo conclusa. Io so che c’è stata la necessità di metterci insieme, di creare un gruppo di persone che si occupa di gestione delle emergenze, e questo gruppo di persone ha interloquito con i tecnici specializzati del settore. E insieme abbiamo portato il risultato».
«Quindi non confondiamo il settore specifico-tecnico di competenza, fondamentale, come il settore sanitario per esempio, senza il quale non si può andare avanti, con una gestione emergenziale che non può essere solamente una tabella e non può essere solamente, a mio modesto parere, il numero. Ci deve essere poi una politica di gestione emergenziale, che parte dal dato ma che poi profila altri elementi. E lo abbiamo visto con i codici colore, con la chiusura, l’apertura, il Green Pass, e così via. Ci sono degli elementi tecnici e poi c’è una narrazione di politica di dove noi vogliamo portare avanti la gestione emergenziale per far uscire il Paese dall’evento, specifico in questo caso della pandemia».
La Protezione Civile è stata all’inizio la casa, fisicamente parlando, del comitato tecnico scientifico. Alcuni dei testimoni di quella prima esperienza ricordano quel momento come una sorte di chiamata alle armi nei vostri uffici, con riunioni in cui si affrontava un virus di cui non si sapeva nulla. La Protezione Civile è tornata nuovamente in campo, è impegnata su tanti fronti, come se fosse un esercito che deve combattere più nemici. Le chiedo: lei sente bisogno di più risorse, più poteri, più attenzione in una fase così importante come la pandemia? Non finalizzato in modo astratto a ripetere procedure del passato, ma finalizzato unicamente al contenimento della pandemia.
«Io credo fermamente che il modello che noi abbiamo come sistema di Protezione Civile – che poi nel tempo è cambiato perché siamo passati da una protezione civile ipertrofica degli anni 2009-2010, ad una protezione civile assolutamente contratta, nel 2012 – sia un po’ al di sotto della media di quello che potrebbe essere come strumento. Siamo passati da una Protezione Civile che aveva poteri straordinari e faceva cose ordinarie, a una protezione civile che faceva cose straordinarie con poteri ordinari. Nell’ambito di questo andamento, il codice del 2018 si è posto a mio avviso un po’ al di sotto di quello che potrebbe essere lo strumento giusto. La Protezione Civile deve fare cose con poteri straordinarie, nelle attività straordinarie. Se riuscissimo a centrare questo aspetto allora saremo già a buon punto, ma in realtà siamo un po’ al di sotto».
«Faccio quest’analisi perché ci aiuta a capire meglio l’ambito di questi poteri. Nelle atipicità di questa gestione emergenziale, una di queste è stata quella di non avere su un punto di vista giurisprudenziale una linea chiarissima. Abbiamo avuto prima, il 30 gennaio, una dichiarazione di stato d’emergenza della Protezione Civile, con Borrelli, allora capo della Protezione, che era il coordinatore degli eventi. Dopo un mese esce fuori un commissario straordinario e di governo, che in qualche modo assorbe ma non completamente il ruolo della capo della Protezione civile, tant’è che oggi stesso noi abbiamo due soggetti in grado di operare con delle ordinanze in deroga alle normative: e cioè il commissario straordinario e il capo della protezione civile. Noi entrambi emaniamo ordinanze in deroga all’ordinamento di legge. Qualcosa non torna, no?».
«Oggi c’è una linea talmente chiara di intesa, di rapporto, di comunicazione, tra ministero della Salute, commissario e Protezione Civile, che il problema giuridico non si pone, perché noi ci confrontiamo costantemente, quotidianamente. Ma da un punto di vista giurisprudenziale ci sarà bisogno di dire un attimo: “ma scusate, se domani dovessimo riconfrontarci con un evento di questo tipo, quale sarà la catena di comando e controllo?”. Su questo punto stiamo lavorando con il ministero della Salute, per esempio per il famoso PanFlu (Piano strategico-operativo nazionale di preparazione e risposta a una pandemia influenzale) aggiornato, che nell’ambito come si suol dire di contingenza, del piano di emergenza, viene gestito nell’ambito del sistema di Protezione Civile. Con ciò voglio dire che questa esperienza che stiamo vivendo, avrà necessità di una riflessione importante».
«E vado alla risposta: ma nella relazione con l’aspetto sanitario, se non ho capito male, voi avete necessità di un punto di riferimento ancora più ampio rispetto a quello che avete oggi? Io dico una cosa di più: noi dobbiamo ancora capire bene quale sarà il ruolo del sistema della Protezione Civile, nell’ambito di una futura gestione pandemica, e lo stiamo definendo. E se il ruolo sarà quello, verso il quale stiamo andando e cioè che anche le emergenze sanitarie e pandemiche sono emergenze di Protezione Civile, allora è chiaro che noi dobbiamo costruire un rapporto tra la comunità scientifica e la realtà operativa che vive negli altri rischi. L’intuizione di Zamberletti che ha fatto la Protezione Civile, non era solo il coordinamento tra i vigili del fuoco, le forze armate, di polizia, i volontari, ma è: cara protezione civile, tu sei anche un po’ la sintesi, di quelle che sono l’applicazione della comunità scientifica in materia di Protezione Civile».
«Tra le altre cose è un tema molto attuale, perché in questi giorni un emendamento del Dl Sostegni Bis ha, nell’ambito del coordinamento dell’attività scientifica, preso dei fondi della Protezione Civile assegnandoli a uno degli enti scientifici, andando secondo noi a indebolire il sistema generale. Cioè il sistema di Protezione Civile, non nell’ambito della ricerca pura – quello è da finanziare assolutamente e da andar avanti -, ma della ricerca applicata al sistema di protezione civile, che è dotato di un fondo. Ma sarà il caso che il sistema dovrà dire A, B, C, e tu scienza mi dai delle risposte? O è la scienza che fa i suoi percorsi e a me dà i prodotti che io non riesco ad applicare? Questo è successo con questo piccolo emendamento».
«Tornando alla domanda: è chiaro che, se come credo, anche le attività emergenziali-sanitarie si possano ricomprendere nell’ambito di un sistema emergenziale della Protezione Civile, noi quel sistema dobbiamo potenziarlo. Cioè quel rapporto tra Iss, strutture scientifiche, che operano nella loro piena autonomia – non ci permetteremmo mai di intrometterci mai in quel discorso -. Allora dobbiamo creare un meccanismo più consolidato per evitare di doversi, tra virgolette, inventare il Cts di turno, che è stato uno strumento che comunque è stato immaginato nell’ambito di un’ordinanza e non strutturato. Il Cts è stato immaginato come un elemento di supporto nella prima ordinanza, perché non c’era una pianificazione di come questo rapporto tra attività operativa e scientifica dovesse essere condotto. E poi ce lo siamo trascinati con quei percorsi positivi. Non so sto dicendo che fossero esperienze negative, ma che questa gestione ha fatto emergere elementi positivi e criticità. Il mio obbiettivo sarà quello di ragionare affinché queste positività vengano strutturate e si possa lavorare insieme per eliminare le criticità. Un passo che un Paese maturo come il nostro può tranquillamente fare».
Volevo chiederle di rispondere simbolicamente al grande sospetto del popolo del nì: che sta a metà tra il sì-vax e il no-vax. Il grande sospetto è che ci sia una sorta di cospirazione istituzionale, che si vogliano restringere le libertà, che la Protezione Civile, le autorità sanitarie cooperino un grande disegno che vuole ridurre gli spazi di libertà dei cittadini. Se lei dovesse rassicurarli da uomo dello stato, di uno stato moderno, che cosa direbbe loro?
«Questo tema del complottismo è un tema emergenziale. Guardate, non c’è emergenza senza questo tema, accadde ad esempio anche nelle aree della popolazione del sisma del Centro Italia del 2009. C’è un tema di diffidenza istituzionale, noi lo vediamo in tutte le gestioni emergenziali. L’unico modo è quello di parlare direttamente e chiaramente alle persone. Perché le persone poi vogliono sentirsi rassicurate e noi dobbiamo raccontare le cose come stanno. Alcune volte queste cose non sono semplici da raccontare, noi dobbiamo essere seri nel dirlo».
«L’esperienza del vaccino Astrazeneca, che nell’arco di gennaio e maggio ha cambiato dodici modalità di impiego, passando da solo sotto i 55 anni a solo sopra i 60 anni, è molto complicato da spiegare. Ed è complicato che quei passaggi sono reali e legittimi, dato che sono frutto di ciò che a mano a mano si va ad ampliare in termini di conoscenza. Nell’ambito di questi meccanismi, chiamiamoli di diffidenza istituzionale, l’unica cosa che può fare l’istituzione è cercare di parlare a voce unica. Questo è un problema perché lo abbiamo visto anche in questo caso».
«L’autorevolezza che ha il dottor Brusaferro è quello dell’Istituto Superiore Sanità. Se noi facciamo venir meno il concetto che il presidente dell’Iss vale quanto il cittadino Fabrizio Curcio in tema sanitario, vuol dire che dobbiamo lavorare su questo. Uno non può valere uno, perché il presidente Brusaferro è il presidente dell’Istituto Superiore della Sanità e io no. Il tema della comunicazione non può essere disgiunto dal tema della responsabilità. Perché se io vengo a dire una cosa e dopo un mese ci ripenso, devo assumermi la responsabilità di ciò che viene a valle dopo ciò che ho detto».
«Allora il tema della comunicazione anche nei dibattiti pubblici, che sono sempre produttivi, è: ok, tu pensi questa cosa. Ma se poi hai la responsabilità di ciò che avviene a valle di quello che hai detto, poi la responsabilità te la prendi. Io non parlo di responsabilità solo giudiziaria, ma anche etica. Quando io dico il mio parere da cittadino, esprimo la mia opinione, ma quando lo dico da capo della Protezione Civile, io mi assumo una responsabilità rispetto a quella filiera. E io a quella filiera sarò chiamato a rispondere, sia in primo luogo eticamente e poi dal punto di vista giudiziario. Al cittadino dobbiamo dire: le istituzioni si assumono le proprie responsabilità e quindi non c’è altro modo che seguire quello che le istituzioni dicono, perché ne rispondono. Ma ripeto, eticamente in primo luogo».