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[L’intervento esclusivo] Francesca Bonifazi (responsabile Programma Trapianto Cellule staminali ematopoietiche e Terapie Cellulari avanzate): «Terapie con cellule CAR-T: stiamo seminando per il futuro»

I RELATORI

Francesca Bonifazi, responsabile del Programma Trapianto Cellule staminali ematopoietiche e Terapie Cellulari avanzate, ha rilasciato alcune dichiarazioni in esclusiva all’Osservatorio Economico e Sociale Riparte l’Italia in occasione del webinar online, dal titolo “Ricominciamo a progettare il futuro: le terapie cellulari avanzate saranno il presente”. L’evento, moderato da Alessandra De Palma, direttrice U.O.C. Medicina Legale e Gestione Integrata del Rischio Area Sicurezza delle Cure IRCCS Azienda Ospedaliero-Universitaria Bologna, ha visto tra gli ospiti anche Chiara Gibertoni, direttrice generale IRRCS AOU al Policlinico S.Orsola di Bologna, e Franco Locatelli, presidente Css e coordinatore Cts.

Francesca Bonifazi, responsabile del Programma Trapianto Cellule staminali ematopoietiche e Terapie Cellulari avanzate dell’IRCCS Azienda Ospedaliero-Universitaria Bologna. Perché è stato scelto questo nome così lungo e così complesso?

«Perché trapianto e terapie cellulari? Innanzitutto, perché l’Autorità regolatoria affida l’infusione delle cellule CAR-T a chi ha esperienze di trapianto, in particolare il trapianto autogenico. Ci sono due tipi di trapianto: autonomo, che è quello che si fa con le cellule del paziente, e quello autogenico, che è quello che si fa le cellule di un donatore. L’Aifa, l’autorità regolatoria, perché – come diceva il professor Locatelli – le cellule CAR-T sono un farmaco, quindi hanno questa doppia natura di terapia cellulare e di farmaco, sono regolamentate dall’autorità competente, che è l’Aifa».

«L’Aifa, nel 2018, ha stabilito le regole per poter infondere le cellule CAR-T – non parliamo più di produzione, ma di infusione. L’infusione delle cellule CAR-T può essere autorizzata laddove ci sia l’accreditamento, quindi una dimostrazione di competenza di tipo trapiantologico. Questo per due motivi essenzialmente. Innanzitutto, perché chi fa trapianto conosce le reazioni infusionali, perché ha a che fare con i prodotti cellulari, e ha a che fare con un paziente complesso. Il trapianto è una terapia semi-intensiva, se vogliamo classificarla»

«Il secondo aspetto è l’esperienza, l’expertise, che vengono chiarificate da un accreditamento internazionale chiamato JCI, che è quello sui prodotti cellulari. Il trapianto è la prima terapia cellulare, la più vecchia e più semplice. Si chiama manipolazione minima, quindi non ha bisogno di tutta una serie di regole, che giustamente servono per una terapia cellulare vera e propria»

«Il trapianto è una terapia cellulare. Quindi in quella delle facility, programma trapianti, cioè il laboratorio di processing, risponde ai requisiti della direttiva europea Tissue Establishment, l’istituto dei tessuti, che stabilisce la competenza per poter manipolare queste cellule».

«Faccio un esempio: anche laddove si fondano, come nel nostro centro, prodotti con manifattura esterna, e quindi di companies autorizzate dall’Aifa, le cellule partono e arrivano nell’istituto dei tessuti, quindi nel laboratorio del programma di trapianti. Queste sono le due motivazioni fondamentali per cui dobbiamo mettere insieme trapianto, soprattutto autogenico, e terapia cellulare»

Perché abbiamo pensato di poter trasportare questo, quindi anche l’officina a Bologna? Perché Bologna?

«C’è stato un momento d’incontro. A volte le cose accadono per una serie di coincidenze miracolose. È arrivata al Sant Orsola la dottoressa Gibertoni e questo ha cambiato in maniera definitiva la vita, anche quotidiana, all’interno del Sant Orsola, con questa grande progettualità. Noi avevamo questo tipo di expertise, che è clinico e di trapianto – io sono una trapiantologa-ematologa – l’autorità competente ci mette ci inserisce come coloro che devono gestire la terapia cellulare. Il Sant Orsola stava diventano IRCCS, quindi, in qualche maniere doveva scommettere sulla ricerca e sull’innovazione, in contatto con il professor Locatelli. È successa questa ricetta, che direi quasi miracolosa, che ha portato questa grande progettualità».

«Ho detto al direttore generale qualche anno fa che le scommessa che dobbiamo fare, al di là di tutto, è una scommessa di tipo culturale e generazionale. Parliamo sempre di quello di cui siamo capaci, ma è quello che a noi oggi ancora manca e a cui dobbiamo tendere (ed è il motivo per cui, quando il direttore generale mi ha fatto questa proposta, mi sono rivolta subito al professor Locatelli) è creare un expertise in loco. Sfruttando quello che è il genius loci – perché non è vero che a Bologna non ci sia nulla, assolutamente – ma finalizzarlo, scommettendo sulle nuove generazioni, in una nuova expertise che impiegherà anni, lustri, a formarsi. Ma se chi non comincia non arriverà mai».

«Dico sempre che il trapianto per me è stato scuola di vita, chi non semina non raccoglie. Noi oggi stiamo seminando per il futuro. Questa trasversalità, di cui parlava la dottoressa Gibertoni prima, è resa necessaria dall’organizzazione, ma crea interesse scientifico. Noi abbiamo già fatto due milioni di CAR-T cell team, all’interno del Policlinico Sant Orsola, e stanno nascendo i primi studi di tipo traslazionale, biologico. Il direttore generale mi ha dato l’opportunità di utilizzare una piattaforma di ricerca trasversale di immunobiologia dei trapianti. Stiamo iniziando con una nostra progettualità, che vede una tutorship scientifica che io con grande privilegio e umiltà rimetto sempre al professor Locatelli».

Ci spiega un po’ meglio il modello hub and spoke? Che cosa significa e a cosa serve di fatto?

«Penso sia un esempio saggio della nostra Regione. Quando due anni fa sono stata contattata ho avuto l’idea, condivisa con chi era in Regione, di fare una lista unica regionale, solo per terapie avanzate. Le terapie avanzate per definizione non possono essere in tutti gli ospedali, però il referral deve essere assolutamente trasparente, e quindi universale. Abbiamo bisogno di tradurre questo pensiero in atti».

«Quello che abbiamo fatto è creare, su quello che è il server ospedaliero regionale delle rete regionali sui trapianti, una lista informatizzata per l’accesso a tutte le ematologie della Regione Emilia-Romagna per i pazienti da valutare per terapie con CAR-T. Questa lista è operativa dalla fine di settembre 2020. A fine settembre 2021 raccoglieremo i dati, e poi ci vedremo e vedremo le criticità. Questo serve per tanti motivi. Innanzitutto perché i centri spoke possano riferire in maniera trasparente. Poi avevamo bisogno di capire se le previsioni che avevamo fatto erano reali. Su questo ho qualche dubbio, perché purtroppo con il Covid il referral è stato meno veritiero, secondo me. Forse il 2022 sarà l’anno che ci darà davvero idea di quanti sono realmente i pazienti».

«Questa è una lista regionale unica, in quanto siamo l’unica regione in Italia che fa questa cosa. Abbiamo fatto questa lista unica perché siamo l’unico centro autorizzato a diffondere le cellule CAR-T. Dovevamo far vedere e dimostrare che i pazienti dell’Emilia-Romagna hanno un accesso e questo oggi è tutto tracciato. Possono accedere anche pazienti da fuori. Abbiamo stabilito delle priorità, poi all’interno di questo gruppo, che vede la compresenza di tutte le ematologie, c’è una piccola sottocommissione, che in caso di parità stabilisce la priorità».

«Questo ci servirà da un punto di vista organizzativo-gestionale, non solo del Sant Orsola ma anche della Regione Emilia-Romagna, per capire anche il tipo di risorse di cui abbiamo bisogno. Il passo successivo è sviluppare la parte post. Nella parte pre il paziente viene preso in carico dalla nostra istituzione, con i vari gruppi di patologia, con la sottoscritta. Dopodiché una volta che il paziente viene dimesso, viene ripreso in carico dal gruppo che sta con noi fino a un mese post-trapianto. Abbiamo anche la possibilità di ospitare gratuitamente, grazie a Casa Ail, i pazienti che abitano a distanza di più di due ore, perché possa essere garantito in sicurezza il follow-up del paziente almeno nel primo mese. Dopo di che il paziente torna a casa e si trova lo specialista periferico, con una terapia che conosce meno».

«Quindi, stiamo cercando di sviluppare la fase post. Nella fase post, quindi si dovrà riscrivere il PDTA regionale su questo, svilupperemo un programma di telemedicina, cercheremo di trovare la possibilità di realizzare un teleconsulto, in cui una volta al mese, noi insieme a tutta la rete regionale ci potremmo vedere per discutere i pazienti, in modo che i pazienti possano venire sia qui a Bologna per i controlli 1-3-6-9-12 mesi, ma anche farli presto a casa loro. Questo serve per l’ematologia periferica, perché non si senta depredata dai pazienti. Serve per il paziente, noi lo stiamo vivendo in questi mesi, sentire che siamo così in contatto noi dell’hub e lo spoke è estremamente rassicurante per il paziente».

«Tramite la piattaforma della medicina che il Sant Orsola sta cercando di lanciare e tra pochi mesi sarà disponibile a livello Regionale, potremmo anche caricare tutti gli esami radiologici, etc. Questo in qualche maniera si alleggerisce il carico sul Sant Orsola con una condivisione non sono assistenziale, ma anche scientifica e organizzativa. Il nostro secondo step per il post, quello sul quale scommettiamo, è quello sulla telemedicina».

Ha usato l’acronimo PDTA, può spiegare ai non addetti ai lavori cos’è?

«È un percorso diagnostico terapeutico. Viene scritto chi fa cosa e cosa accade. Si mettono in fila tutti i pezzi di un percorso complesso e che vede una grande trasversalità di tante discipline, di tanti specialisti, e anche di più ospedali. È una descrizione del percorso diagnostico, terapeutico e anche di follow up del paziente».

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