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Altro che scomparso, il virus uccide ancora. E produce effetti politici in tutto il mondo

Le cose sul fronte della pandemia vanno meglio, ma ancora meglio è ricordarsi come da noi è cominciata questa tragica vicenda.

Il virologo Fabrizio Pregliasco – tra l’altro supervisore del Pio Albergo Trivulzio diventato poi una sorta di fossa comune per poveri vecchi abbandonati – il 24 febbraio su Tpi affermava che: “La malattia provocata dal nuovo coronavirus, rispetto ad altre, è banale e non è contagiosissima”.

Lo stesso giorno su Repubblica Maria Rita Gismondo, direttrice del laboratorio di Microbiologia dell’ospedale Sacco di Milano, dichiarava sprezzante e annoiata: “Alla fine di questa storia con il coronavirus mi farò un ciondolo d’oro”.

Accompagnati dagli autorevoli responsi dei nostri scienziati siamo precipitati verso il disastro: 33 mila morti in Italia e 22mila in Lombardia.

Forse sarebbe bastato un po’ di buon senso e chiedersi come mai i cinesi, certo non esenti da colpe, erano arrivati a chiudere le fabbriche, loro che sarebbero disposti a tutto pur di fare quattrini.

Non che siano stati molto più svegli di noi in Spagna, Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti. L’unico grande Paese che ha contenuto davvero il contagio è stata la Germania che ai primi di marzo aveva già fatto incetta sui mercati internazionali di ventilatori e tamponi.

Diciamo che il coronavirus ha esaltato le deficienze della destra più becera a partire dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump, emblema della più impotente della grandi potenze, passando per il suo adepto Bolsonaro in Brasile, per finire con Boris Johnson in Gran Bretagna, che ha rischiato la pelle in un respiratore artificiale dopo avere annunciato qualche giorno prima che era “il momento di dire addio ai nostri cari”.

Il Covid-19 ha avuto sicuramente un effetto politico: ha messo in evidenza le carenze spaventose di leader che pur godendo, al loro insediamento al potere, di vasti consensi popolari se li sono bruciati in questi mesi affastellando una stupidaggine dietro l’altra.

Le epidemie non guardano in faccia a nessuno e si portano via milioni di vite ma hanno un merito: mirano con la precisione di un cecchino al bersaglio dei politici più inadeguati.

L’unico che ci ha preso davvero è un signore settantenne, David Quammen, laureato in lettere, giornalista di National Geographic, che nel suo libro Spillover, dedicato ai virus, aveva scritto già nel 2012 che “la prossima epidemia nascerà o dalla giungla africana o da un mercato del pesce cinese”.

Pare che a Wuhan sia avvenuto proprio così, anche se lo Stesso David Quammen in un recente aggiornamento ci avverte che su questo punto c’è ancora da fare accertamenti scientifici.

Facendo parte della categoria, in genere non mi fido troppo dei giornalisti sulle questioni scientifiche – persino le riviste specializzate hanno fatto figure barbine con il Covid-19 – però Quammen non solo è un uomo modesto e di buon senso ma ha passato la vita a viaggiare dove le epidemie sono nate e a parlare con le vittime e con coloro che le hanno affrontate sul campo, dall’Asia all’Africa, all’America Latina.

E’ l’inviato perfetto nella guerra ai virus e non si ferma alle prime impressioni. I virus zoonici, ci avverte – lui come gli scienziati più accorti – tendono a scomparire, a nascondersi per poi magari, anni dopo, improvvisamente risorgere.

Intanto il virus continua circolare, in particolare in America Latina dove siamo già a 500 mila morti. Si segnalano focolai in Medio Oriente e ora anche in Africa occidentale dove sembrava che l’avessero scampata. Il coronavirus ha comportamenti erratici e non possiamo dire ancora nulla con certezza, né come è comparso, né come curarlo con precisione, ne come immunizzarci – il vaccino è ancora lontano – e neppure se avremo ancora a che fare con lui oppure, come può sembrare, perdere forza per volatilizzarsi ed essere ricordato soltanto nei libri di storia come la famosa spagnola che fece 18 milioni di vittime negli anni Venti del secolo scorso.

Anche allora il metodo adottato fu il distanziamento sociale.

La gente però a New York superò i divieti di assembramento per affollarsi alla prima di “Charlot Soldato”, film di Chaplin sulla prima guerra mondiale.

“Pur di vederlo ieri la gente ha sfidato la morte”, scrisse allora il critico di Variety, che una settimana dopo morì di spagnola.

Possiamo comunque valutare alcuni effetti politici del virus. Lo scontro tra Cina e Usa si fa sempre più acuto e la legge sulla sicurezza imposta da Pechino a Hong Kong fa pensare che la leadership cinese nazionalista sia disposta a sacrificare il ruolo di piazza finanziaria internazionale dell’ex colonia britannica pur di consolidare la sua presa su quella parte di mondo che fa parte della sfera cinese. Durante il coronavirus le guerre non si sono fermate, anzi gli attori regionali ne hanno approfittato per portare a termine alcuni progetti mentre le grandi potenze erano distratte dalla pandemia. La Turchia di Erdogan è diventata l’attore protagonista in Libia mentre Israele con Netanyahu ha annunciato l’annessione della Valle palestinese del Giordano.

Tutto questo mentre si entra in pieno nella corsa per le presidenziali americane.

Trump può farcela solo se l’economia riprende il volo: negli Stati Uniti questo è l’argomento più sensibile per l’elettorato, non il razzismo sui cui gli Usa si fondano da alcuni secoli.

Il sistema americano è profondamente giusto con i vincenti e tremendamente ingiusto con i perdenti. Ne avremo probabilmente ancora una volta la conferma.

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