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Sistema industriale asfittico, troppe tasse per pochi, tanti soldi per le pensioni e zero per gli investimenti. Ecco i buchi neri dell’Italia

Ce la faremo? Da una parte, il dettaglio amaro, che l’Istat ha fornito in questi giorni, di una economia ferma e di posti di lavoro che si assottigliano.

Dall’altra, il quadro, nelle statistiche del Tesoro, della vorticosa avanzata del disavanzo del bilancio pubblico e dell’inesorabile gonfiarsi del debito. Combinateli e avete l’immagine di una Italia stritolata nella tenaglia di recessione e debito, che neanche una potente iniezione di aiuti europei potrebbe salvare. Ma è una immagine distorta.

La situazione è difficile, ma non disperata.

Ad aiutarci ci sono alcuni fattori contingenti e, soprattutto, alcuni dati strutturali: quelli che economisti e allenatori di calcio chiamano i “fondamentali”.

Anzitutto, questo è il punto più buio del tunnel. Una seconda ondata del virus, paragonabile a quella appena passata, con quarantene annesse, lo allungherebbe in misura difficilmente tollerabile.

Ma, senza una nuova emergenza sanitaria, la parte più dura della crisi sarà alle nostre spalle e potremo cominciare a misurare la ripresa.

A puntellarla, c’è qualcosa di cui l’Italia avrebbe avuto un disperato bisogno negli anni scorsi, ma non ha mai veramente avuto: una robusta rete di sicurezza sui mercati finanziari che impedisca l’avvitamento dello spread e del costo del debito.

Da questo punto di vista, l’impegno assunto dalla Bce è un salvavita.

Disavanzo e debito aumenteranno nei prossimi mesi, ma, numeri alla mano, saranno quasi interamente assorbiti, sui mercati, dalle casse di Francoforte. Di fatto, agli investitori normali chiederemo meno prestiti di quanto avremmo fatto se la crisi coronavirus non ci fosse stata.

Un vantaggio che si prolunga e si accumula nel tempo: perché la Bce, al contrario di un investitore normale, ha già promesso che quei titoli che compra e comprerà, continuerà a tenerseli e a rinnovarli alla scadenza, fino a data da destinarsi. Il momento in cui ci verrà presentato il conto, insomma, è lontano qualche anno.

E’ lo spazio in cui possiamo mettere all’opera i nostri “fondamentali”, che troppo spesso, in Europa, vengono sottovalutati, travisati, dimenticati.

Il premier olandese, Mark Rutte, per compiacere i suoi elettori, fa finta di credere il contrario, ma l’Italia non vive al di sopra dei propri mezzi. Al contrario, paradossalmente, al di sotto.

La bilancia dei pagamenti, infatti, è da anni in avanzo: la produttività complessiva di industria e servizi è bassa, ma, in molti settori è di tutto rispetto.

Quanto basta perché ci possiamo permettere quel che importiamo dall’estero: il paese, infatti, esporta più di quanto importi.

E non siamo affatto sommersi dai debiti.

Con l’estero – sorpresa –  siamo pari. E all’interno, le famiglie non ne hanno troppi.

Anzi, le imprese – altra sorpresa – sono fra le più virtuose della Ue.

L’Italia ha una quota di sofferenze bancarie (i crediti che le banche sono convinte di non poter più riscuotere) superiore a quella degli altri paesi. Ma, se si guarda al complesso del sistema industriale, le imprese italiane hanno meno debiti delle corrispondenti aziende europee.

Infatti, il debito privato, in Italia, arriva al 110 per cento del Pil. Meno di quanto avvenga in Germania.

Al confronto, i privati sono sommersi dai debiti in Francia (più di due volte il valore di tutta l’economia) e, in particolare, nella virtuosa Olanda, dove i debiti privati equivalgono al 258 per cento del Prodotto interno lordo.

Il problema, per noi, è il debito pubblico, proiettato verso il 160 per cento del Pil. Ma gli sconsiderati scialacquatori sono nel passato.

Quella montagna di debito non solo non è di oggi, ma neanche di ieri. E’ dell’altro ieri, frutto diretto dei ruggenti anni ’80, dell’ultimo decennio della Prima Repubblica, del Caf e dell’era Craxi.

Se togliete gli interessi che siamo costretti a pagare su quel debito antico, il Tesoro italiano non produce più disavanzi dal lontano 1992. Pochi altri paesi sono stati così virtuosi. E allora perché, in rapporto al Pil, il debito pubblico continua a salire, come ci rimproverano un po’ tutti? Perché, per via della bassa produttività, l’economia si allarga poco e il debito pesa di più. E, poi, perché ci sono da pagare gli interessi su quel debito pubblico.

La spesa pubblica, infatti, non è fuori controllo. Equivale al 48,4 per cento dell’economia. I virtuosi paesi “frugali” (Olanda, Austria, Danimarca e Svezia) sono anch’essi lì, al 48 per cento.

La Francia è addirittura al 56 per cento. La Germania, al 44,6 per cento, è sotto, ma proprio la magra spesa pubblica è una delle critiche che gli economisti rivolgono a  Berlino.

E sono tutti dati inquinati dalla spesa per interessi su Bot e Btp. Al netto degli interessi, la spesa pubblica italiana è pari al 44,5 per cento del Pil, più o meno quanto il 43,6 per cento della Germania.

E, contemporaneamente, l’Italia paga regolarmente le sue tasse. Il volume delle entrate fiscali, infatti, è in linea con quello degli altri paesi della Ue.

Il problema è la distribuzione e la gestione di questi fondamentali.

L’Italia ha una industria esportatrice vivace, vitale, di livello mondiale, ma che deve trascinarsi dietro il resto – asfittico, chiuso, poco produttivo – del sistema industriale.

La spesa pubblica è in linea con l’Europa, ma spendiamo poco in investimenti, troppo in pensioni.

Anche le tasse sono normali, ma c’è troppo sommerso e troppa evasione, con il risultato di una pressione insostenibile sui contribuenti onesti.

Lavoriamo, spendiamo, tassiamo male.

Non sono le risorse che mancano all’Italia per uscire dalla crisi. Bisogna imparare ad utilizzarle.

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