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Giordano Scappucci (ricercatore): «QuBit: verso lo sviluppo del computer quantistico»

Giordano Scappucci, scienziato e ricercatore italiano, è uno dei principali autori di una ricerca, pubblicata da Nature, che può rappresentare un vero e proprio passo in avanti verso lo sviluppo di un computer quantistico, al punto da finire sulla copertina della prestigiosa rivista scientifica.

Il suo team al QuTech della TU Delft (Università Tecnica di Delft), in Olanda è infatti uno dei tre gruppi di ricerca che sono riusciti a dimostrare che i chip di silicio, simili a quelli usati tutti i giorni nei nostri computer, possono fare computazione quantistica ad alta fedeltà, superando la soglia del 99%.

Ha 44 anni, Giordano è nato, cresciuto, e ha studiato a Roma. Figlio di un giornalista radio e di una professoressa di inglese, si è diplomato al Liceo Ginnasio Statale Torquato Tasso, uno dei licei storici della capitale, e si è laureato in Fisica presso l’Università La Sapienza di Roma nel 2000 con il massimo dei voti.

A 27 anni, ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Fisica presso l’Università Roma Tre e nel 2005 si è trasferito a Sydney dove ha svolto attività di ricerca presso la University of New South Wales e il Centre for Quantum Computing Technology per dieci anni.

In Australia (oltre a sviluppare una passione per la musica e il surf) diventa un esperto internazionale nell’uso di materiali semiconduttori come silicio e germanio per tecnologie quantistiche. Nel 2015 il ritorno in Europa. È stato chiamato all’Università di Delft, Paesi Bassi, una mecca della fisica quantistica applicata, per dirigere un gruppo di ricerca che sviluppa materiali per il computer quantistico.

Giordano ha pubblicato le sue ricerche su alcune delle riviste scientifiche più prestigiose (Nature, Science) e vanta collaborazioni accademiche sia con numerosi ricercatori in tutti il mondo, che con grandi aziende, ad esempio Intel.

Nel vostro articolo si fa molta enfasi sul fatto che siete riusciti a dimostrare che anche su silicio si può fare un computer quantistico. Vuol dire che possiamo usare la tecnologia quantistica anche sui chip tradizionali?

«Sì, praticamente l’idea è quella. L’idea del silicio per i computer quantistici nasce circa 20 anni fa nel 2000 tra l’altro con un paper sempre su “Nature” degli Australiani, Sono loro ad essere stati pionieri di questo approccio ed è per questo che sono andato a lavorare in Australia. Vogliamo utilizzare la tecnologia della microelettronica di oggi che permette di mettere miliardi di transistor in un chip e usare tutta l’elettronica che oggi è alla base del mondo in cui viviamo».

«Questo ci permetterà, speriamo in futuro non troppo lontano, di avere milioni o miliardi di qubit insieme fatti su silicio per fare il computer quantistico. Ora, questi grandi numeri servono per fare qualcosa di pratico coi computer quantistici, e ad oggi l’unica tecnologia che ti porta a integrare tanti componenti su questa scala è la tecnologia su silicio, non ce ne sono altre. Usiamo la tecnologia che abbiamo già e cerchiamo di cambiarla il minimo possibile».

«Il risultato che abbiamo ottenuto è che siamo riusciti ad avere alta fedeltà nei calcoli quantistici usando tecnologia su silicio. Perché se non hai l’alta fedeltà non vai da nessuna parte e secondo noi, se non hai chip su silicio farai poca strada nella lunga maratona che occorre fare per verso la realizzazione del computer quantistico».

In cosa consiste poi fisicamente questa integrazione. Cioè che cos’è il qubit e come si fa a inserirlo all’interno di un chip di silicio?

«Il qubit è un dispositivo elettronico. Lo puoi immaginare come fosse un semplice transistor. Il transistor è come un interruttore elettrico che fa on e off (1 e 0). Un po’ come fosse un rubinetto che fa passare l’acqua: lo apri e lo chiudi. Ora, mentre nei transistor tradizionali la corrente elettrica è composta da tanti elettroni, c’è un flusso, nei qubit isoliamo una singola carica, un singolo elettrone e su questo riusciamo a codificare l’informazione quantistica. Noi isoliamo un singolo elettrone, lo manipoliamo e lo controlliamo a nostro piacimento. Ora come si inserisce questo nella tecnologia tradizionale?».

«Nello stesso modo in cui si fanno milioni di transistor, l’idea è che si fabbricheranno milioni di qubit. Per ora noi ne abbiamo fatti pochi e, in questo esperimento, il chip è composto da soli due qubit, l’equivalente di due transistor che si parlano. L’aspetto importante di lavorare con tecnologia al silicio è che poi puoi accedere a tutta l’elettronica che controlla questi qubit già disponibile e la puoi integrare con i qubit sullo stesso chip. In questo modo si raggiunge un livello di integrazione ancora più alto».

Quindi è più vicina a una sua applicazione all’interno di macchine già esistenti?

«Sì, perché alla fine quello che succederà, come noi ce lo immaginiamo, è che ci sarà un chip quantistico all’interno di una scheda elettronica, di un sistema, di un computer, su un server, che probabilmente lavorerà a bassa temperatura e quindi si faranno macchine a cui si accederà via cloud dove gireranno alcuni calcoli molto particolari e molto specializzati. Probabilmente, il computer quantistico sarà un componente di sistemi di computazione più complessi a cui accederemo via cloud. Già adesso, ad esempio, si può accedere ad alcuni computer quantistici, molto limitati, sul cloud. Ad esempio, Delft ha messo online il primo computer quantistico europeo (https://www.quantum-inspire.com/) che permette di girare algoritmi quantistici o su simulatori o su piccoli processori quantistici».

Come è fatto questo qubit? In cosa consiste? Come è possibile passare da miliardi di elettroni che lavorano l’informazione e hanno una loro resa in termini di capacità di calcolo a un solo elettrone che invece è potenzialmente molto più potente?

«La cosa fondamentale è riuscire a confinare un singolo elettrone, lo devi intrappolare, in tre dimensioni in modo che tu possa manipolarlo. Come si fa? Occorre creare una sorta di trappola, in termini tecnici la chiamiamo “buca quantica”. Un po’ come quando lanci una biglia su un percorso in spiaggia e cade in una buca. Per bloccarlo poi usiamo degli elettrodi metallici che sono gli stessi che di un transistor normale».

«Il punto importante è che la tecnologia per fare queste cose è addirittura una tecnologia più vecchia di quella con la quale si fanno oggi i transistor. I nostri qubit sono dispositivi di circa 30 nanometri che sono dieci volte più grandi dei transistor più avanzati che vengono fabbricati oggi dalle grandi aziende di semiconduttori. Questo per dire che non ci serve nemmeno la tecnologia più avanzata per farli, è una cosa abbastanza paradossale. La sfida più importante non è realizzarli, ma controllarli».

Per usare una metafora quasi basta un vecchio 486?

«Beh, diciamo che non serve la tecnologia di ultimissima generazione. Comunque, come dicevo, la grande sfida è farne tanti, metterli insieme e usarli. Perché il problema dell’informazione quantistica è che è molto fragile quindi deve durare a lungo abbastanza per riuscire a manipolarla».

Voi quindi siete riusciti a verificare che questo processo produce una informazione verificabile ovvero attendibile al 99%

«Assolutamente. È una soglia fondamentale, perché molti studi hanno fatto vedere che una volta che si riesce a sorpassare la soglia del 99% di fedeltà, cioè meno di un errore ogni 100 calcoli, puoi praticamente correggere questo errore in diretta mentre avviene usando degli algoritmi. Immaginate, questo qubit fisico come un transistor che lavora».

«In realtà anche se quel qubit fa degli errori di calcolo, però se gli affianchi altri qubit che lavorano per lui, si chiamano “ancilla qubit”, sono una sorta di ancelle, questi altri qubit l’aiutano a correggere gli errori di calcolo. Se uno ha il 99% di fedeltà quello che succede è che ci sono degli schemi già verificati per correggere gli errori e quindi fare calcoli su larga scala. Questo sarà il prossimo grande obiettivo: dimostrare non solo che si riesce a fare calcoli quantistici, ma che poi ne puoi fare più complessi correggendo gli errori che hai».

Qual è il meccanismo quantistico alla base di questa tecnologia?

«Il meccanismo quantistico alla base di questi qubit è lo spin dell’elettrone. Te lo devi immaginare come una trottola che gira in verso orario o antiorario e noi lo simboleggiamo con una freccia che va o in su o in giù. In un bit normale la freccia andrebbe solo in un verso o nell’altro quindi 0 e 1. Ecco un bit quantistico (qubit) può stare sia su che giù allo stesso tempo, ha infinite possibilità. Si chiama sovrapposizione di stati».

«Questo modo di codificare l’informazione ti permette una velocità di calcolo esponenziale perché tu puoi praticamente guardare a tutte le possibilità insieme, è un calcolo fondamentalmente parallelo, massivamente parallelo che ti permette di andare molto veloce. Voglio fare un esempio per spiegare meglio».

«Hai un mazzo di carte da gioco e il tuo scopo è trovare una carta in questo mazzo, per esempio l’asso di coppe. Un computer classico gira una carta alla volta fino a che non trova l’asso di coppe e allora sa con certezza che l’asso di coppe era là. Il computer quantistico non fa così, il computer quantistico riesce a dare una sbirciata a tutte le carte insieme perché riesce a lavorare con delle sovrapposizioni di stati, tutte le carte insieme e ne inizia ad eliminare alcune, finché arriva con una probabilità molto alta a sapere dove era l’asso di coppe».

«L’altra analogia che si fa sempre è quella del labirinto. Hai un labirinto e una pallina che deve uscire dal labirinto. Il computer classico prende questa pallina e prova tutte le possibilità, una ad una, finché non trova l’uscita. Il computer quantistico te lo immagini come una manciata di mille palline che lanci in questo labirinto dall’alto e alla fine, visto che hai provato molti percorsi tutti insieme, con molta probabilità ci sarà una pallina che arriva subito all’uscita».

Nell’economia dei big data, dal clima alla medicina, queste macchine diventeranno fondamentali. È così?

«Esattamente. Ma il computer quantistico non sostituirà mai il computer classico. Non sarà uno smartphone che hai in tasca. Almeno noi non pensiamo che sia così, poi, in realtà, nessuno sa cosa accadrà. Ad esempio, qua a Delft stiamo lavorando, non io personalmente, ma nel nostro centro di ricerca, al quantum internet cioè a reti internet che diventano sicure perché sfruttano principi quantistici. Perché non dimentichiamolo, dal momento che hai la potenza di calcolo hai anche la potenza per rompere dei codici di sicurezza».

Ti occupi solo degli aspetti tecnologici?

«Io sono anche molto attivo al di là della ricerca nella parte più di management e di policy. Rappresento l’Olanda, ad esempio, in un gruppo europeo per le tecnologie quantistiche. Ci sono tantissime cose che stanno succedendo anche a livello di fondi».

Ecco questo apre tutta un’altra storia sulla quale ti faccio subito una domanda l’Italia a che punto è tu che la guardi da fuori?

«Ho letto che verranno stanziati dei fondi con il PNRR e alcuni di questi saranno dedicato alle tecnologie quantistiche. L’aspetto importante è che i finanziamenti saranno efficaci se puntano a creare centri di eccellenza e massa critica. Ci sono dei paesi come l’Olanda, dove sono io, ma anche la Francia, la Germania, Stati Uniti, Cina, che stanno veramente investendo per creare ecosistemi, massa critica, intorno alle tecnologie quantistiche. Vista l’eccellenza scientifica presente in Italia, mi auguro che ci si pongano obiettivi simili».

Cioè si crea un ecosistema su cui poi nascono startup, applicazioni, industrie, chip?

«Sì, assolutamente, questo è il goal del nostro istituto qui a Delft. Intorno a noi stanno spuntando startup fuori dai nostri gruppi di ricerca e poi fondi chiamano fondi. Ad esempio, in Olanda hanno appeno stanziato 615 milioni di euro solo per le tecnologie quantistiche. Un paese come l’Olanda che ha meno di 18 milioni di abitanti, ha investito una quantità di denari importante. Anche la Francia si sta muovendo in maniera veramente massiccia».

Su questo piano c’è tutto un discorso di sicurezza infrastrutturale, sistemi tecnologici e militari?

«Esatto. Qui c’è un discorso molto interessante, se uno vuole proiettare nel futuro. Quale sarà il futuro di questa tecnologia? Dipenderà molto sia dagli sviluppi scientifici e tecnologici, ma anche dal punto di vista geopolitico quanto i vari stati si chiuderanno in un atteggiamento protezionistico. Io personalmente mi auguro che, soprattutto, avanzino sempre la libera circolazione delle idee e delle persone, che sono fondamentali per lo sviluppo della scienza».

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