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Non chiamatela alluvione | L’analisi di Giuseppe Caporale

No, non chiamatela alluvione. Non è stato un semplice episodio di maltempo. E’ stato un uragano. 

Dobbiamo imparare a scegliere parole nuove per spiegare davvero quello che è accaduto in Emilia Romagna negli ultimi due giorni.

Perché siamo davanti ad un evento destinato a segnare un punto di svolta nel rapporto tra il nostro Paese, l’area del Mediterraneo e i cambiamenti climatici in atto. 

A Fano, una delle zone colpite, tanto per fare un esempio concreto, sono caduti circa 72 millimetri di pioggia, corrispondenti a 720mila litri d’acqua per ettaro di terra.

E il dato complessivo sull’Emilia Romagna è anche peggio: sono caduti 200 millimetri di piogge in 36 ore che sommate a quelle già cadute una settimana prima (sempre in appena due giorni), si raggiunge la cifra record di 500 millimetri di pioggia. 

Una quantità che non può non mettere in crisi il sistema idraulico, non può non devastare l’assetto urbanistico di un centro abitato. E persino le campagne, perché la lunga siccità invece di aumentare la capacità di assorbimento del terreno lo rende quasi cementificato. E quindi l’acqua scorre con velocità devastando tutto quello che incontra.

Provocando 13 morti, 50 esondazioni, 280 frane.

Allagando 400 strade e travolgendo quasi 50 comuni. 

15 centri nel bolognese: Bologna, Budrio, Molinella, Medicina, Castel San Pietro, Imola, Mordano, Castel Guelfo, Castel del Rio, Fontanelice, Castenaso, Ozzano dell’Emilia, Pianoro, San Lazzaro di Savena, Sala bolognese.

13 nel ravennate: Brisighella, Conselice, Lugo, Massalombarda, Sant’Agata sul Santerno, Cotignola, Solarolo, Faenza, Castel Bolognese, Riolo Terme, Bagnacavallo, Russi, Cervia.

11 nel forlivese-cesenate: Forlì, Cesena, Cesenatico, Gatteo Mare, Gambettola, Savignano sul Rubicone, Mercato Saraceno, Castrocaro Terme e Terra del Sole, Gambettola, Meldola, Bertinoro.

2 nel riminese: Riccione e Santarcangelo di Romagna. 

E il paradosso è che la macchina dell’emergenza – pur nella tragedia – ha funzionato, era organizzata.

Attendeva l’evento.

Quindi le vittime potevano essere molte di più.

Ecco perché il ciclone Minerva – come lo chiamano gli esperti – non possiamo definirlo con le categorie con cui fino ad oggi abbiamo raccontato questi fenomeni.

La causa di questo evento estremo va ricercato in un ciclone imprigionato: “si è creata una situazione di stallo”, osserva la climatologa Marina Baldi, “poiché ci sono due aree di forte pressione su Nord Atlantico ed Europa Orientale, che tengono il ciclone bloccato sopra il Centro Italia”. 

La ricercatrice aggiunge che si tratta di un fenomeno molto insolito: “La sua straordinaria intensità è dovuta al fatto che il ciclone sta risucchiando aria molto umida proveniente dalle zone tropicali”. 

Il ciclone, nato sulle coste del Nord Africa, ha risalito la nostra Penisola da Sud, iniziando dalla Sicilia e arrivando fino al Centro-Nord.

Qui, l’aria ricca di umidità si è scontrata con gli Appennini, scaricando ingenti quantità di pioggia in modo costante nelle stesse zone. Questa situazione è stata ulteriormente aggravata dal fatto che il ciclone si è praticamente fermato sopra l’Emilia-Romagna, e che i forti venti sulla costa con mare molto agitato hanno ostacolato lo scorrimento delle acque dall’Appennino verso l’Adriatico. 

Purtroppo, le zone colpite sono caratterizzate da un’elevata predisposizione al dissesto idrogeologico ed essendo già sottoposte a forte stress hanno favorito frane diffuse.

Secondo un’altra esperta Paola Salvati, ricercatrice dell’Istituto per la Protezione Idrogeologica del Consiglio Nazionale delle Ricerche, stiamo andando verso una convivenza con eventi estremi legati all’acqua: da un lato le siccità prolungate e dall’altro le alluvioni. 

“Dobbiamo farci trovare pronti – dice – occorre una maggiore consapevolezza dei rischi fin dalla scuola, un po’ come si fa per il rischio terremoti. Ad esempio quando si acquista una casa nessuno si informa mai sulla pericolosità della zona dal punto di vista idrogeologico, nessuno pone questo tipo di domande, ma la conoscenza è essenziale. Molto spesso i dati sulle vittime raccontano che la persona è stata colta di sorpresa, non aveva compreso la gravità del rischio”.

Cultura del rischio, prevenzione.

Le stesse parole che utilizza il ministro alla protezione civile Nello Musumeci.

Nessuno in Italia potrà più chiedersi se accadra dalle mie parti, deve chiedersi quando accadrà. Perché quello che è accaduto in Emilia Romagna, a Ischia, nelle Marche o in altre parti di Italia, può accadere dal Trentino alla Sicilia. Dobbiamo abituarci a convivere con il cambiamento climatico tra lunghi periodi di siccità e periodi brevissimi periodi di pioggia”.

“L’Italia – continua il ministro – è una nazione che ha una scarsa propensione alla prevenzione. In questo caso alla prevenzione strutturale. La politica di tutte le formule, pensa sempre che ricostruire possa potare più consenso, invece di intervenire prima ancora che si determini l’evento calamitoso”. 

“E’ un concetto sbagliato ma che viene seguito ormai a partire dall’immediato dopoguerra. Quando io parlo di prevenzione è come se parlassi una lingua sconosciuta. Dobbiamo convincerci – spiega Musumeci – che bisogna prevenire con un piano serio e concreto, individuando quali sono le infrastrutture più deboli, quali sono le priorità, quali sono i tempi per raggiungerli, quali sono le risorse necessarie. E stavolta c’è la volontà del governo di cui mi onoro di fare parte. Se non partiamo da qui noi continueremo negli anni a piangere i morti e a contare i danni. Oltre 140 miliardi abbiamo speso dal 1968, cioè dal terremoto del Belice, e abbiamo pianto oltre 5000 vittime”.

Quindi in sostanza se fino a ieri abbiamo immaginato una rete di distribuzione di acque piovane in un centro abitato capace di assorbire mille MILLIMETRI in dodici mesi, dobbiamo adesso strutturare un sistema di raccolta d’acqua che dovrà assorbire cinquecento MILLIMETRI in quarantotto ore

“Ci vuole un approccio ingegneristico diverso, nulla sarà più come prima, il processo di tropicalizzazione ha raggiunto anche l’Italia”, spiega Musumeci “per il quale adesso serve un approccio nuovo al sistema idraulico su tutto il territorio”. 

“Sulle precipitazioni bisognerà consentire all’acqua piovana di arrivare al mare il prima possibile, quindi l’intervento andrà fatto sul reticolo fiumario primario e secondario: ci sono fiumi e torrenti asciutti che potrebbero tornare ad accogliere l’acqua”. 

“Inoltre serviranno decine di nuove dighe regionali: sono quarant’anni che non si fanno”.

“Bisogna poi riqualificare le reti di distribuzione urbane per evitare perdite (in alcuni casi sono anche del 50%) affinché non ci siano più sprechi. E dire basta all’utilizzo di acqua potabile per l’agricoltura, perché in questi casi va bene anche quella depurata”, conclude il ministro.

Purtroppo questo è un altro terremoto, non ho imbarazzo a usare queste parole. Siamo di fronte a eventi imprevedibili” commenta amaramente il presidente della Regione Emilia Romagna, Stefano Bonaccini.

“Tra pochi giorni sarà l’anniversario dalla prima scossa di quel terribile terremoto di undici anni fa e avremmo ricordato i numeri che vedono quasi tutto ormai ricostruito nonostante quel disastro che fu.

E’ durissima, il pensiero va ai familiari delle vittime che purtroppo ci sono state. E’ l’unica cosa irreparabile perché tutto il resto lo ricostruiremo come facemmo dopo il sisma. L’Emilia-Romagna è fatta così, con la sua gente”.

Non c’è altro tempo da perdere.

Molte altre zone del Paese sono potenzialmente esposte a fenomeni del genere. 

E le conseguenze potrebbero essere ancora peggiori.

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