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Maurizio Ferrera (Corriere della Sera): «La ripartenza sarà selettiva, non tutte le attività saranno in grado di riprendersi»

“L’esigenza di sostenere il reddito dei lavoratori alleviando gli oneri delle imprese è comprensibile: la recessione non è certo finita. Ma puntare tutto sui sussidi è miope”. Lo scrive Maurizio Ferrera, professore di Scienza Politica presso l’Università degli Studi di Milano, in un editoriale sul Corriere della Sera.

“Per quanto doloroso, occorre prendere atto che la crisi provocata dalla pandemia non ci consentirà di tornare «come prima». La ripartenza sarà selettiva, non tutte le attività saranno in grado di riprendersi. La struttura produttiva italiana — come quelle degli altri Paesi — dovrà attraversare un lungo periodo di ristrutturazione. Gli ammortizzatori sociali andrebbero perciò usati per accompagnare il cambiamento, non per congelare lo status quo. Teniamo presente che in Europa nessun Paese (tranne la Slovacchia, per un breve periodo) ha introdotto il divieto di licenziare. Questa non è peraltro l’unica eccezione italiana. Ce n’è un’altra, forse più seria: l’incapacità della nostra economia di creare lavoro. L’Italia è entrata nell’emergenza Covid avendo già tassi di partecipazione lavorativa particolarmente bassi. Oltre a molti disoccupati e (negli ultimi mesi moltissimi) cassintegrati, il nostro Paese ha sempre avuto un numero molto elevato di persone inattive, seppure disponibili al lavoro: in media più di tre milioni nell’ultimo decennio. In Francia sono 750 mila, in Germania 470 mila, in tutta la Ue 8,5 milioni. Nell’immaginario collettivo, i posti di lavoro sono principalmente associati alle assunzioni da parte dell’industria. È una percezione falsa, la manifattura italiana offre molto più lavoro di quella francese, anche agli stessi giovani. L’atrofia riguarda il terziario. Senza un’azione mirata sui colli di bottiglia che riguardano questo settore (dove, per inciso, potrebbero trovare lavoro moltissime donne) il tasso di occupazione italiano continuerà a restare il più basso d’Europa. Il deficit strutturale di occupazione non è mai entrato seriamente nel dibattito pubblico e nell’agenda dei nostri governi. Finora il governo Conte non fa eccezione. Anzi, sembra orientato a confermare quella strategia che ha largamente contribuito al declino economico e sociale italiano: difendere ad oltranza il lavoro che c’è (anche quando diventa improduttivo), invece di promuovere quello che non c’è. Ma che, con incentivi mirati e nuove (meno) regole, potrebbe invece essere creato”.

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