L’ex presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi non ci pensa neanche ad arretrare davanti alle reazioni dei politici nordeuropei che hanno subito arricciato il naso, probabilmente senza nemmeno leggerlo, davanti al suo rapporto sul futuro della competitività dell’Ue e rincara la dose.
Dialogando a Bruxelles con il presidente del think tank Bruegel, Jeromin Zettelmeyer, l’ex premier spiega che la stima di 750-800 mld di euro aggiuntivi all’anno, gli investimenti necessari all’Ue per non perdere definitivamente la corsa con Usa e Cina, non è affatto sua, bensì, come scritto chiaramente nel rapporto, della Commissione Europea e della Bce, ed è una ”stima conservativa”.
In altre parole, probabilmente i soldi da trovare saranno di più.
E sottolinea che il ”common safe asset”, uno degli aspetti del rapporto sui quali ”più si è concentrata l’attenzione”, non è ”un ingrediente essenziale”, anche se ovviamente faciliterebbe molto le cose, a partire dall’Unione dei mercati dei capitali, difficile da portare a termine quando l’unico safe asset europeo è il Bund tedesco.
La cosa principale, rimarca, è fare le ”riforme” necessarie ad ”aumentare la produttività”.
Anche con un ”piccolo aumento della produttività”, l’ammontare totale degli investimenti previsti dal rapporto ”è realistico”, come attesta anche il Fondo Monetario Internazionale, quindi ”questa specie di difficilissimo dramma politico percepito”, come finanziare quegli investimenti, ”in realtà assume una dimensione più realistica”.
E sottolinea: ”C’è un punto che voglio rimarcare: avremo bisogno di soldi pubblici in ogni caso”, perché serviranno a finanziare ”gli investimenti nei beni pubblici” e ”sappiamo bene che il settore privato tende a sottofinanziare questi investimenti, per una varietà di ragioni”, non ultimo il fatto che hanno ”molti spillover, che è quello che noi vogliamo, ma che non è quello che il settore privato necessariamente vuole”.
E dunque, serviranno fondi pubblici per ”investimenti in reti energetiche, digitali, in conoscenza, per il clima, la connettività”.
Non saranno necessariamente ”solo pubblici”, perché ci saranno anche capitali ”privati”, che però verranno investiti ”solo se accompagnati dal settore pubblico”.
E dunque, spiega Draghi, questo è il motivo per cui la divisione prevista per gli investimenti nel rapporto è 50% privati e 50% pubblici, mentre la ripartizione solita è 80% e 20%, rispettivamente.
Per finanziare le infrastrutture e i progetti necessari non si può usare il bilancio Ue, perché ”è troppo piccolo”.
Gli Stati nazionali in molti casi ”non hanno la capacità di bilancio” per sostenere investimenti di questa grandezza.
E su questo punto bisogna stare molto attenti, avverte, perché ”la sostenibilità fiscale non è un bene comune: si trasforma molto facilmente in un danno comune”, se viene meno e i mercati si innervosiscono.
I progetti nell’interesse comune Ue, continua, potrebbero essere finanziati attraverso emissioni obbligazionarie comuni.
”Molte delle cose che suggeriamo nel rapporto – aggiunge Draghi – richiedono di cambiare il modo in cui facciamo le cose”.
Per esempio, servirebbe ”un accordo su dove vogliamo andare”.
Per questo serve una ”strategia industriale europea”, perché l’alternativa non è ”non avere alcuna strategia”, bensì, come accade oggi, avere 27 ”strategie nazionali” diverse, ”scoordinate”, con risultati inevitabilmente ”scadenti”.
Aiuterebbe anche avere un processo decisionale ”meno ingarbugliato” di quello attuale, dato che a livello Ue ”ci vogliono 19 mesi per attuare un progetto”. Quindi ”servirebbe un cambio di mentalità”.
Se ”concordiamo sulla direzione” e sul fatto che ”siamo nel mezzo di una transizione tecnologica”, per la quale ”dobbiamo investire molto”, se investiamo per unire davvero ”il mercato unico”, allora ”penso che la finanza arriverà”, dice Draghi.
L’ex presidente della Bce ha anche placato le preoccupazioni, sempre presenti nei nordici, che una simile quantità di investimenti possa far ripartire l’inflazione e quindi costringere l’Eurotower a rialzare i tassi.
Per Draghi, l’impatto inflazionistico di un simile programma di investimenti sarebbe decisamente ”gestibile”.
Draghi sottolinea che la via da lui indicata non è quella dell’Inflation Reduction Act, che premia il ‘made in Usa’, perché l’Ue è ”diversa dagli Stati Uniti”, è un’economia molto più ”aperta” e dipende in misura maggiore dal commercio estero rispetto a Usa e Cina.
In breve, l’Ue non potrebbe ”erigere un muro protezionistico”, neppure ”se lo volesse”, perché ”ci danneggeremo da soli”.
I suggerimenti nel rapporto sono ”molto cauti, settore per settore” e puntano semplicemente a ristabilire il ”level playing field”, la parità di condizioni per competere.
Ma visto che la concorrenza all’estero è fatta anche di ”sussidi”, l’Ue dovrebbe battersi per ”riformare le regole della Wto”.
Ma, sottolinea, ”dobbiamo anche sapere che le regole della Wto erano figlie di un tempo in cui c’era armonia geopolitica”.
Sul libero commercio ”erano tutti d’accordo”, aggiunge, ”sebbene – rimarca – la prima violazione delle regole della Wto venga individuato in un rapporto dell’Organizzazione del 2003, ed è del governo cinese.
Era una grande violazione”, ma ”nessuno ha fatto né detto nulla.
Perché? Perché si facevano buoni affari e la configurazione geopolitica lo permetteva”. Ma ora ”le cose sono cambiate”.
Tuttavia, essendo un’economia aperta, in Europa siamo ”vulnerabili” alle ”rappresaglie”, e per questo ”dobbiamo essere cauti nelle nostre proposte”.
Pertanto, le proposte contenute nel rapporto sono ”largamente in linea con le regole della Wto”, anche se ”alcune potrebbero richiedere dei negoziati”.
Tuttavia, osserva, ”sull’Ira” americano e sulle decisioni del governo cinese ”non c’è stato alcun negoziato, nulla”.
Quindi, l’Ue dovrebbe chiedere una revisione delle regole dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, ma per poter ”essere presi sul serio”, è meglio ”essere forti” al tavolo. E ”la prima linea di difesa è crescere. Niente sussidi, niente dazi: ristrutturare e innovare”.
Anche se in generale è meglio evitare i ”sussidi”, questo non vale per le tecnologie verdi, che vanno sussidiate sia perché non c’è ”level playing field” con la Cina, sia per ”ragioni strategiche”, dato che l’Ue è ”dipendente” da Pechino anche per determinate ”materie prime”.
Pertanto, occorre evitare la prospettiva di ritrovarsi a dipendere da un Paese che potrebbe diventare un ”nemico”, come è successo con la Russia.
Il ”sostegno” andrebbe dato alla ”decarbonizzazione”, con chiare ”condizioni”.
E qui spiega che la ”rilocalizzazione” di certe produzioni ”all’interno dell’Ue” secondo lui non andrebbe ”ostacolata”, ma accompagnata utilizzando i ”sistemi di welfare”, in cui siamo ”più forti” rispetto agli Usa, per formare la forza lavoro che perderà il posto nel processo.
Secondo Draghi in Europa ”non c’è il pericolo che abbandoniamo le persone come è successo in parti degli Usa durante gli anni Novanta”, con la deindustrializzazione e la trasformazione della Steel Belt nella Rust Belt.
Draghi ha anche confermato, nella sostanza, le critiche rivolte alla politica di concorrenza dell’Ue, i cui limiti sono evidentissimi negli effetti sul settore delle tlc, dove la concorrenza ha eroso talmente i margini che gli investimenti sulle reti languono.
L’ex presidente della Bce non aspira certo ad avere 27 monopolisti nazionali, bensì ”un certo numero di operatori paneuropei che competano ferocemente nei mercati nazionali”.
L’Europa, nota, ”soffre di un gap infrastrutturale e di investimenti” rispetto agli Usa.
Il fatto è che l’Europa ha qualcosa come ”35” grandi operatori, senza contare quelli ”marginali”, mentre gli Usa ne hanno 4 e la Cina 5.
”Non è questo un motivo dei minori investimenti?
Sì, certo.
Il Capex (il capitale investito, ndr) è inferiore” in Europa rispetto agli Usa.
E si tratta di infrastrutture cruciali, specie ora che è necessario competere nell’Ia, allenando grandi modelli linguistici.
”E’ per questo che siamo preoccupati”, spiega.
Nel settore delle tlc in Europa, ”i ritorni attesi sul capitale investito” nelle infrastrutture relative ”sono inferiori al costo del capitale”, il che vuol dire che ”oggi non c’è incentivo ad investire”, perché non rende abbastanza.
E negli ultimi anni ”sono entrati nel mercato una moltitudine di operatori che non hanno né l’interesse né i soldi per investire” nelle necessarie infrastrutture.
”Perché siamo in questa situazione?
Per la grande frammentazione delle aste per le frequenze, lo sviluppo scoordinato delle frequenze e la regolamentazione nazionale, molto frammentata.
Ma anche una politica delle fusioni che permette la creazione di operatori marginali”.
Per il futuro, ”dobbiamo preservare la concorrenza, ma non dobbiamo ostacolare la dimensione”.
Draghi ne ha per tutti: l’Unione dei mercati dei capitali è indispensabile anche perché, nota, ”le banche sono brave in molte cose”, ma certamente ”non a finanziare l’innovazione”.
L’urgenza dei cambiamenti invocati nel rapporto, nota Draghi, è attutita dal fatto che la popolazione europea è ”in declino”, per cui il Pil pro capite ”non cala quanto dovrebbe”, vista la produttività in diminuzione.
Ma così l’Ue si rassegna alla ”lenta agonia” di cui ha parlato due settimane fa.
In poche parole, Draghi esorta nel suo rapporto l’Unione a prendere il proprio destino in mano e a superare la sua più grande debolezza: la frammentazione.
Anche perché, nota, investire in Europa ”non è poi così male”.
E conclude: nell’Ue “tutti i Paesi” membri “sono troppo piccoli per affrontare la dimensione, la scala delle sfide che ci troviamo davanti.
Il concetto di sovranità sotteso da questo rapporto è una sovranità europea, non la sovranità nazionale.
Tutto quello che vediamo oggi dimostra che la sovranità nazionale è troppo debole”.
Draghi discuterà la sua ‘ricetta’ con i leader nel Consiglio Europeo informale dell’8 novembre, che dovrebbe tenersi a Budapest.
Si vedrà in quell’occasione se i capi di Stato e di governo dell’Ue sono pronti a seguirla, oppure se preferiranno continuare così, rassegnati ad aspettare che il divario rispetto a Cina e Usa diventi incolmabile.