Luca Scuccimarra, preside della facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Roma La Sapienza, ha rilasciato alcune dichiarazioni in esclusiva all’Osservatorio Economico e Sociale Riparte l’Italia in occasione del webinar online, dal titolo “Transizione energetica: il futuro che vivremo”. L’evento, moderato da Stefano Laporta, presidente dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA), ha visto tra gli ospiti anche Carlo Tamburi, direttore e presidente Enel Italia, Vannia Gava, sottosegretaria alla Transizione Ecologica e Cosma Panzacchi, vicepresidente Snam.
“Nel corso degli ultimi mesi in Italia il dibattito sulla transizione energetica è stato incentrato meramente su questioni tecniche o di governance delle transizioni e ha tralasciato un po’ sullo sfondo l’impatto e le relazioni che legano queste linee di intervento alla vita dei cittadini e anche alla loro possibilità di azione. Qualche tempo fa ho letto un articolo che riassumeva le sfide del momento della transizione ecologica, individuando i principali obiettivi che stiamo perseguendo, al termine del quale in una riga si diceva che è un cambiamento che, anche se è supportato da idonei strumenti di policy, deve cominciare da ciascuno di noi.
Questo è il punto che è rimasto un po’ sfocato nel dibattito di questi mesi, cioè che cosa significa che il cambiamento deve cominciare da ciascuno di noi, qual è l’impatto che le sfide del momento producono sulla vita quotidiana di ciascuno di noi. Anche se sono centrali le questioni tecnologiche e economiche al centro del dibattito, occorre sforzarsi per ampliare un po’ la prospettiva. Qualcuno a questo proposito ha proposto di utilizzare quella che è stata chiamata una human perspective, una prospettiva umana sulla transizione ecologica, e cioè una prospettiva che provi a collegare gli aspetti normativi, tecnologici, psicologici e sociali della transizione ecologica e della transizione energetica per costruire un quadro più completo di quelle che sono le dinamiche che ci aspettano nei prossimi anni.
Questo è importante anche per capire di cosa parliamo quando parliamo di transizione, perché transizione è una categoria temporale che implica quindi un implicito riferimento a un punto di partenza e a un punto di arrivo. E’ vero che noi ci diamo delle scadenze politico-amministrative addirittura di breve periodo, ma l’effettiva durata di questo periodo di transizione di cui parliamo dipenderà anzitutto da qual è il punto di arrivo, cos’è che vogliamo raggiungere, a quale livello di riconversione e di trasformazione ecosostenibile ci promettiamo di arrivare. E poi dal contributo che tutti i diversi attori che sono coinvolti a vario titolo in questi processi daranno a questo percorso.
Tra questi attori ci sono i cittadini, anche se poco considerati, c’è la cosiddetta società civile, che è una categoria ancora molto utilizzata nel dibattito. Se noi leggiamo i contributi che sono venuti negli ultimi mesi dai colleghi sociologi ci rendiamo conto perfettamente che la società civile in questa partita può essere un motore ma può anche essere un freno, a seconda del modo con cui saranno coinvolti i cittadini in questo tipo di politiche.
Questo è il motivo per il quale la sociologia e anche la psicologia sociale sono tornate ad occuparsi con una certa intensità di queste questioni provando a immaginare quali cambiamenti le sfide che sono in questo momento davanti a noi produrranno nella vita quotidiano delle persone. Le categorie con cui questo è stato fatto ovviamente variano a seconda del punto di vista scelto. Il concetto “stile di vita” è un concetto molto utilizzato, oggi viene spesso collegato all’analisi della cosiddetta propensione alla sostenibilità, e cioè una categoria che serve per capire quanto noi siamo disponibili a cambiare delle nostre abitudini consolidate per poter raggiungere degli obiettivi di ecosostenibilità. Con un elemento di difficoltà particolare in questo caso perché i temi legati alla sostenibilità ambientale sono temi che per principio sono trans-frontalieri, e cioè eccedono quello che è l’ambito ristretto di esperienza di ciascuno di noi.
Per cui la domanda diventa ancora più impegnativa: fino a che punto noi siamo disposti a modificare le nostre abitudini e i nostri stili di vita per poter porre rimedio a processi e a fenomeni che producono i loro effetti distruttivi non direttamente su di noi. Ed è un collegamento questo che chiama in causa una parola chiave come la responsabilità e quali sono le categorie spazio-temporale su cui noi costruiamo la nostra personale interpretazione della responsabilità.
Per capire di cosa stiamo parlando io faccio un esempio che spesso cito ai miei studenti: quando chiesero a George Bush per quale motivo gli Stati Uniti non ratificassero il protocollo di Kyoto lui rispose che lo stile di vita degli americani non era negoziabile. Ecco, questo è il problema che ci troviamo di fronte. Dobbiamo capire fino a che punto siamo disposti a considerare negoziabili in una prospettiva di ecosostenibilità quelle che sono nostre abitudini consolidate.
E’ evidente che qui entra in gioco anche il ruolo degli attori pubblici, perché giocano un ruolo fondamentale nel riorientare in maniera più o meno evidente, più o meno pervasiva quelle che sono queste abitudini. Gli studiosi di policy ambientali oggi ovviamente scrivono ponderosi saggi sui numerosi strumenti che sono a disposizione dei decisori pubblici per provare a raggiungere questo obiettivo, che vanno da strumenti informativi a strumenti di trasformazione strutturale e anche strumenti proattivi, oggi si parla molto del nudge, la spintarella gentile, e cioè degli strumenti leggeri che in maniera potenzialmente poco evidente sono in grado di spostare quelle che sono le direttrici di azione dei cittadini.
C’è un elemento che però rimane fuori da tutto questo che è proprio la partecipazione dei cittadini. In questo tipo di prospettive i cittadini restano una sorta di oggetto passivo di politiche pubbliche e non ne viene mai presa in considerazione appunto la agency, come un tempo si diceva, e cioè il loro potere effettivo decisionale, la loro capacità di coinvolgimento in partite di questo tipo. Questo è il motivo per il quale qualcuno ha appunto proposto un ulteriore passo avanti nel tipo di approccio, che colleghi la questione tecnica-normativa ed economica della transizione ad una serie di questioni chiave che riguardano la nostra forma politica, e cioè questioni relative al tipo di democrazia, di cittadinanza, alla resistenza e alla capacità di azione dei singoli e soprattutto alla costellazione dei valori che i cittadini hanno oggi alla base della loro esperienza.
Di tutto questo si parla nel dibattito degli ultimi mesi e la sfida in questo momento è quella di cercare di trasformare delle linee di problematizzazione di questa questione centrale del nostro presente in concrete politiche che aiutino a trasformare anche il complessivo ambiente in cui si collocano queste stesse linee di azione.
Concludo citando una proposta che è venuta recentemente da Philippe Pochet che è il direttore generale della organizzazione europea dei sindacati che ha proposto la stipula di quello che lui chiama un contratto socio-ecologico, che sancisca in qualche modo tra i diversi attori coinvolti in questa partita un patto con degli obiettivi condivisi. Philippe Pochet dice che per costruire un contratto di questo tipo che è un equivalente aggiornato del vecchio contratto sociale da cui partivano i giusnaturalisti nella prima età moderna, occorre far riferimento a quattro livelli diversi nei problemi: le idee, gli interessi, le istituzioni e gli indicatori. Sono quattro diversi livelli che hanno eguale importanza per la costruzione appunto di un modello di transizione ecologica che sia giusto ma anche partecipato.
E Philippe Pochet in particolare ha insistito sul fatto che noi oggi ci troviamo di fronte tre diverse narrazioni della transizione, una prima narrazione che è quella che prende in considerazione soltanto il problema del momento, cioè quello dei mutamenti climatici, e che quindi apre spazio a una serie di strumenti, di linee di intervento che è finalizzato alla soluzione o al tamponamento di questo specifico problema. Una seconda narrazione che allarga in chiave ecologica questa prospettiva tirando dentro anche la questione della distruzione della biodiversità e della progressiva riduzione delle risorse naturali.
E infine una terza possibile narrazione che è quella che lui mette al centro della sua proposta che dovrebbe interrogarsi sul rapporto che c’è oggi tra la specie umana e il mondo, quindi ritornare a riprendere alla radice quella grande riflessione sulla nostra visione del mondo che guarda caso è sempre stata al centro della grande tradizione novecentesca del pensiero ecologico.
Secondo me, quindi, sono due gli strumenti su cui si punta maggiormente, come emerge dal dibattito di questi ultimi mesi. Il primo è la capacità di far comprendere in maniera rapida e immediata ai cittadini il peso che le loro banali scelte quotidiane possono avere in queste partite epocali. Qualche giorno fa guardando il sito del Wuppertal Institut tedesco che è sempre molto interessante ho notato che in una pagina loro hanno inserito quello che chiamano lo zainetto ecologico, che è un piccolo calcolatore che fa capire al singolo cittadino che abbia curiosità per questo quanto pesa la sua impronta ecologica. Cioè i suoi comportamenti quotidiani che peso hanno nella complessiva impronta ecologica della cittadinanza terrestre, che come sappiamo per poter essere smaltita in maniera efficace richiederebbe di poter disporre tra 2 e 4 pianeti come la terra, secondo i calcoli che sono stati fatti.
Per il secondo elemento continuo ad essere convinto che una gestione partecipativa di determinate procedure possa essere una risposta, purché presa sul serio, nel senso che da molti anni si discute del coinvolgimento della cittadinanza nelle procedure di programmazione degli interventi e di gestione degli interventi, e non soltanto di discussioni a posteriori di scelte già prese. In Italia si sono fatte in anni non recentissimi alcuni tentativi, Luigi Bobbio, in particolare, si è servito appunto di questi strumenti che lui chiamava di politica deliberativa anche per aiutare per esempio la Provincia di Torino a gestire il problema delle discariche. Negli Stati Uniti e in Germania ci sono esempi molto riusciti. Io credo che sia essenziale far sentire i normali cittadini parte di questa azione, e non semplicemente oggetti di politiche di azione decise da altri o semplici destinatari dei risultati di scelte prese da altri”.