L’alta marea della globalizzazione è pronta a ritirarsi, lasciando sulla battigia della Storia i relitti di una economia che ha sconvolto gli assetti industriali e sociali della maggior parte delle nazioni del pianeta. Il commercio libero e la costruzione di filiere produttive planetarie segnano il passo di fronte all’archè della guerra che dagli albori della storia accompagna la nostra presenza nel mondo.
Caduto il muro di Berlino l’Occidente ha creduto che non ci fossero più nemici ostili che fossero pronti a combattere la nostra visione dell’evoluzione della convivenza. Che tutti i popoli fossero disposti ad accettare la nostra presenza, la nostra civilizzazione, il nostro portato di valori basato sull’esigenza vitale per le nostre economie di scambiare merci e servizi nel modo più libero possibile.
L’imprenditore, il politico, il turista, il cittadino occidentale ha creduto in questi anni quando scendeva da un aereo per entrare in uno stato non occidentale, asiatico o africano che fosse, di essere sì straniero, ma comunque ben accolto grazie alla forza della sua valuta pregiata, delle sue merci, delle sue tecnologie avanzate, soprattutto militari, dei suoi valori democratici, progressisti, della sua volontà di rendere sempre più piccolo e uguale il mondo.
Di essere in sostanza un hospes, un ospite ben gradito da rispettare e accogliere. La cronaca di questi anni a cavallo dei due secoli ci ha dimostrato che per molte nazioni, per diversi popoli e per alcuni uomini di potere gli occidentali nonostante gli scambi commerciali, nonostante il beneficio che ha prodotto la globalizzazione nelle parti più povere del pianeta come sottolinea Alec Ross nei suoi libri, sono e restano un hostis, un nemico da combattere e annientare.
Fin quando questa posizione è rimasta nel perimetro di un equilibrio asimmetrico a nostro vantaggio non si è creduto necessario riconsiderare l’idea della globalizzazione. Abbiamo accettato di buon grado anche la crisi occupazionale della nostra classe media, la perdita di posti di lavoro in cambio di merce a basso costo prodotta nel “lontano est” senza tutele sindacali, ignorando in alcuni casi sia i diritti umani dei lavoratori, anche bambini, sia le esigenze dell’ambiente. Di fatto divenendo dipendenti di un sistema di produzione delle merci che accompagnano le nostre vite quotidiane impiantato in Stati autoritari e antidemocratici.
Dopo l’evento della pandemia questa certezza ha iniziato a vacillare. Ora con l’invasione dell’Ucraina e le conseguenti sanzioni economiche alla Russia, le domande che le élite occidentali si pongono è se abbia ancora senza insistere su un’economia globalizzata integrale. O se forse è venuto il momento non solo di ritirare le insegne delle multinazionali lungo le strade di Mosca, ma di dismettere anche gli stabilimenti produttivi sparsi in tutto l’est asiatico. Se non sia giunto, in sostanza, il momento di riconsiderare l’opportunità di avere filiere produttive continentali, solo all’interno di contesti geopolitici omogenei. In definitiva se non sia il caso di relazionarsi economicamente e commercialmente solo con gli amici.
Al vertice G20 di aprile, dove gli alleati occidentali hanno mandato deserto l’intervento russo, la segretaria al Tesoro degli Stati Uniti, Janet Yellen ha lanciato una nuova dottrina: “friend-shoring”. Un’economia che non può andare più oltre mare. Ma solo verso gli amici. Visto che nel 1999 a Seattle abbiamo scelto di non ascoltare le proteste di chi riteneva sbagliato che tutti potessero entrare nel WTO, Cina compresa, oggi dobbiamo valutare con attenzione cosa significhi essere per l’Occidente un Paese “amico”.
Un paese che condivide valori e visione o solo interessi? Lo resteranno le monarchie della penisola arabica? I disposti che si affacciano sul Mediterraneo? Gli Stati inglobati nelle istituzioni europee o della NATO guidati da leader che pubblicamente ritengono i valori delle democrazie liberali da abbattere? Business as usual, certo. Presto la marea della nuova globalizzazione si rialzerà nascondendo errori, abbagli, nefandezze di una economia che resta, purtroppo, sempre più forte della politica.