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[L’intervento] «La libertà di scambi economici internazionali vuol dire pace». La lezione di Einaudi nella relazione di Ignazio Visco, Governatore Banca d’Italia

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Riportiamo di seguito in maniera integrale le Considerazioni Finali del Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, nel giorno della presentazione della Relazione Annuale 2021.

Autorità, Signori Partecipanti, Signore, Signori,

l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia alla fine di febbraio segna una drammatica cesura nella storia recente. Ha innescato una grave crisi umanitaria e fatto riemergere tensioni tra le diverse aree del mondo che negli ultimi trent’anni sembravano essere state, se non del tutto superate, durevolmente ridotte. Il nostro primo pensiero è oggi rivolto alla popolazione ucraina, a chi ha perso la vita, alle persone costrette ad abbandonare le loro case, a coloro che hanno visto sconvolta la propria quotidianità.

La guerra ha anche peggiorato di colpo le prospettive di crescita dell’economia mondiale, in una fase in cui i danni inferti dalla pandemia non sono ancora del tutto riparati. L’incertezza è drasticamente aumentata a livello globale, investe i pilastri sui quali si basa l’assetto economico e finanziario internazionale emerso dalla fine della Guerra fredda: la convivenza pacifica tra le nazioni, l’integrazione dei mercati, la cooperazione multilaterale.

Congiuntura economica e impatto della guerra in Ucraina

Il progressivo inasprimento delle tensioni geopolitiche ha notevolmente acuito il rialzo dei corsi dell’energia connesso con la ripresa dell’attività economica dopo la crisi sanitaria. Ne hanno risentito soprattutto le quotazioni del gas in Europa, che dallo scorso settembre si sono portate in media a circa 90 euro per megawattora, con picchi attorno ai 200 euro, da poco più di 10 nei mesi precedenti la pandemia. L’aumento è stato molto più contenuto negli Stati Uniti, da quasi 10 a circa 20 dollari.

Sebbene la Russia pesi solo il 2 per cento nel commercio mondiale, essa è tra i principali esportatori di petrolio e di gas nonché di concimi e, assieme proprio all’Ucraina, di cereali. Secondo le quotazioni di mercato, i prezzi di questi prodotti resterebbero molto elevati nel 2022, diminuendo solo di poco nei prossimi due anni. I rincari dei beni agroalimentari e le difficoltà nel loro approvvigionamento rischiano di colpire soprattutto gli strati più vulnerabili della popolazione mondiale e i paesi più dipendenti dalle loro importazioni.

Il conflitto in Ucraina sta determinando un significativo rallentamento dell’economia mondiale; le recenti misure adottate in Cina per contrastare nuovi focolai epidemici aggravano questa tendenza, riacutizzando i problemi di rifornimento nelle catene globali del valore già osservati nel 2021. Il Fondo monetario internazionale stima un aumento del prodotto mondiale del 3,6 per cento per quest’anno, quasi un punto percentuale in meno della previsione di gennaio e inferiore di circa 1,5 punti a quella dello scorso ottobre.

L’inflazione, che in tutte le economie ha in larga parte riflesso i rialzi dei corsi delle materie prime, rimarrebbe elevata, per poi calare nel 2023. Questo scenario si basa su ipotesi relativamente favorevoli riguardo ai prezzi e alla disponibilità di beni energetici e alimentari, ipotesi che dipendono strettamente dagli sviluppi del conflitto in Ucraina e dalle conseguenti sanzioni nei confronti della Russia. Non è trascurabile il rischio che il rallentamento dell’attività, anche per l’evoluzione ancora incerta della pandemia, risulti più marcato.

Il quadro congiunturale si è deteriorato anche nell’area dell’euro, che è particolarmente esposta agli effetti economici del conflitto. Secondo le stime più recenti, quest’anno la crescita del prodotto dovrebbe risultare inferiore al 3 per cento, ben al di sotto di quanto previsto pochi mesi fa; un incremento già in larga parte acquisito grazie alla forte ripresa del 2021 e che implicherebbe quindi solo una modesta espansione dell’attività in corso d’anno. Il rischio di un andamento meno favorevole è significativo. Come per le altre economie che importano beni energetici, lo shock di offerta ha rilevanti ripercussioni anche sulla domanda: il peggioramento delle ragioni di scambio incide negativamente sulla disponibilità di risorse di famiglie e imprese, frenando consumi e investimenti.

All’indebolimento del quadro congiunturale contribuiscono inoltre il diffuso calo della fiducia e le fragilità nel commercio internazionale.

In aprile i prezzi al consumo hanno registrato un aumento del 7,4 per cento rispetto allo stesso mese dello scorso anno, sospinti dai rincari dell’energia e, in minor misura, dei prodotti alimentari (fig. 2). Al netto di queste componenti, l’inflazione è stata pari al 3,5 per cento, risentendo anch’essa della trasmissione dei maggiori costi dei prodotti energetici ai prezzi finali degli altri beni e dei servizi. Negli Stati Uniti, invece, l’inflazione di fondo, pari al 6,2 per cento, è di soli due punti percentuali inferiore a quella complessiva, riflesso soprattutto del surriscaldamento della domanda.

Secondo le ultime previsioni delle maggiori istituzioni internazionali e degli analisti privati, la crescita dei prezzi nell’area dell’euro si manterrà elevata quest’anno per poi flettere in modo deciso nel 2023 e tornare successivamente su valori coerenti con la definizione di stabilità monetaria della Banca centrale europea (BCE), che consiste in un’inflazione pari al 2 per cento nel medio termine. Le aspettative degli operatori di mercato, desumibili dalle quotazioni delle attività finanziarie indicizzate ai prezzi al consumo, sono coerenti con questo profilo.

L’incertezza delle previsioni è di gran lunga maggiore di un anno fa.

Nei mesi scorsi sono state sottostimate, anche nelle proiezioni delle banche centrali, l’entità e la persistenza degli aumenti dei prezzi. In presenza di un recupero della domanda globale più rapido delle attese, l’insorgere di difficoltà di approvvigionamento ha ovunque sospinto i prezzi dei prodotti intermedi. Ma nell’area dell’euro ha soprattutto contato l’eccezionale rincaro dei prodotti energetici avviatosi alla fine dell’estate in relazione alle tensioni geopolitiche. L’intensificarsi di queste ultime, culminate con l’attacco della Russia all’Ucraina, è la ragione principale della persistenza e della diffusione delle pressioni inflazionistiche che oggi osserviamo.

Il peggioramento delle ragioni di scambio e la perdita di potere d’acquisto tenderanno a contenere la domanda finale, attenuando la pressione sui prezzi.

Non va però trascurato il rischio di un aumento delle aspettative d’inflazione oltre l’obiettivo di medio termine e dell’avvio di una rincorsa tra prezzi e salari.

Al momento le aspettative non si discostano significativamente dal 2 per cento e, a differenza di quanto è avvenuto negli Stati Uniti, la dinamica delle retribuzioni dell’area è sinora rimasta moderata, anche se in alcuni paesi sono state avanzate richieste di recuperi retributivi di elevata entità. Se queste si risolvessero in aumenti una tantum delle retribuzioni, il rischio di un avvio di un circolo vizioso tra inflazione e crescita salariale sarebbe ridotto.

Il quadro congiunturale è quindi sostanzialmente mutato negli ultimi mesi. Scongiurato il rischio di deflazione, che aveva richiesto l’introduzione di misure di politica monetaria non convenzionali, e superato l’impatto della pandemia sulla domanda finale, non vi sono più preclusioni all’abbandono della politica di tassi ufficiali negativi. Il rialzo, che il Consiglio direttivo della BCE potrà decidere di avviare nell’estate, dovrà procedere tenendo conto della incerta evoluzione delle prospettive economiche. Le condizioni di finanziamento per le famiglie e le imprese, oggi eccezionalmente accomodanti, si manterranno favorevoli; secondo le attuali quotazioni di mercato, nell’area dell’euro in termini reali i tassi di interesse a breve termine resteranno negativi ancora per diversi anni.

Il Consiglio è pronto ad adeguare tutti gli strumenti per perseguire il proprio obiettivo d’inflazione di medio termine. Durante la crisi pandemica la flessibilità nel disegno e nella conduzione degli acquisti di titoli è stata cruciale per contrastare le tensioni sui mercati finanziari; essa rimane un elemento chiave della nostra strategia nel caso in cui malfunzionamenti nel meccanismo di trasmissione monetaria rischino di compromettere il perseguimento della stabilità dei prezzi. Per far fronte a esigenze in rapida evoluzione, particolare attenzione andrà dedicata ad assicurare che il processo di normalizzazione della politica monetaria avvenga in modo ordinato e a evitare che emergano fenomeni di frammentazione dei mercati non giustificati dai fondamentali economici.

L’azione dell’Eurosistema resta interconnessa con quella delle autorità di bilancio. L’aumento dei corsi delle materie prime non può essere contrastato direttamente dalla politica monetaria. Quello che la politica monetaria può fare è assicurare la stabilità dei prezzi nel medio termine, preservando l’ancoraggio delle aspettative d’inflazione e contrastando vane rincorse tra prezzi e salari. Interventi di bilancio di natura temporanea, e calibrati con attenzione all’equilibrio delle finanze pubbliche, possono contenere i rincari dei beni energetici e sostenere il reddito disponibile delle famiglie più colpite, riducendo in entrambi i casi le pressioni per incrementi di natura salariale.

Ciò consente una più graduale normalizzazione della politica monetaria, attenuando i rischi di un impatto recessivo sull’economia.

In Italia l’espansione del prodotto nel 2021, pari al 6,6 per cento, ha decisamente superato le attese, riflettendo soprattutto la forza degli investimenti e il recupero delle esportazioni. Sebbene il deficit energetico sia raddoppiato, il saldo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti è rimasto largamente positivo, contribuendo così a rafforzare la posizione creditoria verso l’estero. L’ampio differenziale tra la crescita nominale del PIL e l’onere medio del debito ha determinato risultati positivi per i conti pubblici; dopo il significativo incremento del 2020, il rapporto tra il debito e il prodotto è diminuito di oltre 4 punti percentuali, a meno del 151 per cento, mentre un anno fa, quando ci si attendeva un disavanzo ben più elevato, se ne prevedeva un aumento verso il 160 per cento.

L’economia italiana è, con quella tedesca, tra le più colpite dall’aumento del prezzo del gas, per la quota elevata di importazioni dalla Russia e per la rilevanza dell’industria manifatturiera, che ne fa ampio uso. In gennaio ci attendevamo che il prodotto tornasse sul livello precedente lo scoppio della pandemia intorno alla metà di quest’anno e prefiguravamo una solida espansione, superiore in media al 3 per cento, nel biennio 2022-23.

La guerra ha radicalmente accentuato l’incertezza su queste prospettive.

L’attività produttiva si è indebolita nel primo trimestre, risentendo anche della ripresa dei contagi; dovrebbe rafforzarsi moderatamente in quello in corso. In aprile valutavamo che il prolungamento del conflitto in Ucraina avrebbe potuto comportare circa due punti percentuali in meno di crescita, complessivamente, per quest’anno e il prossimo. Le stime più recenti delle maggiori organizzazioni internazionali sono simili. Non si possono però escludere sviluppi più avversi. Se la guerra dovesse sfociare in un’interruzione nelle forniture di gas dalla Russia, il prodotto potrebbe ridursi nella media del biennio.

In marzo l’inflazione ha toccato il 6,8 per cento, il massimo dall’inizio degli anni Novanta; è scesa di mezzo punto percentuale in aprile grazie ai recenti provvedimenti su carburanti, energia elettrica e gas. Non si sono finora registrati segnali di trasmissione delle pressioni dai prezzi alle retribuzioni anche per le caratteristiche del modello di contrattazione italiano, disegnato in modo da limitare le ricadute di incrementi dell’inflazione dovuti a shock di natura energetica. Vi hanno contribuito l’ancora incompleto recupero delle ore lavorate e la riduzione dei margini di profitto osservata nel 2021, nonché le misure disposte dal Governo per ridurre l’impatto della crisi energetica sui redditi di famiglie e imprese.

L’aumento dei prezzi delle materie prime importate è una tassa ineludibile per il Paese. L’azione pubblica può ridistribuirne gli effetti tra famiglie, fattori di produzione, generazioni presenti e future; non può annullarne l’impatto d’insieme. Per quanto riguarda le famiglie, gli interventi calibrati in funzione della loro condizione economica complessiva anziché dei redditi individuali risultano più efficaci nel contrastare le ripercussioni dell’inflazione sulla disuguaglianza. Misure mirate consentono, tra l’altro, di meglio preservare il ruolo dei prezzi come incentivo agli investimenti in fonti rinnovabili e al risparmio energetico.

Nonostante il deterioramento del quadro congiunturale, secondo le più recenti valutazioni della Commissione europea il rapporto fra il debito e il PIL continuerà a scendere in Italia sia quest’anno, sia il prossimo. Nelle ultime settimane abbiamo però osservato un aumento del differenziale di rendimento tra i titoli di Stato italiani e quelli tedeschi, che ha ripetutamente superato, per i decennali, i 200 punti base. Questo brusco incremento non riflette improvvisi cambiamenti nelle condizioni di fondo dell’economia: la posizione netta sull’estero è robusta, i produttori italiani competono con successo sui mercati di sbocco, è contenuto nel confronto internazionale l’indebitamento delle famiglie e delle imprese. L’incremento richiama tuttavia l’attenzione sulla fragilità strutturale rappresentata dall’alto livello del debito pubblico; conferma la necessità di proseguire senza incertezze sul sentiero di graduale rafforzamento dei conti pubblici.

Pur con intensità diverse tra paesi, le conseguenze economiche della guerra in Ucraina, così come quelle della pandemia, colpiscono tutta l’Europa. Alla crisi sanitaria si è data una risposta comune anche con il programma Next Generation EU (NGEU); la Commissione ha ora proposto di ampliarlo con il programma REPowerEU per porre fine alla dipendenza dalle importazioni di combustibili fossili dalla Russia. Iniziative a livello europeo possono evitare che shock sfavorevoli acuiscano le differenze tra le economie nazionali e i rischi di frammentazione dei mercati finanziari, assicurando un orientamento delle politiche di bilancio più adeguato alle condizioni dell’area. I principali beneficiari delle risorse del programma NGEU, fra i quali senza dubbio rientra il nostro paese, hanno la responsabilità di dimostrare con risultati concreti quali importanti traguardi un’Unione più forte e coesa possa conseguire.

Si discute da tempo dell’opportunità di completare l’assetto istituzionale dell’Unione economica e monetaria, dotandola di un bilancio comune di dimensioni adeguate. Questo svolgerebbe una funzione di stabilizzazione e garantirebbe la fornitura di beni pubblici europei a fronte di risorse proprie o di emissione di debito. Una tale innovazione porrebbe rimedio all’asimmetria tra le molteplici politiche di bilancio nazionali e la politica monetaria unica; essa richiederebbe, tuttavia, una modifica dei Trattati, un processo lungo e dagli esiti incerti.

Una soluzione percorribile a Trattati invariati, meno ambiziosa, potrebbe essere la predisposizione di uno strumento pronto per essere utilizzato in caso di necessità, evitando di dover creare di volta in volta programmi ad hoc, come è avvenuto dopo la crisi dei debiti sovrani e durante la pandemia.

In questo modo si rafforzerebbe la fiducia nella capacità europea di intervenire tempestivamente quando necessario. Il nuovo strumento potrebbe finanziare progetti comuni di carattere eccezionale o concorrere alla stabilizzazione macroeconomica dell’area in risposta a shock di particolare entità. Sull’esempio del programma NGEU, si reperirebbero risorse attraverso l’emissione di debito dell’Unione per trasferirle ai paesi membri affinché le impieghino con criteri e per scopi concordati a livello europeo; il servizio di questo debito sarebbe assicurato da adeguate entrate proprie.

Questa innovazione potrebbe accompagnare la riforma del Patto di stabilità e crescita in corso di elaborazione. Sembra oggi esservi consenso non solo sulla necessità di rinnovare il Patto, ma anche su alcune caratteristiche desiderabili del nuovo sistema di regole. Esso dovrebbe continuare a garantire la sostenibilità dei debiti pubblici, pur tenendo conto delle differenze tra le condizioni macroeconomiche e strutturali dei diversi paesi. Per assicurare semplicità e trasparenza, andrebbe limitato quanto più possibile il ruolo di grandezze non osservabili, quali il disavanzo strutturale o il prodotto potenziale.

Partendo da questi elementi di consenso – ben presenti anche nelle proposte di riforma avanzate dai governi di alcuni paesi dell’area – un quadro di regole che sia più flessibile e più semplice, ma che preservi la disciplina di bilancio, potrebbe essere incentrato su programmi di medio termine concordati con la Commissione europea e approvati dal Consiglio dell’Unione. Questi programmi, definiti sulla base di previsioni macroeconomiche realistiche e soggette a una validazione indipendente, dovrebbero indicare obiettivi di debito e orizzonti temporali per il loro raggiungimento, specifici per ogni paese, superando il criterio uniforme di riduzione del rapporto tra il debito e il PIL previsto dalle regole attuali; dovrebbero inoltre definire un profilo pluriennale di indebitamento netto coerente con tali obiettivi. Deviazioni da questo profilo non dovute a imprevisti di natura macroeconomica sarebbero soggette a meccanismi correttivi analoghi a quelli previsti attualmente nella procedura per i disavanzi eccessivi. Se fosse introdotto lo strumento di bilancio a cui ho accennato, l’accesso alle risorse comuni potrebbe essere vincolato al rispetto di questi programmi.

Come abbiamo più volte argomentato, vi sono solide ragioni per avviare anche forme di gestione comune di una parte dei debiti nazionali emessi in passato – ad esempio, la componente riconducibile all’emergenza pandemica – attraverso un fondo europeo che acquisisca, finanziandosi sul mercato, una quota dei titoli pubblici esistenti. Nella consapevolezza delle difficoltà politiche che incontra una tale iniziativa, va ancora una volta sottolineato il contributo che essa fornirebbe al rafforzamento della stabilità dell’area nel suo complesso e alla creazione di un mercato delle obbligazioni pubbliche sovranazionali di spessore e liquidità adeguati, con riflessi positivi anche nella prospettiva del completamento dell’unione bancaria e di quella del mercato dei capitali. L’attività di un tale fondo europeo sarebbe strutturata in modo da evitare trasferimenti sistematici di risorse tra paesi e da preservare gli incentivi a condurre politiche di bilancio responsabili.

I rischi per lo scenario internazionale oltre il breve termine

È in corso da tempo una riflessione sugli equilibri internazionali e sul governo della globalizzazione, imposta dai gravi shock che hanno colpito in successione l’economia mondiale negli ultimi 15 anni, dalle conseguenze distributive di questo processo nei diversi paesi, nonché dai progressivi mutamenti nel peso relativo – demografico, economico e politico – delle nazioni avanzate e di quelle emergenti. La guerra in Ucraina rischia di deviare il corso di questo necessario ripensamento e riportarci verso un mondo diviso in blocchi, con minori movimenti non solo di beni, servizi e capitali finanziari, ma anche di tecnologie, idee e persone.

Negli ultimi trent’anni, con la fine della Guerra fredda, l’apertura degli scambi e il progresso tecnologico hanno prodotto profondi mutamenti.

Hanno avuto accesso ai mercati globali miliardi di persone che prima ne erano di fatto escluse; ne è conseguita un’espansione senza precedenti.

Il prodotto mondiale è oggi due volte e mezzo il livello del 1990, quello pro capite è aumentato del 75 per cento, il commercio internazionale è più che quadruplicato. In alcune aree, in particolare nei paesi emergenti dell’Asia, lo sviluppo economico e il miglioramento delle condizioni di vita sono stati straordinari. Nonostante il contestuale incremento della popolazione mondiale – da 5 a 8 miliardi, concentrato per oltre il 90 per cento nelle economie emergenti e in via di sviluppo – il numero di persone in condizioni di povertà estrema è diminuito nettamente, con l’eccezione dell’Africa subsahariana, da quasi 2 miliardi a meno di 700 milioni.

I guadagni di efficienza generati dallo sfruttamento delle economie di scala, dalle differenze nella produttività e dalla diversa disponibilità dei fattori di produzione tra paesi e aree sono stati amplificati dall’organizzazione lungo catene globali del valore, nel cui ambito si svolgeva, prima della pandemia, circa metà degli scambi commerciali internazionali. I flussi di capitale hanno nel contempo continuato a sostenere l’integrazione economica, assicurando una migliore allocazione delle risorse e una maggiore diversificazione del rischio.

È stato un processo non privo di incertezze e difficoltà. La natura dei movimenti di capitale è cambiata: dalla crisi finanziaria globale è molto cresciuto il ruolo dell’intermediazione finanziaria non bancaria. Mentre la rischiosità della componente bancaria è stata attenuata da una vasta riforma delle regole e dalle politiche micro- e macro-prudenziali, l’ampliamento del grado di diversificazione delle fonti di finanziamento all’economia è stato accompagnato da marcati episodi di volatilità. L’allungamento delle catene del valore ha accentuato le esigenze di finanziamento delle imprese; per quelle che operano nelle economie emergenti e nei paesi meno sviluppati, l’ampia quota di debito in valuta ne ha aggravato la vulnerabilità a shock esterni.

La riproduzione su scala mondiale di modelli organizzativi di pianificazione just-in-time ha accresciuto la fragilità delle filiere produttive e i rischi di propagazione internazionale di difficoltà alla produzione di natura locale.

La globalizzazione ha fatto leva anche sulle differenze normative tra giurisdizioni – in particolare in materia di regimi di tassazione dei profitti, di sostenibilità ambientale e di tutela dei lavoratori. Inoltre, nonostante la significativa riduzione delle disparità nei redditi pro capite tra paesi, le disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza e del reddito sono fortemente aumentate all’interno di molte economie, specie quelle avanzate, dando origine a istanze di maggiore protezione sociale e minando la fiducia nei benefici della globalizzazione e del progresso tecnologico, anche per l’assenza di risposte adeguate da parte delle politiche nazionali. I ripetuti shock di origine esterna, oltre ad amplificare la volatilità dei redditi, hanno aumentato l’incertezza sulle prospettive economiche individuali e contribuito a generare insicurezza diffusa.

La pandemia, con la forte caduta degli scambi internazionali e le strozzature nelle catene di fornitura di alcuni beni intermedi, e l’invasione russa dell’Ucraina, con le sue ripercussioni sull’approvvigionamento energetico e alimentare, potrebbero spingere verso una riorganizzazione del commercio internazionale che privilegi la tenuta dell’offerta, soprattutto nei settori strategici. In questo assetto gli scambi potrebbero essere concentrati all’interno di aree costituite da paesi politicamente affini o uniti da accordi economici regionali.

Una divisione del mondo in blocchi rischierebbe tuttavia di compromettere i meccanismi che hanno stimolato la crescita e ridotto la povertà a livello globale. Una ricomposizione della fitta rete di interdipendenze tra i paesi, anche se distribuita nel tempo, difficilmente potrebbe avvenire senza tensioni e forti correzioni dei prezzi dei beni, dei servizi e delle attività finanziarie e reali. L’allocazione del risparmio globale sarebbe inevitabilmente meno efficiente, il finanziamento dei debiti, pubblici e privati, dei singoli paesi meno agevole. Una frammentazione lungo confini definiti da pur necessarie considerazioni di sicurezza politica potrebbe avere conseguenze assai negative per le economie di minori dimensioni, specie quelle a più basso reddito che non beneficiano della partecipazione a consolidate aree economiche regionali.

In un mondo diviso in blocchi si perderebbe anche, e soprattutto, quel patrimonio di fiducia reciproca – per quanto fragile e non scontato – che, oltre a essere indispensabile per la convivenza pacifica tra le nazioni, rappresenta una insostituibile base per affrontare le sfide cruciali per le prossime generazioni.

Il contenimento del riscaldamento globale, la lotta alla povertà estrema e il contrasto alle pandemie sono obiettivi formidabili, che nessun paese può affrontare da solo. L’esperienza della Presidenza italiana del Gruppo dei Venti (G20) lo scorso anno ha mostrato che, pur tra notevoli e crescenti difficoltà, l’azione collettiva può conseguire importanti risultati, anche se non si può non constatare quanto essa sia resa più ardua dal mutato contesto politico.

Una correzione di rotta che miri a coniugare i benefici della globalizzazione con politiche atte a contenerne le conseguenze negative è indispensabile. Deve fondarsi su una discussione aperta delle regole e del governo dell’economia globale, che porti a un nuovo equilibrio internazionale tenendo conto dell’accresciuta importanza dei paesi emergenti e della necessità di garantire il rispetto sostanziale dei principi e dei valori fondanti della convivenza pacifica tra le nazioni.

In caso contrario, a pagare il prezzo più elevato di una “deglobalizzazione” disordinata sarebbero proprio le fasce sociali e i paesi più vulnerabili e più poveri, anche se non mancherebbero le pressioni sulle economie avanzate, e in particolare sull’Europa. Oltre la metà del previsto aumento della popolazione mondiale, di 2 miliardi nei prossimi trent’anni, sarà concentrato in Africa: uno sviluppo sostenuto e sostenibile delle economie di questo continente è cruciale per ridurre la povertà estrema e garantire un consistente miglioramento delle prospettive economiche e sociali dei suoi abitanti, oltre che per scongiurare l’insorgere di flussi migratori difficilmente gestibili per intensità e dimensioni.

Nodi, tendenze e sfide per l’economia italiana

La ristrutturazione condotta nel decennio precedente la pandemia ha permesso alle imprese italiane di affrontare la crisi in condizioni di bilancio relativamente solide. Un recupero di competitività è in atto da tempo. Il sistema finanziario, anch’esso rafforzatosi, è in grado di offrire un adeguato sostegno al settore produttivo. La ritrovata fiducia nelle prospettive economiche del Paese ha favorito il ritorno alla crescita degli investimenti e la ripresa, su cui oggi pesano le conseguenze della guerra in Ucraina.

I progressi compiuti, per quanto parziali, indicano che l’economia italiana ha la possibilità di superare le debolezze che ne rallentano lo sviluppo, per interrompere il ristagno della produttività, contrastare l’effetto delle tendenze demografiche sull’offerta di lavoro, ridurre il peso del debito pubblico, salito in misura considerevole con la crisi pandemica. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) costituisce uno strumento decisivo per affrontare con successo questa sfida.

Il Piano, di dimensioni finanziarie importanti, segna una netta discontinuità nella definizione delle politiche economiche. Disegna una strategia articolata di modernizzazione del Paese, che coniuga programmi di riforma e investimenti pubblici con quelli privati, contribuendo a realizzare la transizione digitale e quella ecologica o “verde”. Innova profondamente le modalità di attuazione delle misure: individua obiettivi specifici, anche per i programmi gestiti a livello locale; delinea gli interventi necessari a superare gli ostacoli normativi che potrebbero rallentarne la realizzazione; stabilisce traguardi e scadenze sostenuti da un sistema capillare di monitoraggio.

Il PNRR non esaurisce il novero degli interventi necessari né l’impegno finanziario del Paese; vi si aggiungono altre importanti riforme da attuare, come quella della tassazione, e risorse che il bilancio nazionale destina a programmi di spesa con obiettivi affini. Esso offre però la possibilità di colmare in tempi non lunghi parte dei ritardi accumulati nelle infrastrutture materiali e immateriali, di potenziare il sistema della ricerca, di migliorare quello dell’istruzione e di accrescere gli investimenti nelle nuove tecnologie, tutti elementi necessari per favorire un’accelerazione della produttività e il rafforzamento del potenziale di crescita dell’economia. Per assicurarne il successo, le riforme dovranno essere in grado di cambiare profondamente il contesto in cui si svolge l’attività economica; le modalità innovative del Piano potranno diventare prassi generalizzata dell’intervento pubblico.

Aver definito linee chiare per uno sviluppo fondato su tecnologie verdi e digitali e sul sostegno all’attività di ricerca e all’innovazione potrà contribuire al rafforzamento e all’espansione del segmento più dinamico del sistema produttivo. Le eccellenze imprenditoriali non mancano; la produttività delle imprese italiane di dimensioni medio-grandi e la loro capacità di raggiungere i mercati internazionali sono comparabili con quelle delle imprese di analoga dimensione di Francia e Germania; il loro peso sull’occupazione e sul valore aggiunto resta però insufficiente. In Italia le aziende con oltre 250 addetti, che hanno in media migliori risorse manageriali e organizzative e una maggiore capacità di sostenere i costi dell’innovazione e di adattarsi alla transizione verde, impiegano meno di un quarto degli occupati, circa la metà che in Francia e in Germania.

L’azione volta a migliorare il funzionamento dei servizi pubblici e la regolamentazione dell’attività economica costituisce parte integrante, per molti versi cruciale, del PNRR. Sono previsti interventi normativi in numerosi ambiti e risorse adeguate a sostegno dei processi di digitalizzazione delle amministrazioni, del rafforzamento delle competenze dei dipendenti pubblici, di una più efficace organizzazione degli uffici giudiziari. Le misure attuate negli anni passati hanno consentito di ottenere alcuni progressi: si è ampliato notevolmente il ricorso a modalità di accesso digitale ai servizi offerti dallo Stato e dagli enti locali; dal 2015 il numero di procedimenti civili pendenti nei tribunali è diminuito di un quarto.

Restano tuttavia elevate la complessità e l’instabilità delle norme, la farraginosità dei procedimenti amministrativi, le carenze nel funzionamento delle amministrazioni pubbliche e della giustizia. Sono fattori che ancora oggi riducono la disponibilità a investire nel nostro paese, e nel Mezzogiorno in particolare, con iniziative imprenditoriali di grande dimensione.

La definizione dei provvedimenti legislativi e regolamentari inclusi nel Piano richiede un impegno notevole per assicurare il rispetto delle scadenze concordate con la Commissione europea. Tra gli interventi da completare entro il primo semestre di quest’anno assume rilievo la legge delega di riforma del codice dei contratti pubblici. Nei prossimi mesi dovrà essere portato a termine l’iter della legge sulla concorrenza, dando attuazione, nei tempi previsti, alle numerose deleghe in essa contenute.

Anche sul fronte del sistema tributario si sono compiuti passi in avanti: le recenti revisioni della tassazione dei redditi personali hanno corretto evidenti anomalie nell’andamento delle aliquote marginali effettive; il contrasto all’evasione fiscale ha beneficiato dell’introduzione di novità normative e tecnologiche come la fatturazione elettronica. L’inserimento di futuri interventi in una riforma organica, di cui più volte si è richiamata la necessità, consentirebbe di disegnare il sistema in maniera meno distorsiva, dargli stabilità, compiere ulteriori progressi nel contrasto all’evasione. Andrà in ogni caso salvaguardata la sostenibilità dei conti pubblici, prevedendo l’integrale copertura delle misure adottate. Limitarsi a intervenire su singoli aspetti della tassazione alimenterebbe il processo di stratificazione normativa.

L’incertezza che deriva dalle frequenti modifiche – talvolta poco coerenti tra loro e nel tempo, e con effetti retroattivi – e dalle discontinuità negli orientamenti interpretativi e giurisprudenziali costituisce un serio ostacolo all’attività economica.

Il superamento dei fattori che frenano la crescita della produttività è reso ancora più necessario dalle prospettive demografiche. Queste comportano una tendenziale riduzione della forza lavoro, che solo in parte potrà essere contrastata da un miglioramento del saldo migratorio e da un aumento della partecipazione al mercato del lavoro. Le più recenti proiezioni dell’Istat delineano nei prossimi 15 anni una diminuzione della popolazione di età compresa tra i 15 e i 64 anni pari al 13 per cento (circa 5 milioni di persone, di cui la metà nel Mezzogiorno); nella classe di età compresa tra i 24 e i 70 anni, utile a tenere conto dell’aumento prospettico degli anni di istruzione e della vita lavorativa, il calo è di poco inferiore a 3 milioni.

Nell’ultimo decennio la mancanza di adeguate occasioni di lavoro ha spinto quasi un milione di italiani, molti dei quali con un’istruzione elevata, a trasferirsi all’estero; per converso sono in calo, e spesso con profili poco qualificati, le persone che dall’estero si stabiliscono in Italia: si avverte la carenza di coerenti politiche di pianificazione dei flussi, di formazione e di integrazione. La partecipazione al mercato del lavoro è tra le più basse in Europa, in particolare nel Mezzogiorno. Il tasso di attività delle donne, pari al 55 per cento in Italia a fronte di una media europea del 68 per cento, è inferiore di 18 punti percentuali a quello degli uomini. Per ridurre il divario vanno tra l’altro rimossi gli ostacoli che le madri incontrano nel rientrare nel mercato del lavoro dopo la nascita dei figli. I finanziamenti del PNRR per i servizi alla famiglia costituiscono un primo passo in questa direzione.

Le possibilità di impiego e le scelte di partecipazione sono strettamente correlate ai livelli di istruzione, da innalzare quantitativamente e qualitativamente a partire dalla scuola secondaria, dove sono ancora alti i tassi di abbandono e insoddisfacenti i risultati dell’apprendimento. Nonostante i progressi compiuti, resta ampio il divario nella quota di laureati rispetto agli altri paesi europei, anche per la componente più giovane della popolazione: nella classe di età tra i 25 e i 34 anni i laureati erano il 28 per cento nel 2021, 13 punti in meno della media europea.

Gli interventi e l’uso efficace dei fondi del PNRR destinati alle infrastrutture scolastiche, fisiche e digitali, al rafforzamento dello studio delle materie tecnico-scientifiche, alla selezione e formazione degli insegnanti possono contribuire ad accrescere sia la domanda sia l’offerta di un’istruzione di qualità. Di questa necessitano soprattutto gli studenti provenienti da contesti territoriali e familiari meno favorevoli e i giovani stranieri, per i quali le rilevazioni sugli apprendimenti continuano a documentare difficoltà spesso drammatiche, notevolmente accentuatesi durante la pandemia. L’impiego di tali rilevazioni per la definizione di misure correttive mirate e coerenti è sempre più necessario.

Perché si realizzino i risultati sperati è cruciale che la struttura della nostra economia si apra al cambiamento, avvalendosi dei programmi e delle riforme previsti dal PNRR, per innalzare la propensione delle imprese a crescere e a investire nell’innovazione e nella valorizzazione del capitale umano. Di questo vi è particolare bisogno nelle regioni del Mezzogiorno, dove risiede oltre un terzo della popolazione italiana ma si genera poco più di un quarto del prodotto nazionale, e dove il livello medio del PIL per abitante è inferiore del 45 per cento a quello del Centro Nord. Il sempre più ampio divario territoriale nello sviluppo dell’economia riflette, insieme con le diffuse insufficienze dell’azione pubblica, il peso contenuto e i ritardi del settore produttivo privato; vi incide pesantemente il radicamento sul territorio delle organizzazioni criminali che impone costi alle imprese e falsa il funzionamento del mercato e le dinamiche concorrenziali.

Da qui al 2030, secondo le valutazioni ufficiali, oltre agli 80 miliardi previsti dal Piano, il Mezzogiorno potrà contare su ulteriori risorse per circa 120 miliardi, provenienti dai fondi strutturali europei e dal Fondo per lo Sviluppo e la Coesione. Si tratta di stanziamenti ingenti, dal cui impiego è lecito attendersi un effettivo rilancio dell’economia meridionale, tale da contribuire a un innalzamento del potenziale produttivo dell’intero paese.

L’elevato debito pubblico espone la nostra economia ad ampi rischi, inclusi quelli connessi con la volatilità dei mercati. In prospettiva, per una sua significativa riduzione saranno necessari ritmi di crescita stabilmente più elevati che in passato. Dovranno inoltre essere conseguiti adeguati avanzi al netto della spesa per interessi, anche per tenere conto dell’aumento atteso degli oneri connessi con l’invecchiamento della popolazione. In questo quadro il ricorso al debito per finanziare nuovi programmi pubblici – tranne per quanto necessario per fare fronte a situazioni di reale emergenza – va evitato.

I principali programmi di investimento sono in fase di avvio e le riforme del PNRR sono da completare. La crisi innescata dalla guerra in Ucraina non comporta la necessità di rivedere le linee strategiche del Piano, accresce semmai l’esigenza di accelerare la transizione verde. Le difficoltà connesse con il rincaro dei beni energetici potranno essere superate, come sta già avvenendo, con specifici stanziamenti.

Non si tratta solo di contrastare i cambiamenti climatici nell’ambito di una strategia condivisa a livello globale, ma anche di conseguire una maggior sicurezza energetica riducendo la dipendenza dalle importazioni di combustibili fossili, accrescendo la diversificazione degli approvvigionamenti, innalzando l’efficienza nell’uso di energia e il ricorso a fonti rinnovabili. Questi sono gli obiettivi del programma REPowerEU con il quale la Commissione europea propone che gli Stati membri possano includere nei propri piani nazionali nuovi interventi, da finanziare in larga parte con risorse comuni.

È un elemento cruciale della strategia europea la rimozione degli ostacoli di natura amministrativa alla realizzazione di impianti fotovoltaici ed eolici e delle necessarie infrastrutture. In Italia è urgente proseguire con gli interventi di semplificazione delle procedure autorizzative, nonché favorire lo sviluppo dei sistemi di accumulo dell’energia e delle reti di trasmissione. Queste misure consentiranno alle regioni meridionali di sfruttare il vantaggio comparato nella produzione di energia da fonti rinnovabili, con benefici in termini di attrattività per gli investimenti, già stimolati dagli incentivi, dalle riforme e dal miglioramento dei servizi pubblici e delle infrastrutture previsti dal Piano.

Il successo nel promuovere la coesione sociale e territoriale, la transizione digitale e quella verde è essenziale per rafforzare la fiducia nelle prospettive di crescita del Paese e contrastare l’aumento dell’incertezza determinato dalle tensioni internazionali.

Finanza e innovazione

Un adeguato flusso di risorse private che, affiancandosi a quelle pubbliche, sostenga gli investimenti necessari per uno sviluppo equilibrato e duraturo del Paese dovrà essere fornito dal sistema finanziario. Gli intermediari italiani sono oggi in condizione di destinare capacità e risorse per contribuire ad affrontare con efficacia le sfide poste dalla digitalizzazione e dalla transizione verde; ne hanno dato prova partecipando allo sforzo collettivo sostenuto dalle autorità monetarie e di bilancio, nazionali ed europee, per superare i contraccolpi di uno shock di così ampia portata come quello generato dalla pandemia.

Alla fine dello scorso anno il rapporto tra il capitale di migliore qualità e le attività ponderate per il rischio (CET1 ratio) delle banche italiane, pari al 15,3 per cento, superava di 1,3 punti percentuali quello di due anni prima.

L’incidenza dei crediti deteriorati sul totale dei prestiti era scesa, al netto delle rettifiche di valore, all’1,7 per cento, quasi la metà rispetto alla fine del 2019. Per le banche significative entrambi gli indicatori sono sostanzialmente in linea con quelli medi degli altri intermediari vigilati direttamente dalla BCE. Analoghi progressi sono stati conseguiti dalle banche di minore dimensione.

Il tasso di deterioramento dei prestiti, rimasto su livelli contenuti nel periodo della pandemia, ha risentito solo lievemente della graduale scadenza delle moratorie: circa due terzi delle società che ne hanno beneficiato è già tornata a rispettare pienamente il servizio del debito. Anche la qualità dei prestiti assistiti da garanzie pubbliche non mostra per ora un peggioramento: nel periodo di preammortamento ancora vigente la quasi totalità delle imprese ha continuato a pagare la quota in conto interessi. L’attenzione della Vigilanza alla corretta classificazione e valutazione dei prestiti continua a essere necessariamente sostenuta da specifici approfondimenti.

La redditività, pur tornata ai livelli prevalenti prima della crisi pandemica, è però ancora bassa, anche nel confronto internazionale.

Lo scorso anno il rendimento del capitale e delle riserve dei gruppi italiani significativi al netto delle componenti straordinarie è stato del 5,4 per cento, oltre 1,5 punti percentuali più basso di quello del complesso degli altri intermediari significativi. La redditività media delle banche italiane meno significative con operatività tradizionale è di un punto percentuale inferiore a quella degli istituti di maggiore dimensione. Non devono quindi venir meno l’azione volta ad accrescere i livelli di efficienza e l’impegno a rivedere i modelli di attività.

A fronte di questo quadro, complessivamente non negativo, il conflitto in Ucraina fa sorgere nuovi rischi. Le esposizioni dirette verso controparti residenti in Russia, Bielorussia e Ucraina, concentrate presso i due maggiori gruppi, sono contenute. Gli effetti indiretti del conflitto sono tuttavia più difficili da valutare.

I forti incrementi dei prezzi dell’energia incidono sulle condizioni finanziarie delle imprese. L’esposizione delle banche nei confronti di quelle che operano nei settori più colpiti dai rincari non è trascurabile, anche se va rilevato che, in media, la loro probabilità di insolvenza segnalata prima della guerra dagli intermediari era inferiore a quella delle società degli altri comparti.

Il prolungarsi del conflitto e l’accentuarsi delle frizioni nelle catene globali del valore potrebbero inoltre portare a un rallentamento ciclico più marcato di quanto ora previsto e a un conseguente peggioramento della situazione finanziaria di famiglie e imprese. Ne discende la necessità di operare con prudenza sui fronti della classificazione dei prestiti, degli accantonamenti, della distribuzione degli utili.

Il deterioramento della situazione congiunturale potrebbe avere conseguenze di rilievo per le banche più orientate all’attività di intermediazione creditizia, in particolare per alcune, tra quelle medio-piccole, su cui già pesano difficoltà nell’azione di contenimento dei costi e che faticano a beneficiare di economie di scala, diversificare le fonti di ricavo, reperire i capitali necessari per l’investimento in nuove tecnologie. L’azione della Vigilanza resta indirizzata a spingere questi intermediari a dotarsi di un governo societario in grado di formulare e attuare piani strategici credibili e coerenti con le sfide poste dal contesto di mercato; è responsabilità degli organi aziendali agire senza ritardi, anche sul fronte di possibili aggregazioni, per minimizzare il rischio che situazioni di difficoltà sfocino in irreversibili crisi aziendali.

Nell’industria finanziaria italiana è in corso da tempo un processo di rafforzamento del ruolo degli investitori istituzionali nell’allocazione del risparmio privato. Oltre un terzo della ricchezza finanziaria delle famiglie è oggi investito in strumenti del risparmio gestito; si è largamente ridotta nell’ultimo decennio la distanza dalla media dell’area dell’euro.

Una quota significativa del risparmio è gestita dai fondi comuni destinati all’investimento al dettaglio, per un ammontare complessivo di 1.300 miliardi, che si confronta con 1.400 miliardi di depositi bancari di famiglie e imprese. Una parte contenuta delle risorse amministrate dai fondi è investita in titoli emessi da imprese nazionali: si tratta del 5 per cento, a fronte del 34 e del 14 per cento in Francia e in Germania. Queste differenze riflettono, in buona parte, la struttura del settore produttivo italiano, caratterizzata da un numero relativamente elevato di aziende di dimensioni contenute, che meno ricorrono ai mercati dei capitali per finanziare le proprie attività.

Le competenze dei gestori attivi negli investimenti in settori innovativi e negli interventi di rilancio aziendale possono svolgere un ruolo importante nella selezione e nel finanziamento delle imprese a più alto potenziale di crescita. Tra il 2015 e il 2021 è più che triplicato (da 9 a 30 miliardi) il patrimonio gestito da fondi specializzati nell’acquisto di titoli emessi da piccole e medie imprese, tipicamente poco liquidi, e nel finanziamento di società che necessitano di essere ristrutturate. L’aumento è stato favorito da incentivi fiscali e normativi; le risorse gestite rimangono tuttavia contenute rispetto alla media dell’area dell’euro, dove raggiungono il 6 per cento del PIL, tre volte più che in Italia.

La crescita della finanza non bancaria deve avvenire in condizioni di stabilità. I rischi degli investimenti finanziari non possono essere annullati, ma devono essere meglio compresi dai risparmiatori e presidiati con prudenza e attenzione dalle società che li gestiscono. Anche quando di dimensione contenuta, queste ultime devono dotarsi di strutture di governo societario e di competenze adeguate a svolgere le proprie attività nell’interesse della clientela. L’aggiornamento in corso del quadro normativo e degli strumenti di controllo mira a favorire un’evoluzione ordinata e trasparente di questo settore. L’attenzione del Financial Stability Board e delle altre sedi della cooperazione internazionale, stimolata lo scorso anno dalla Presidenza italiana del G20, resta alta.

La crisi pandemica ha dato un forte impulso alla digitalizzazione di tutti i comparti dell’industria finanziaria. Nell’intermediazione creditizia le nuove tecnologie coinvolgono ormai ogni fase del processo di erogazione dei prestiti.

Nei pagamenti al dettaglio è aumentata la preferenza dei consumatori per l’utilizzo delle carte rispetto al contante negli acquisti presso i punti fisici di vendita, soprattutto se dotate di tecnologia contactless .

La diffusione di prodotti, processi e canali distributivi innovativi richiede il rafforzamento dei presidi per la tutela della clientela e la corretta gestione dei dati personali; la loro regolamentazione beneficia del confronto con utenti e operatori di mercato. Un aumento significativo dei livelli di alfabetizzazione finanziaria è condizione necessaria affinché le capacità di scelta dei clienti si rafforzino e le norme e l’azione di vigilanza possano meglio proteggere i consumatori.

Il ricorso alle tecnologie dei registri distribuiti (distributed ledger technologies, DLT) può migliorare l’efficienza nell’offerta dei servizi finanziari e recare benefici significativi per gli utenti. La riduzione dei tempi dei pagamenti e dei costi collegati alla emissione e alla circolazione degli strumenti finanziari favorisce l’ampliamento della platea degli investitori, accresce lo spessore dei mercati di attività sinora considerate poco liquide. Su questo fronte anche in Italia, come in altri paesi europei, sono in corso di definizione iniziative di sperimentazione, in coerenza con la prossima introduzione nell’Unione europea del regime pilota per le infrastrutture di mercato basate su DLT (Pilot Regime for Market Infrastructures based on DLT Regulation).

Queste tecnologie vengono utilizzate per l’emissione e lo scambio di criptoattività. Questa denominazione, per la quale mancano ancora tassonomie condivise a livello internazionale, fa riferimento a strumenti tra loro molto eterogenei. Un’importante distinzione va fatta tra le criptoattività emesse a fronte di attività reali o finanziarie (fully-backed stablecoins) e quelle prive di tale supporto. Le prime, se adeguatamente regolamentate ed emesse da soggetti ben identificati, possono mantenere un valore relativamente stabile nel tempo e fornire servizi all’economia.

Le altre – tra cui le cosiddette stablecoins con meccanismi di stabilizzazione basati su regole automatiche che adeguano l’offerta alle variazioni della domanda (algorithmic stablecoins) – sono prive di un valore intrinseco, connotate da un’elevata volatilità e, di conseguenza, esposte a significativi rischi di vendite improvvise; esse vengono per lo più utilizzate con finalità speculative. A seconda delle loro caratteristiche, le criptoattività possono quindi presentare diversi livelli di rischiosità, di cui la regolamentazione, nel disciplinarne la diffusione, deve tenere conto.

Va nella giusta direzione la proposta della Commissione europea di un regolamento sui relativi mercati (Markets in Crypto-Assets Regulation, MiCAR), che prevede sia regole comuni per l’emissione e l’offerta al pubblico di criptoattività sia requisiti per la prestazione di servizi a esse collegati, come l’acquisto, la custodia e la vendita. Restano tuttavia questioni aperte, come la possibilità che gli utenti accedano ai mercati delle criptoattività senza il coinvolgimento di operatori regolamentati.

Siamo consapevoli del permanere di ulteriori rischi, spesso non sufficientemente compresi dagli utenti, che possono derivare dal ricorso a portafogli elettronici che consentono lo scambio automatico di criptoattività, senza l’intervento di fornitori di servizi (i cosiddetti unhosted wallets), e dalla fruizione di servizi finanziari attraverso programmi informatici (smart contracts) resi disponibili direttamente da soggetti non sottoposti a controlli (finanza decentralizzata, o DeFi). Un ordinato sviluppo di questi fenomeni non potrà prescindere dalla definizione di standard e prassi in grado di costituire un riferimento non soltanto per gli intermediari vigilati, ma per tutti i soggetti coinvolti. Stiamo intensificando, per condividerli con le altre autorità di controllo, gli approfondimenti necessari per accrescere la trasparenza e l’affidabilità di queste nuove forme di intermediazione finanziaria.

Al di là delle distinzioni tra criptoattività, occorre avere ben presente che anche gli strumenti emessi ricorrendo alle DLT da soggetti chiaramente identificati sarebbero passività di enti privati, e come tali caratterizzate dal rischio di insolvenza. L’unico strumento in circolazione privo di tale rischio è il contante emesso della banca centrale. È sulla base di questa consapevolezza che la Banca d’Italia contribuisce, nell’ambito dell’Eurosistema, al progetto per la possibile introduzione dell’euro digitale. Una valuta digitale della banca centrale rappresenterebbe un’ancora per la fiducia del pubblico nella moneta; fungerebbe da complemento al contante e ai mezzi di pagamento elettronici esistenti, nonché allo sviluppo privato di strumenti digitali affidabili.

Affinché ciò sia possibile l’euro digitale dovrà soddisfare le aspettative degli utenti garantendo protezione dei dati personali, sicurezza e facilità di utilizzo, favorendo l’innovazione e accompagnando la trasformazione digitale dell’economia. La decisione sulla sua possibile emissione sarà presa nei prossimi anni alla luce dei risultati delle attività in corso.

Innovazioni quali i sistemi di identificazione elettronica e i metodi avanzati di analisi dei dati contribuiscono a rafforzare la lotta al riciclaggio e al finanziamento del terrorismo. Permettono di verificare l’identità della clientela anche da remoto e di svolgere approfonditi controlli sui flussi finanziari. Allo stesso tempo, le società fintech, che spesso registrano una rapida espansione dell’operatività, talvolta faticano ad applicare correttamente le regole antiriciclaggio. Le difficoltà sono maggiori quando esse operano su più mercati, con normative di settore non ancora pienamente armonizzate.

L’attenzione su questi profili di rischio non può che rimanere massima. In prospettiva, la definizione di regole direttamente applicabili in tutta l’Unione e l’introduzione di un sistema di vigilanza unico permetterebbero di superare molte delle attuali difficoltà.

In un contesto sempre più interconnesso e digitalizzato, e a maggior ragione in presenza di tensioni internazionali, assumono particolare rilevanza i rischi cibernetici, inclusi quelli derivanti dal ricorso a fornitori di servizi esterni, che possono minacciare la stabilità tanto dei singoli operatori quanto del sistema nel suo complesso. La necessità di garantire la sicurezza dei sistemi informativi richiede da un lato adeguati investimenti e attente scelte organizzative da parte degli organi di governo e controllo degli intermediari, dall’altro un’azione profonda di aggiornamento non solo degli strumenti di supervisione ma anche dello stesso quadro normativo. In Europa una proposta di regolamento (Digital Operational Resilience Act, DORA) prevede l’introduzione di disposizioni armonizzate e presidi robusti e uniformi per la resilienza operativa digitale nel comparto della finanza, anche attraverso l’introduzione di un regime di sorveglianza sui fornitori di servizi tecnologici particolarmente critici.

Nel confronto con gli operatori di mercato promuoviamo lo sviluppo delle tecnologie capaci di apportare maggiori benefici per la collettività.

Lo scorso anno è stata avviata, per iniziativa del Ministero dell’Economia e delle finanze e a cura delle autorità di controllo, la sandbox regolamentare, un ambiente dedicato alla sperimentazione di prodotti e servizi tecnologicamente avanzati nei settori bancario, finanziario e assicurativo da parte di intermediari vigilati e operatori specializzati, anche al fine di valutarne la compatibilità con la normativa vigente. A questa iniziativa, bene accolta dal mercato, si aggiungono le attività in corso presso il centro di innovazione della Banca d’Italia, Milano Hub. A seguito della prima call for proposals sull’intelligenza artificiale, dieci progetti selezionati sono in fase di sviluppo e beneficiano del supporto dell’Hub, che mette a disposizione competenze tecniche, approfondimenti di natura regolamentare, sostegno per l’organizzazione di presentazioni ed eventi tematici.

Le regole e le attività di controllo su intermediari e mercati contribuiscono a far sì che il sostegno della finanza alla transizione ambientale sia fornito contenendo i rischi, per i singoli e per la stabilità complessiva, connessi con i cambiamenti climatici. Le autorità di vigilanza stanno indirizzando e stimolando gli intermediari ad accelerare l’adozione di strumenti gestionali e organizzativi più adeguati al loro presidio e a fornire al mercato informazioni accurate sulle attività intraprese. In questa stessa direzione si muovono da tempo anche le banche centrali. Poche settimane fa abbiamo pubblicato il nostro primo Rapporto sugli investimenti sostenibili, che documenta le metodologie, le scelte e i risultati ottenuti dalla Banca d’Italia nella gestione dei portafogli diversi da quelli detenuti a fini di politica monetaria.

In linea con quanto fatto dalla BCE per le banche significative, abbiamo di recente pubblicato le nostre aspettative sulle modalità con cui gli intermediari bancari e finanziari che vigiliamo direttamente sono chiamati a integrare i rischi climatici e ambientali nelle loro strategie e sistemi di controllo, nonché nelle informazioni fornite al mercato. Sia in Europa sia presso il Comitato di Basilea si sta inoltre valutando la possibilità di modificare la regolamentazione prudenziale in funzione di tali rischi; su questo fronte si procede con cautela, nella consapevolezza delle difficoltà che riguardano la loro misurazione.

Nell’ambito dell’industria del risparmio gestito, lo scorso anno è entrato in vigore il nuovo Regolamento sull’informativa in materia di finanza sostenibile.

Per i fondi commercializzati in Europa che intendano promuovere iniziative ambientali o sociali o abbiano come obiettivo gli investimenti sostenibili sono previsti obblighi rafforzati di trasparenza informativa. La disponibilità di dati confrontabili e affidabili è una condizione essenziale affinché gli intermediari possano misurare e gestire i rischi, le autorità svolgere i loro compiti di indirizzo e controllo, gli investitori effettuare scelte consapevoli. Sono ancora necessari interventi per migliorare la tassonomia europea degli investimenti ecosostenibili, i cui criteri di attuazione sono stati individuati lo scorso anno, e approfondimenti su come rendere più omogenee a livello globale le definizioni adottate nelle diverse giurisdizioni.

Sarà necessario predisporre adeguati principi per verificare l’evoluzione dei rischi climatici, indicare standard contabili per la divulgazione di informazioni sulle emissioni di carbonio, sviluppare raccomandazioni sugli approcci di regolamentazione e di supervisione. L’Italia ha fornito un deciso impulso in questa direzione in occasione della Presidenza del G20. Sarà fondamentale, allo stesso tempo, evitare fenomeni cosiddetti di greenwashing, indicando chiaramente i soggetti che avranno la responsabilità dei controlli e stabilendo regole di certificazione dei “bilanci di sostenibilità” simili a quelle in vigore per gli ordinari documenti contabili, così come previsto nella proposta di Direttiva sul reporting di sostenibilità (Corporate sustainability reporting directive, CSRD). Andrà inoltre sviluppato un accurato quadro analitico in grado di tenere conto dell’elevata incertezza che permea sia i modelli che cercano di quantificare gli effetti dell’attività umana sul clima sia quelli che si prefiggono di stimare le conseguenze dei mutamenti ambientali sul benessere della società.

* * *

Due anni fa, nel periodo più difficile della pandemia, ci interrogavamo sulle sue conseguenze sociali ed economiche a breve termine; l’incertezza era straordinariamente elevata e sembrava arduo prefigurare gli equilibri e la nuova “normalità” che avrebbero potuto affermarsi nel più lungo periodo. Lo scorso anno, nel ricordare l’ampiezza eccezionale e l’efficacia degli interventi attuati per contrastare gli effetti, non solo economici, della crisi sanitaria, sottolineavamo come in un mondo fortemente interconnesso i rischi della pandemia non potessero dirsi superati senza esserlo davvero per tutti.

Ribadivamo il ruolo cruciale del coordinamento internazionale.

Sul fronte economico la ripresa dell’attività produttiva ha superato le previsioni. In alcuni paesi le misure di stabilizzazione macroeconomica hanno finito per determinare pressioni di domanda che, dati i vincoli di offerta, hanno provocato un marcato rialzo dell’inflazione. Nella seconda metà del 2021, dopo anni di eccessiva moderazione, la dinamica dei prezzi al consumo è tornata a essere sostenuta anche in Europa, non per un eccesso di domanda ma per il rincaro dei prodotti energetici importati.

La politica monetaria non può contrastare l’aumento dei corsi delle materie prime, ma deve puntare ad assicurare la stabilità dei prezzi nel medio termine. Il quadro congiunturale, cambiato profondamente in pochi mesi, rende opportuno abbandonare la politica di tassi ufficiali negativi.

Data l’incertezza delle prospettive economiche il rialzo dovrà avvenire con gradualità; sarà più agevole se le pressioni per incrementi salariali connesse con la risalita dell’inflazione saranno contenute, anche grazie a misure di bilancio volte a frenare il rincaro dell’energia e sostenere il reddito delle famiglie più colpite. Le condizioni di finanziamento dell’economia resteranno comunque ampiamente favorevoli.

In Italia l’alto debito pubblico riduce i margini a disposizione. Gli interventi di bilancio devono essere ben mirati e ben calibrati per massimizzarne l’efficacia e contenerne il costo. L’aumento, nelle scorse settimane, del differenziale di rendimento tra i titoli di Stato italiani e quelli tedeschi conferma che il debito pubblico resta un elemento di forte vulnerabilità; ci rammenta, se mai fosse necessario, la necessità di non abbassare la guardia, mirando, nel medio termine, a un avanzo al netto della spesa per interessi e puntando a uno stabile incremento della capacità di crescita dell’economia.

La positiva interazione tra politica monetaria e politica di bilancio nell’ultimo biennio mostra l’importanza di continuare a perseguire il completamento dell’assetto istituzionale dell’Unione economica e monetaria, dotandola di uno strumento di bilancio comune e semplificando le regole applicate ai bilanci nazionali. Con il programma NGEU e con la sospensione del Patto di stabilità e crescita, l’Europa ha dato una risposta coordinata e adeguata allo shock della pandemia. Su questa svolta si può costruire. L’Italia, il principale beneficiario del programma, ha la responsabilità di mostrare che l’impiego di risorse europee a sostegno di singoli paesi membri può produrre benefici per l’Unione nel suo complesso.

Il PNRR ha assunto qualità e dimensioni consone con l’obiettivo di colmare i gravi ritardi accumulati nel tempo dal Paese nell’istruzione e nella ricerca, nella parità di genere e nel sostegno all’occupazione giovanile, nella qualità delle infrastrutture e dei servizi pubblici. La prospettiva di una strategia di sviluppo fondata su tecnologie verdi e digitali e sul sostegno all’innovazione potrà contribuire al rafforzamento e all’espansione dei segmenti più dinamici del nostro sistema produttivo, nonché dell’industria finanziaria.

Ne conseguiranno mutamenti profondi anche per l’organizzazione del lavoro. Un’eredità della pandemia è certamente costituita dalla presa d’atto delle possibilità offerte dalle tecnologie digitali per il lavoro “agile”, per forme d’impiego a distanza. Anche in Banca d’Italia sono oggi diffuse queste nuove modalità di lavoro, applicate con flessibilità ed equilibrio laddove possibile.

Esse non si sostituiscono ma sono complementari al lavoro in presenza, che mantiene un ruolo centrale nella trasmissione diretta delle conoscenze, nella formazione dei più giovani, nella crescita della fiducia tra il personale. Resterà immutata la determinazione con cui continueremo a svolgere i nostri compiti al servizio della comunità nazionale e nell’ambito dell’Eurosistema.

Nel PNRR il riequilibrio dei divari territoriali ha assunto una priorità trasversale. Le risorse finanziarie che affluiranno al Mezzogiorno sono ingenti; tutti dobbiamo essere consapevoli che potranno dare i frutti attesi solo se lo Stato e le sue istituzioni continueranno a contrastare efficacemente l’illegalità, l’intimidazione, la violenza e la collusione. Abbiamo sempre presente l’esempio tracciato da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, magistrati e protagonisti straordinari di una ritrovata, e contrastata, forza dello Stato. Chi c’era trent’anni fa ricorda l’emozione e il cordoglio generati nel Paese dal loro sacrificio e da quello della moglie di Falcone e degli agenti delle scorte.

I più giovani sono testimoni di un ricordo ancora oggi sentito, una memoria comune condivisa.

Ci troviamo ora ad affrontare una nuova crisi, determinata dall’invasione russa dell’Ucraina. Al dramma per la popolazione di quel paese, che può solo attenuarsi con una rapida cessazione della guerra, si accompagnano conseguenze gravi sul fronte dei prezzi e dell’approvvigionamento dei prodotti energetici e di quelli alimentari. Nel breve periodo tra i paesi più colpiti vi saranno quelli europei, maggiormente dipendenti dal gas russo, e quelli più poveri, che già faticano ad assicurare il necessario approvvigionamento di materie prime agricole e concimi.

Per quanto difficili da prevedere, potenzialmente gravissimi possono essere gli effetti del conflitto sugli equilibri internazionali di più lungo periodo, sull’apertura dei mercati e sugli scambi, non solo di merci e capitali, ma soprattutto di informazione e conoscenza. L’Europa, che ha sempre puntato su un assetto mondiale bastato su regole condivise, avrebbe da perdere più di altri da un mondo dominato da divisioni e conflitti.

Dalla fine della Guerra fredda il processo di globalizzazione dell’economia ha portato indubbi benefici, con una netta diminuzione della povertà estrema a livello mondiale anche se con un accentuato aumento della disuguaglianza nella distribuzione di redditi e ricchezza all’interno di molti paesi. Già prima dell’attacco della Russia all’Ucraina si discuteva di come correggerne i più evidenti difetti, sempre tuttavia mantenendo i vantaggi conseguiti nell’ultimo trentennio. Problemi globali come le pandemie e le emissioni di gas a effetto serra non possono che richiedere risposte globali.

Scriveva, all’instaurarsi degli accordi di Bretton Woods, Luigi Einaudi: “La cooperazione internazionale ha in passato sempre giovato più ai poveri che ai ricchi. Così sia anche stavolta. Ma così sarà solo se noi fermamente lo vorremo”. E ancora prima, nel pieno del secondo conflitto mondiale, Einaudi sottolineava che “gli Stati nazionali sono sempre meno influenti a fronte dello sviluppo dell’interdipendenza economica su scala planetaria” e che frontiere aperte sono artefici di prosperità, perché: “Libertà di scambi economici internazionali vuol dire pace”.

È difficile dirlo meglio: la cooperazione internazionale non deve cedere il passo. La necessaria riflessione sul governo della globalizzazione non deve venire offuscata dalla sfiducia e dalle tensioni che derivano dal conflitto in atto; va invece coltivata con il massimo impegno, mantenendo aperto il dialogo, la speranza che la guerra, per la quale esprimiamo netta e totale condanna, cessi al più presto.

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