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L’emigrazione è un fenomeno storico che ha interessato anche l’Italia | Il libro di Giulietta Fabbo

Giulietta Fabbo è una docente di Lettere al Liceo Classico “Colletta” di Avellino. Ha pubblicato il suo primo libro, un romanzo storico anche catalogato come storie di vita dal titolo “L’albero di nespole” edito dalla casa editrice PAV edizioni di Pomezia Roma. Uno dei temi principali del libro è sicuramente l’emigrazione che coinvolge uno dei protagonisti, costretto, all’età di 9 anni, ad abbandonare la sua terra natìa.

Pubblichiamo un estratto del libro che parla proprio del ritorno del protagonista in Italia.

Capitolo 16 – Ritorno in Italia

Era la primavera del 1956. 
La “Double Queen”, con a bordo il Corpo delle Forze Operative di cui Nino faceva parte da oltre 15 mesi, si stava dirigendo verso le coste della Libia per un intervento ordinario.
Il viaggio era lungo, ma senza una scadenza imminente ed improrogabile, tanto che il Capitano, quando già la nave aveva preso il largo per il viaggio di ritorno, aveva deciso di fare una tappa di pochi giorni nel porto di Napoli. 
Nel corpo delle Forze Operative c’era più di un italiano e sentire Napoli come prossimo sbarco, fece saltare il cuore in gola a molti tra i Marines. 
A Napoli la nave sarebbe stata ferma 4 giorni: 4 giorni di licenza per tutti, per visitare un po’ d’Italia o fare quel che si voleva prima di ripartire. 
Ninetto non ci pensò due volte. 

Insieme ad un altro Marine prese la prima corriera che partiva in direzione Avellino, impiegò quattro ore prima di poter salire su una seconda corriera che faceva il giro dei piccoli paesi irpini e mise piede nella maniera più inattesa possibile sulla terra che nove anni prima aveva lasciato. 

Riconobbe la strada, quella che tante volte aveva percorso dando la mano a sua madre prima, e portando per mano i suoi fratellini poi. 
Il tracciato della strada era lo stesso, anche se ai margini c’erano tante più case rispetto a quelle che lui ricordava. La guerra era finita da oltre dieci anni, e il miglioramento delle condizioni generali era tangibile sotto gli occhi di chi tornava lì dopo lungo tempo. 

Nino aveva negli occhi le immagini di una quotidianità povera, sofferente e carente di tutto: la terra brulla, gli animali smagriti, donne e uomini malvestiti, bambini con cenci impolverati che trascinavano avanti a fatica una vita fatta di stenti e priva di beni. 

Ora tutto era ordinato, pulito, ricco: panchine di pietra erano distanziate a delimitare il bordo della strada e le donne camminavano con la sporta della spesa tutta raccolta in un grosso fazzoletto che reggevano dritto sulla testa, e avevano abiti dignitosi e volti sereni. 

Nei giardini delle case ai margini della strada bambini, vestiti con pantaloncini e calzettoni bianchi ricamati che arrivavano fin sotto al ginocchio, giocavano con animaletti intagliati in legno, e uno di loro era sopra un triciclo anch’esso in legno. 
Più in là muratori costruivano altre case. 
Il paese si ingrandiva. 
La ricchezza sembrava essere arrivata anche a Prata, dopo che la guerra era finita.
Dietro la curva della strada, eccola…ancora là…la sua casa…

Rallentò il passo, si fermò ancora lontano ad osservare un lungo muretto di cinta con su una ringhiera ininterrotta che delimitava tutto il grande pezzo di terra che circondava la costruzione: dovevano averlo edificato in questi ultimi anni quel muretto, perché lui non lo ricordava, prima non c’era…

Il cancello era aperto, lo sospinse lentamente in avanti.

Dove prima era terra, ora era lastricato di pietre bianche lisce che creavano un bel contesto davanti alla scala che riconobbe immediatamente, anche se ora i gradini erano anch’essi rivestiti di mattonelle bianche. 

L’albero di nespole era lì, maestoso come sempre e, sotto, le due panchine di pietra dove un tempo lui e i suoi fratelli erano soliti giocare.
Salì la scala. La ricordava molto più grande e lunga e alta: in realtà era lui che aveva le gambe molto più alte di nove anni prima.

Il cuore batteva forte, così forte da confondersi al rumore della sua mano che batteva sul portoncino verde d’ingresso della casa.
Silenzio. 
Battè ancora. 
O era il suo cuore a battere così da sentirsi anche fuori…?
Una voce di ragazzo dall’interno domandò: “Chi è?”. 
“Sono io… – rispose con un filo di voce tremante – sono Nino…”.
“Chi?”
“Sono Nino…”
“Andatevene! Qui non conosciamo nessun Nino! Andatevene via!”
Un rumore di passi convulso si sentì venire da una parte più interna della casa e avanzare nel lungo corridoio verso il portoncino.

“Ninoooo”, pronunciava affannosa la voce.
“Ninoooo”, urlava poi. “Apri, apri!!”: diceva sua mamma a suo fratello Andrea che non aveva capito!
La mamma, invece sì, aveva capito in un attimo: “Apri, apri – gridava – È Nino. Fu un attimo!
Un attimo meraviglioso!
Un attimo indimenticabile!

Il portone che si aprì, la mamma con i suoi capelli raccolti e il grembiule della cucina addosso e le braccia aperte, e l’abbraccio e il pianto e il fratello che lo riconobbe e la sorellina Rosa che guardava dal fondo del corridoio…

Fu un attimo meraviglioso…!
Una presenza nuova catturò all’improvviso lo sguardo di Nino: un bambino di cinque o sei anni sbucò dietro a Rosa dalla stanza in fondo al corridoio. Pantaloncini corti e calzettoni, in mano una bambola di pezza, forse di sua sorella, guardava immobile il marinaio che tutti abbracciavano e non capiva perché.

“Francesco, disse la mamma, vieni, vieni anche tu, è Nino! È tuo fratello”.
Nino sarebbe rimasto lì quel giorno e la notte, fino alla mattina seguente. Doveva essere di nuovo a Napoli entro la sera del giorno dopo.

Quando all’ora del pranzo Giuseppe tornò dalla scuola, e già si meravigliava di non vedere i suoi piccoli che gli correvano incontro vedendolo arrivare, aprendo il portoncino e percorrendo il lungo corridoio che portava in cucina, sentiva uno strano accavallarsi di voci diverse dei suoi familiari…e immaginava ci fosse un ospite e non indovinava chi fosse.

Sulla soglia della cucina, vedendoli già tutti seduti intorno ad un tavolo, distinse in un secondo la figura di un giovane che immediatamente si alzò in piedi.
Mentre a lui mancarono le ginocchia all’improvviso…e stava quasi per cadere quando riconobbe Ninetto.
Quanto era cambiata la sua casa!

Nino la guardava mentre gli altri parlavano. I suoi occhi non potevano evitare di cadere qua e là su tutto ciò che lo circondava, e distinguere tra ciò che ricordava e ciò che invece ancora non c’era.

Non c’erano pareti colorate, per esempio: ricordava solo stanze grezze, con l’intonaco grigio e un pavimento semplice. Ora invece ogni stanza aveva un colore diverso: gialline erano le pareti della cucina, verde chiaro il lungo corridoio, rosa la camera da letto dei genitori, celestina la camera in cui dormivano i bambini. Non ricordava i mobili certamente: erano stati comprati da pochi anni e avevano sostituito le poche suppellettili che attrezzavano la casa prima della sua partenza nel ‘47.

Ma soprattutto non c’era tutta una parte della casa che si sviluppava ai due lati di un altro lungo corridoio e che era di costruzione recente.

La fine della guerra aveva davvero cambiato il volto dei piccoli paesini di provincia, così come aveva completamente rifatto le città.

Gli anni del dopoguerra avevano portato ovunque in Italia, e a tutti, in proporzione ai vari status sociali, una grande ventata di benessere.
Si alzavano le case, a volte si costruivano palazzi, si lastricavano le strade, si delineavano le piazze.
Le abitazioni diventavano belle, colorate, la mobilia andava a decorare le pareti oltre che a contenere i beni di necessità.

Si diffondevano i grandi specchi, i divani e le poltrone nei salotti. Le stanze si aprivano a dar mostra del proprio benessere, in alcuni casi a ostentare la propria ricchezza.
C’erano vestiti nuovi per ogni componente della famiglia, e le toppe si riducevano sempre più sugli abiti usati.

Non era l’Italia che Ninetto aveva lasciato da bambino, non era il paese polveroso e misero che ricordava nelle sue memorie dell’infanzia. Non era la casa dei suoi ricordi quella in cui adesso si ritrovava a pranzare e a dormire.

Sotto l’albero di nespole, giù in giardino, mentre Rosa e Francesco giocavano con i loro animaletti di legno e i loro pupazzi di pezza, Nino e suo padre parlarono tanto.
Giuseppe gli chiedeva della sua vita tra i Marines, dei posti che aveva visitato, gli diceva quanto era diventato alto e come si era fatto davvero un gran bel giovane! Non gli faceva tante altre domande però…
Né forse Nino avrebbe avuto le risposte.

Teresa, affannata e felice, saliva e scendeva su e giù per la scala che portava in giardino e, asciugandosi le mani sul grembiule sempre attaccato alla vita, portava ora giù della frutta, ora dell’acqua, ora come per un pretesto, andava a controllare Rosa e Francesco per rassicurarsi che giocassero tranquilli. Ora chiamava ad alta voce dalla scala Andrea, che se ne stava in piedi vicino al cancello a guardare i passanti, e gli chiedeva di aggregarsi al fratello e di andare ad ascoltare i suoi racconti al padre.

Di fatto non le sembrava vero di avere il suo tanto adorato figlio laggiù, nel giardino insieme al resto della sua famiglia, e, anche se aveva tanto da fare in casa e non sapeva smettere di affaccendarsi, aveva però continuamente bisogno di guardarlo, accarezzarlo rapidamente sulla testa, sulle spalle, incrociare il suo sorriso e riprendere a trafficare per casa.

Quella sera Teresa liberò per Nino il letto di Rosa che dormiva nella stanza con suo fratello Andrea. 
I due fratelli condivisero la camera, ma non c’era più tra loro la complicità di una volta, quando erano due bambini, i due unici figli, che giocavano e stavano sempre insieme. 

Andrea era ormai un ragazzo di 16 anni ed era spesso brusco e scontroso: era stato silenzioso per tutto il giorno, raramente gli aveva parlato, e anche la sera, che avrebbe potuto chiacchierare un po’ soffusamente con lui, si addormentò dopo averlo salutato in un silenzio freddo e indifferente, il che a Nino in verità fece male non poco.

Quando il giorno dopo all’ora del pranzo, Nino dovette riprendere la corriera che lo avrebbe portato a Napoli, il momento dei saluti fu ancora una volta straziante, soprattutto per Teresa.
Nelle quattro lunghe ore di solitudine, quanto durò il viaggio della corriera, affacciato al finestrino a guardare senza vedere i paesaggi che scorrevano rapidi accanto, Nino ripensò ad ogni singolo momento trascorso in famiglia.

Sentiva dentro un sovrapporsi di sensazioni diverse. Ripensava a quel ragazzo gelido che lo aveva accolto e che fino a due giorni prima nella sua mente aveva invece le sembianze di un bambino di due anni più piccolo che era come l’altra metà di sé stesso: Andrea, così cambiato, così distante, così lontano…

Ripensò alla dolcezza della sua sorellina Rosa coi boccoli biondi raccolti in un nastro colorato e il vestitino cucito dalla mamma. La tenerezza con cui spesso si avvicinava a lui e lo toccava per farsi guardare, e contenta di ricevere un’attenzione se ne andava poi ancora a giocare. 

Gli veniva in mente Francesco, quel bimbo mai visto, di cui ricordava d’aver avuto notizia in una lettera scritta dal padre Giuseppe quando abitava ancora nella casa di zio Pippiniello, il quale spesso le lettere le leggeva senza mettere neanche Nino a parte di quello che contenevano e poi le strappava o le buttava via. 
Pensare al fratellino Francesco gli dava una strana sensazione: lo faceva sentire confuso e agitato ma non capiva perché… 
Forse perché Francesco era nato pochi anni dopo che lui era partito. 
E la famiglia era tornata ad essere composta da cinque persone. 
Di nuovo tre figli. 
Con una bocca in meno da sfamare, poteva nascere un altro figlio. 
Sì, forse era per questo che si sentiva così: perché lui era stato spinto a partire, era stato lasciato andare, e poi veniva messo al mondo un altro figlio. 
Era tornato a salutare dopo nove anni la sua famiglia, ed ora stava ripartendo, andava via da loro per la seconda volta. 
Era necessario anche adesso? 
Avrebbe potuto scegliere di restare? 
Nessuno di loro glielo aveva chiesto. 
Nessuno gli aveva detto di restare. 
Questo ormai era il suo destino. 
Questa era la strada che avevano tracciato per lui. 
E lui infatti la stava seguendo. 
Senza ribellarsi. 
Ancora una volta la stava seguendo.
Una sola certezza però in quel mare di emozioni confuse: una sola certezza sentiva adesso di avere, che lo faceva stare bene, lo faceva sentire forte. 
La certezza di esser amato: sua madre lo amava, lo amava davvero, lo amava tanto. 
Lo aveva sentito chiaramente in quelle 27 ore che aveva trascorso con lei. Lo aveva toccato con mano ad ogni carezza, ad ogni lacrima che aveva visto scendere tante volte sul suo viso. 

Lo aveva percepito nella disperazione con cui lo aveva di nuovo salutato, e che aveva rinnovato lo strazio di quella mattina di agosto davanti alla nave Vulcania. 
Sua madre lo amava, se lo sentiva tutto il suo amore anche dentro quella cicatrice che si accarezzava tra i capelli: lo aveva lasciato partire, ma lo amava profondamente. 
E questa per lui era una certezza importante. 
Anche suo padre lo amava, uguale a lui coi suoi capelli neri neri lisciati all’indietro, con le sue camicie bianche, con lo sguardo sorridente e orgoglioso mentre lo ascoltava parlare. 

Non gli avevano chiesto di restare. 
Ma lo amavano profondamente entrambi. 
Avevano scelto per lui l’America. 
E l’America lo stava aspettando, oltre l’Oceano. 
Una nave era pronta a salpare nel porto di Napoli, e lo avrebbe ricondotto in America. 
La sua vita era là. 
La sua famiglia lo amava.
Ma la vita per lui era in America.

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