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Le donne senza figli guadagnano più del doppio rispetto alle madri | L’analisi di Chiara Vincenzi

La Relazione annuale 2022 della Banca d’Italia ha evidenziato che «a parità di età, competenze e reddito da lavoro iniziale, la retribuzione annua delle madri a quindici anni dalla nascita del primogenito è in media circa la metà di quella delle donne senza figli». In un Paese che dice di voler rilanciare non solo le nascite, ma anche l’occupazione femminile, questi numeri risultano piuttosto indicativi del problema: le donne italiane devono ancora scegliere tra la realizzazione professionale e la maternità. «La nascita di un figlio ha conseguenze rilevanti per le prospettive di carriera delle donne che continuano a svolgere un’attività lavorativa», afferma la Banca d’Italia. Mentre per i padri non avviene lo stesso, ci sarebbe da aggiungere.

Subito dopo esser diventati genitori, una parte consistente del lavoro di cura viene svolto dalle madri, che spesso si vedono costrette a lasciare il proprio posto di lavoro o a scegliere la formula part-time. L’opzione del tempo ridotto, infatti, è diventata sempre più femminile: riguarda circa una donna su tre, mentre tra gli uomini solo uno su dieci. «Il 90% del divario» illustra il report, «è spiegato da un numero minore di ore lavorate, dovuto al passaggio a contratti a tempo parziale e alla riduzione delle settimane retribuite nell’anno a parità di tipologia di rapporto di lavoro». E il rimanente 10%? «La restante parte è invece riconducibile alla minore crescita delle retribuzioni settimanali delle madri, verosimilmente determinata da progressioni di carriera più lente rispetto alle donne senza figli». A questo punto la domanda sorge spontanea: perché?

L’altra faccia della medaglia

Alla luce di questi dati si potrebbe pensare che l’impegno che comporta il lavoro genitoriale riduca inevitabilmente il rendimento sul posto di lavoro, e che quindi lo squilibrio retributivo sia dovuto agli scarsi risultati ottenuti. A smentire quest’ipotesi arriva la ricerca del Institute for the Study of Labor (IZA), dal titolo “Parenthood and Productivity of Highly Skilled Labor: Evidence from the Groves of Academe”, che evidenzia come la produttività delle madri, nel medio periodo, addirittura superi quella delle donne senza figli. Si registra perfino una crescita di redditività con l’aumentare del numero dei figli (dal 15% sale al 17%). Questo perché le madri tendono a risultare più abituate a mettere in atto strategie di multitasking, si organizzano con maggiore efficienza e svolgono più rapidamente le attività.

L’unico calo di rendimento si registra nella prima fase di maternità. Ma è bene notare che, non a caso, questo calo non è riscontrabile nei padri, che non sembrano subire gravi scossoni dopo la nascita di un figlio. Oltre a essere occupati più facilmente quando hanno figli minorenni (88,6%-89,1%), gli uomini hanno più possibilità di avanzamento. Lo evidenzia la ricerca di Hays “Gender Diversity Report 2017”, secondo la quale gli uomini che diventano padri hanno più del doppio delle possibilità di una donna di essere promossi sul posto di lavoro (24% per i padri, 10% per le madri).

Inoltre, un altro studio promosso dalla Duke University, “Trends in the Motherhood Wage Penalty and Fatherhood Wage Premium for Low, Middle, and High Earners”, sottolinea la presenza di un fenomeno ancor più esplicativo di questa disparità: il “fatherhood wage premium”. In pratica, secondo i ricercatori, gli uomini tendono ad avere più ore di lavoro e ricevere più bonus, quindi stipendi più alti, quando hanno figli. Per le donne avviene l’opposto: esiste, dice la ricerca, un bias sulle madri lavoratrici, che vengono considerate meno competenti o impegnate sul lavoro (“motherhood penalty”).

Come sciogliere il nodo?

Si tratta di una situazione certamente complicata che ha bisogno di una riflessione articolata per avvicinarsi a una risoluzione, o quantomeno a un miglioramento. Sono certamente indispensabili riforme che promuovano l’assistenza pubblica all’infanzia e il supporto dei neogenitori, ma, senza l’equa ripartizione del lavoro di cura all’interno della casa e nelle mansioni genitoriali quotidiane, il problema rimarrà a gravare sulle spalle delle madri. Inoltre, un altro passo, che potrebbe avere un effetto quasi immediato sul problema, è l’adeguamento degli stipendi delle donne – madri e non. Se si raggiungesse una parità salariale reale si potrebbero prendere decisioni diverse anche prima e dopo la nascita di un figlio. Infatti, come evidenziato dal Save The Children nel report “Le equilibriste”, spesso le madri sono costrette a rimanere a casa perché hanno uno stipendio mediamente più basso e quindi più sacrificabile.

Ma un modello sociale così diverso da quello attuale può davvero funzionare? Basta guardare fuori dai nostri confini, ad esempio ai modelli scandinavi, che si sono già dimostrati vincenti. Come la Svezia, che concede, alle famiglie con un neonato o un bambino adottato, 480 giorni di congedo parentale pagato, di cui 90 giorni sono riservati alla madre e 90 giorni al padre. D’altronde non è certo una coincidenza se il tasso di occupazione femminile in Svezia supera il 70%.

Decidere di avere o non avere figli dovrebbe essere una scelta libera per le donne, così come lo è già per gli uomini. Un Paese che spinge sistematicamente le donne a un bivio tra la maternità e il lavoro non può aspettarsi record di nascite, né alti tassi di occupazione femminile. Non possiamo sapere con certezza quali saranno le prossime politiche che metterà in campo questo governo, ma una cosa si può facilmente dedurre: continuando a mantenere un modello di genitorialità che poggia quasi esclusivamente sull’impegno e lo sfruttamento delle madri, i miglioramenti rimarranno scarsi e insignificanti.

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