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La diseguaglianza delle mamme | L’analisi di Chiara Vincenzi

L’Istat attesta un tasso di occupazione femminile che si aggira attorno al 52,1% (17,5 punti sotto quella maschile), secondo i dati riportati da Save The Children nel report dall’emblematico titolo “Le equilibriste”, a cura di Alessandra Minello e Maddalena Cannito. Un dato che risulta particolarmente basso se messo in relazione con quello europeo, pari a poco più del 67%, secondo l’Eurostat. Si tratta sì di numeri in crescita rispetto agli anni precedenti, ma rimangono ancora molto bassi, soprattutto sul fronte nazionale.

Cos’è il lavoro di cura non retribuito?

Insomma, la posizione delle donne all’interno del mercato del lavoro è ancora ostacolata da molti fattori, uno tra tutti è il lavoro di cura non retribuito, che viene definito dall’International Labour Organization (ILO) distinguendo «tra due attività, quelle dirette e quelle indirette. Tra le prime rientrano le attività di cura personale e relazionale, come allattare un bambino o prendersi cura di un partner ammalato; tra le seconde rientrano attività pratiche come cucinare e pulire».

Secondo quanto rilevato dal rapporto “Care work and care jobs for the future of decent work”, realizzato da ILO, le donne italiane passano 5 ore e 5 minuti al giorno a svolgere mansioni di lavoro non retribuito di assistenza e cura, mentre per gli uomini si tratta di 1 ora e 48 minuti. Ma non si tratta solo di un fallimento di cooperazione, poiché il valore di cura ha anche un importante valore economico: il lavoro di cura non retribuito ha un valore stimabile attorno agli 11.000 miliardi di dollari, circa il 9% del prodotto interno lordo (PIL) globale. Miliardi di ore di lavoro svolte ogni giorno senza nessuna compensazione e che riguardano in modo particolare le donne, le quali coprono il 76,2% di queste ore di occupazione invisibile. Un numero mastodontico, che mette in evidenza uno sbilanciamento che non può essere ignorato.

L’impatto della pandemia

La situazione del lavoro femminile ha subito un netto peggioramento a causa dell’emergenza sanitaria. Nel primo anno di pandemia, infatti, sono stati più di settantamila i posti di lavoro persi dalle donne – riporta Save The Children. Ma non solo, il Covid-19 ha colpito anche le retribuzioni, a causa della diminuzione delle giornate lavorative. E queste alterazioni non sono rimaste circoscritte al periodo pandemico: a giugno 2021, quando sono state rimosse le misure di contenimento per contrastare la diffusione del virus, le differenze di genere sono rimaste più alte rispetto al periodo pre-pandemia, seppur ridotte rispetto all’anno precedente.

La posizione dell’Italia

Secondo il “Global Gender Gap Report 2022” del World Economic Forum (WEF), l’Italia si posiziona al 110° posto della classifica nell’ambito della Partecipazione economica e delle opportunità per le donne, con uno dei risultati europei più bassi assieme a Macedonia del Nord e Bosnia ed Erzegovina. Eppure, l’Istat ci assicura che le donne in Italia risultano mediamente più istruite degli uomini: il 65,3% sono diplomate (mentre gli uomini raggiungono il 60,1%) e le donne in possesso di una laurea arrivano al 23,1% (16,8% gli uomini). Ma allora perché questo “vantaggio” nell’istruzione non si traduce in un beneficio nella sfera dell’occupazione e del potere economico?

Le ipotesi sono molte, ma perlopiù questo paradosso è riconducibile a una serie di mancanze che riguardano la ripartizione delle responsabilità domestiche, la flessibilità degli orari lavorativi e i congedi parentali. D’altronde lo ha sottolineato anche l’Onu, nel report “Progress on the Sustainable Development Goals: The gender snapshot 2022”, che ha evidenziato come «l’iniqua distribuzione del lavoro di cura e l’accesso limitato a benefici legati a maternità, assistenza all’infanzia e congedo parentale» contribuiscano a rafforzare questo squilibrio.

La gabbia dei ruoli di genere

Il problema più consistente che si manifesta nel dibattito sull’occupazione femminile è quello della maternità. In Italia – così come in altri Paesi, in misura diversa – diventare madri può rappresentare ancora un freno per l’ingresso o la permanenza all’interno del mercato del lavoro, soprattutto nel Mezzogiorno. Secondo il “Gender Policy Report 2022” dell’INAPP, il 52,7% delle donne con figli minori residenti al Sud è inattiva, il che dimostra la presenza di un modello familiare basato su una divisione antiquata dei ruoli di genere, che chiude le donne fuori dal mercato del lavoro. Questa tendenza è presente specialmente tra le giovani (25-34 anni), dove i numeri arrivano a un preoccupante 63,5% nelle donne con almeno un figlio minore (2 donne su 3).

Come sottolinea il report di Save The Children, «l’inattività femminile è prevalentemente dovuta alla gestione della famiglia (35%), mentre lo è in maniera solo marginale per i padri (3%)». È facile dedurre che questi numeri portino donne a scegliere (ancora) tra lavoro e genitorialità, mentre il problema sembra non sussistere per gli uomini. In questo contesto, chi da madre vuole continuare a lavorare, deve tener conto di supporti indispensabili come la famiglia (68%) – dove di nuovo rimangono centrali le donne nella figura di “nonna”, con un consistente 43%. Ma chi non può fare affidamento su parenti prossimi? Sono pochissime le madri che possono contare sul supporto degli asili nido pubblici (17%) o di altri servizi pubblici (1%), mentre tutte le altre (13%) sono costrette a scegliere tra costosi asili nido o l’abbandono del posto di lavoro.

Ma perché a casa non rimangono i padri? Sì, una fetta consistente di queste scelte è guidata da un ritorno ai cosiddetti “ruoli tradizionali”, ma spesso si è anche obbligati a scegliere per convenienza economica, si ricorda in “Le equilibriste”: «Stipendi più bassi per le donne, possibilità di carriera inferiori, contratti più precari si intrecciano con le scelte relative alla condivisione della cura dei figli, in un circolo vizioso che penalizza le mamme».

E i padri?

Se la tradizione vuole dare per scontato che ci siano mansioni che solo una madre può svolgere, è vero che la stessa consuetudine spesso ha negato agli uomini l’esperienza di essere genitori. Ma ci sono segnali di – tiepido – cambiamento. I congedi di paternità, infatti, sono relativamente nuovi (sono stati introdotti solo nel 2012). All’inizio era previsto un solo giorno obbligatorio e due facoltativi. Oggi i neopapà hanno diritto a 10 giorni obbligatori e uno facoltativo (che deve, però, essere ceduto dalla madre dal suo congedo di maternità), e sono retribuiti al 100%.

Ma in quanti ne usufruiscono? Sempre secondo le stime riportate da Save The Children, nel 2013 era solo il 19,23% dei padri a sfruttare il congedo. Ma nel 2021 si è raggiunto il 57,6%, una crescita consistente che fa sperare in un miglioramento – possibilmente coadiuvato da un allargamento sia nel numero di giorni, che ai settori ancora esclusi.

«L’equiparazione dei congedi tra madre e padre, un indennizzo totale e la non trasferibilità del congedo stesso, così come l’estensione del congedo al secondo genitore intenzionale, avrebbero non solo l’effetto diretto di riequilibrare i carichi di cura, per una visione più paritaria della coppia a sostegno anche di un cambiamento culturale, ma garantirebbe a tutti i bambini e le bambine di godere del proprio diritto alla cura e della stabilità dei rapporti affettivi con entrambi i genitori», si legge nel report.

Si va avanti o si resta indietro

L’Italia necessita di un urgente cambio di passo. Come si può sperare di rilanciare la natalità e il lavoro femminile quando questi due concetti risultano quasi antitetici tra loro? Finché il lavoro di cura non retribuito sarà sinonimo di lavoro da donna, l’Italia sarà condannata a rimanere un gradino indietro alle altre nazioni, che – lungi dall’essere arrivate alla meta finale – sembrano muoversi molto più rapidamente verso il progresso. Certo, soluzioni facili e immediate non ce ne sono, ma ci sono tante iniziative importanti (dalla sperimentazione della settimana corta, all’ampliamento del congedo parentale e i servizi pubblici per l’infanzia, passando per la promozione di una parità reale e tangibile) che possono risultare di inestimabile valore per la costruzione di un Paese più equo e vivibile per tutti. 

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