Nei mesi di diffusione del contagio, le lavoratrici dai 20 ai 50 anni sono state più colpite degli uomini della stessa età.
E ora rischiano di perdere il reddito o il posto. Parte da questa considerazione l’analisi che i giornalisti Maurizio Ferrera e Barbara Stefanelli hanno presentato sul Corriere della Sera del 28 maggio.
Non solo, ma nel settore dei servizi, dal turismo alla ristorazione, che sono i più colpiti dalla crisi, la quota della forza lavoro femminile si attesta sull’84%.
Appare quindi chiaro che in tutto il mondo l’incidenza della disoccupazione, della sospensione dal lavoro e delle riduzioni di reddito è stata più alta per le lavoratrici. Infatti le donne sono più presenti nei settori “non essenziali” fermati dal lockdown che ora affrontano una contrazione drammatica. Molte imprese che operano nel turismo, nella ristorazione e in generale nei servizi hanno dovuto usare massicciamente la cassa integrazione, alcune hanno chiuso e non riapriranno. Inoltre nelle settimane di blocco le donne hanno pagato il prezzo più alto nella sfera delle relazioni personali. Uno: la convivenza forzata ha aumentato i casi di violenza domestica. Due: la chiusura delle scuole e la clausura dei nonni hanno accresciuto gli oneri di cura e istruzione dei figli, il più delle volte gravanti sulle spalle femminili.
In Italia i processi decisionali relativi all’emergenza e all’uscita dall’emergenza sono stati dominati – salvo correzioni in corsa – da politici ed esperti di sesso maschile.
Allora è proprio in momenti di passaggio come quello attuale che si crea l’occasione di imprimere un cambiamento che innovi l’intero sistema, altrimenti gli effetti della crisi provocheranno un arretramento dell’indipendenza economica delle italiane e un’accentuazione del divario domestico tra partner. E questo avverrà per ragioni pratiche, prima ancora che eventualmente ideologiche.
Invece non vi è dubbio che il rilancio dell’economia italiana non possa non passare da un significativo incremento dei tassi di occupazione femminile, fermi intorno al 50%. Per fare questo bisogna anzitutto smascherare i pregiudizi inconsci presenti in Italia attraverso un osservatorio imparziale che andrebbe attivato nei processi di decisione collettiva, come ad esempio quelli che gestiranno la ripartenza.
Non bisogna equivocare la “questione femminile”, che pure esiste in Italia, con la proposta di promuovere risorse per le giovani imprese guidate da donne o di dare impulso a quel “neo-terziario sociale” che in altri Paesi offre beni e servizi per le famiglia, creando centinaia di migliaia di nuovi posti. Non è “questione femminile” quando si incoraggiano forme di conciliazione per i due genitori o flessibilità nel ricorso ai congedi parentali. Non chiamiamola “questione femminile” quando riflettiamo sui meccanismi e i benefici per la società intera del “gender responsive budgeting”: l’analisi dell’impatto che le politiche fiscali hanno sulle donne in particolare, in un trade-off monitorato tra efficacia e promozione dell’equità.
Se guardiamo alla rinuncia femminile al lavoro per prendersi cura dei figli in Italia si attesta sull’11,1% rispetto al 3,7% in Europa, che diventa l’1,3% in Germania. Questo dato deve servire a sbriciolare nel punto più sensibile il muro dell’inerzia di chi continua a invocare i ruoli “naturali” di genere o di chi – pur consapevole dei dislivelli – ancora non si muove per appianare il terreno.
L’indipendenza economica attiva delle donne è la prima garanzia di libertà individuale e di sviluppo sociale.








