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Non chiamateli mostri, sono uomini | L’analisi di Chiara Vincenzi

Secondo il report del Ministero dell’Interno, in Italia dal 1° gennaio al 4 giugno del 2023 sono stati registrati complessivamente 138 omicidi. Le vittime donne sono 49, di cui 41 sono state uccise in ambito familiare o affettivo e 24 per mano del partner o dell’ex partner. Negli ultimi anni le vittime di femminicidi sono cresciute costantemente (da 119 nel 2020, fino a 126 nel 2022). Si tratta di dati preoccupanti che mettono in luce un fatto ormai chiaro: non possiamo più parlare di casi isolati.

E questi sono solo i picchi più estremi di violenza, quelli che culminano con la morte della vittima. Ma la violenza sulle donne sa essere ancora più pervasiva e sfaccettata. Un’indagine Istat del 2014 stimava che il 31,5% delle donne (tra i 16-70 anni, circa 6 milioni 788 mila) avesse subìto nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale: il 20,2% violenza fisica, il 21% violenza sessuale, il 5,4% le forme più gravi della violenza sessuale come lo stupro e il tentato stupro.

La piramide della violenza

I dati mostrano quanto profondamente la violenza rivolta nei confronti delle donne sia radicata nella società, ma è anche necessario notarne i suoi diversi livelli di intensità. In questo ambito, la piramide della violenza di genere è uno strumento molto utile per osservare attentamente la forma del problema. Mentre al vertice si trovano i fenomeni percepiti come più gravi (femminicidio, stupro), alla base troviamo le azioni meno sanzionate: gli atteggiamenti sessisti, le cosiddette “battute da spogliatoio”, il catcalling. Potrebbe sembrare azzardato legare gli estremi della violenza al sessismo più “benevolo”, ma per capire questo collegamento basta osservare la forma della piramide: senza una base solida, il vertice non troverebbe più la stessa stabilità e, inevitabilmente, crollerebbe.

Il complesso di questa struttura definisce la cosiddetta “cultura dello stupro”, ovvero tutti quei «codici di comportamento e valoriali che riproducono il totale controllo del corpo maschile su quello femminile, la cui volontà viene tacitata e il cui desiderio è annullato», spiega Michela Cicculli, attivista della casa delle donne Lucha y Siesta sulla Repubblica. «In questo modo il consenso di una donna non è rilevante e rimane slegato dalla sua possibilità di dire sì o no». Questa smania di controllo e subordinazione è stata evidenziata anche dal Senato, che in una valutazione del 2018, riportava la definizione dell’Accademia della Crusca del termine femminicidio come il «provocare la morte di una donna, bambina o adulta, da parte del proprio compagno, marito, padre o di un uomo qualsiasi, in conseguenza del mancato assoggettamento fisico o psicologico della vittima». Insomma, stiamo parlando di un fenomeno inequivocabilmente sociale.

L’assassino non è un mostro

Per qualcuno può sembrare controintuitivo, ma chi commette un atto di violenza (che sia un omicidio, un femminicidio, uno stupro) non è un mostro, è una persona – nella grande maggioranza dei casi, un uomo. Fare questa distinzione, che spesso si perde nella narrazione di una cronaca nera sempre più morbosa, non è solo importante, è fondamentale: proprio perché si tratta di un fenomeno sociale, la società non può permettersi di distaccarsi da esso. Se si vuole giungere alla risoluzione del problema non se ne possono ignorare le origini, fingendo che delle forze sovrannaturali abbiano innescato un evento insolito e casuale. Così come non si dovrebbe parlare di “raptus di follia” o “attimi di pazzia” laddove non c’è una diagnosi clinica.

L’assassino, ma anche il femminicida, lo stupratore, il molestatore, non è altro che un uomo, una persona. È un membro della società che ha scelto di manifestarne i caratteri peggiori, quelli che si vorrebbe evitare di guardare in faccia, perché mettono a disagio. Nelle azioni dell’assassino, se si guardano da vicino, si vedono riflesse tutte quelle responsabilità che non ci si vorrebbe assumere. Definirlo “bestia”, spogliarlo dei suoi caratteri umani, fa sentire tutti più tranquilli: lui è altro da me, noi non siamo come lui – pensa all’unisono l’opinione pubblica.

La disumanizzazione dell’uomo che commette un atto violento è problematica non solo perché allontana le responsabilità sociali, ma anche perché indica una sorta di inevitabilità biologica del suo istinto animale. «Per lo stesso principio che loda le donne in quanto buone a prescindere, soccorrevoli, intelligenti, caritatevoli; del maschile si è inclini a rappresentare il lato brutale, il predatore, il violento, colui che non è in grado di controllare i propri impulsi. Raptus, luce rossa, follia. Ma la denigrazione contiene anche un sottinteso rimprovero alle donne: siate sottomesse, prendetevi cura di questo maschio che non è in grado di tenere le mani a posto», spiegano Loredana Lipperini e Michela Murgia nel saggio “L’ho uccisa perché l’amavo. Falso!”. Se l’uomo è un animale, le sue azioni non sono deliberate, non sono malevoli, sono naturali.

“Le donne devono chiedere aiuto”

Dopo l’omicidio di Giulia Tramontano per mano dell’ex partner Alessandro Impagnatiello, la procuratrice aggiunta di Milano, Letizia Mannella, ha dichiarato: «un’altra tragica vicenda di femminicidio» che a «noi donne insegna che non dobbiamo mai andare a un ultimo incontro di spiegazione». Sono parole che stridono quando confrontate con molte altre storie di donne massacrate in casa, mentre tornavano dal lavoro, o in centinaia di circostanze diverse. Senza parlare dell’inefficacia di questa misura, che non tiene conto che questi uomini sono spesso inseriti in quasi tutti gli ambiti della vita della propria compagna, e che, quindi, sfuggirgli può risultare del tutto impossibile. È un commento che sembra lasciare alla vittima l’onere di difendersi, mentre lo Stato conta i morti, incapace di arginare il fenomeno.

Dire alle donne cosa fare e come muoversi, come se ci fosse davvero una strategia collaudata per evitare di farsi uccidere o di subire un attacco, equivale a spostare la responsabilità dell’aggressione lontana dal carnefice. Certo, si possono prendere precauzioni, appellarsi agli organi competenti, modificare radicalmente il proprio comportamento. Ma la realtà è ben diversa e molto più imprevedibile di quanto si voglia ammettere: non esiste un modo certo per aggirare la violenza. Questo perché le donne sono lasciate sole a prevenirla.

Alla violenza si risponde con l’educazione

Come evidenziato in precedenza, la violenza che gli uomini rivolgono alle donne ha una genesi ben chiara, ma, senza osservarne le radici, difficilmente si potrà abbattere l’intero organismo. Sono state diverse le ipotesi fatte per mettere fine a queste continue tragedie. Negli ultimi giorni, qualcuno ha parlato di donne scortate da bodyguard volontari agli ultimi appuntamenti con il proprio ex, qualcun altro ha rispolverato il cosiddetto “ceffone educativo” per inculcare le buone maniere nei giovani uomini – un po’ come provare a spegnere un incendio lanciando fiammiferi accesi tra le fiamme. Tutte ipotesi che, quando non sono solo marginali e inefficaci, sanno essere addirittura controproducenti.

Eppure, per capire da dove iniziare basterebbe rivolgersi a chi già si è rimboccato le maniche e sa bene da che parte andare. Ad esempio, si potrebbe guardare alle diverse associazioni femministe specializzate nella lotta alla violenza di genere, che negli anni hanno fatto proposte e avviato progetti indipendenti. Si tratta di iniziative trasversali che, cogliendo la complessità del problema della violenza, si occupano di sensibilizzazione e formazione, ma anche di creare spazi sicuri per chi l’ha subita in prima persona. Sono indispensabili progetti di sostegno economico e psicologico a chi vorrebbe scappare dall’abuso, così come è necessario investire in realtà già avviate e che hanno dimostrato la loro validità. Esortare le donne a denunciare e chiedere aiuto non basta più. Anzi, non è mai bastato.

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