Analisi, scenari, inchieste, idee per costruire l'Italia del futuro

[L’analisi] La ricerca, l’illusione del Pnrr e i reagenti che si possono comprare o non comprare a seconda dei risultati delle prossime elezioni

«L’impegno del Governo è partire dai giovani ricercatori». Lo ha detto il premier Mario Draghi, davanti ai ricercatori e agli scienziati che erano con lui durante la sua visita ai Laboratori Nazionali del Gran Sasso dell’Istituto Italiano di Fisica Nucleare (INFN). Nel Pnrr il governo Draghi ha previsto un investimento consistente sulla ricerca «oltre 30 miliardi».

«Finanziamo fino a 30 progetti per infrastrutture innovative di rilevanza europea. Nei prossimi 4 anni, destiniamo 6,9 miliardi di euro alla ricerca di base e applicata. A dicembre abbiamo pubblicato bandi, che si sono chiusi questa settimana, grazie Ministra, per un totale di circa 4,5 miliardi di euro», spiega.

Sblocco delle assunzioni per i ricercatori

«Il numero di nuovi dottori di ricerca in Italia è calato del 40% in circa 10 anni, tra il 2008 e il 2019, ed è oggi tra i più bassi nell’Unione Europea. Per invertire questa tendenza, raddoppiamo il numero delle borse di dottorato, dalle attuali 8-9 mila l’anno a 20mila, e ne aumentiamo gli importi. Finanziamo circa 2.000 nuovi progetti di giovani ricercatori sul modello dei bandi europei. E riformiamo i dottorati di ricerca per valorizzare il titolo anche al di fuori della carriera accademica, e formare competenze di alto profilo nelle principali aree tecnologiche».

Draghi è andato a snocciolare cifre pesanti. Il programma presentato è, a tutti gli effetti, una svolta per il settore della ricerca italiano da troppi anni alle prese con bilanci sempre al limite e con l’impossibilità di una pianificazione a lungo termine degli investimenti. Soprattutto, dopo anni di quasi blocco delle assunzioni che hanno di fatto, rallentato il turn over e spalancato le porte alla fuga dei nostri giovani talenti verso l’estero. A mettere nero su bianco lo stato dell’arte del sistema ricerca italiano era stato il Consiglio Nazionale della Ricerca che martedì scorso ha presentato la “Relazione sulla ricerca e l’innovazione in Italia Analisi e dati di politica della scienza e della tecnologia”.

Fuga di cervelli

«Una parte notevole dei nostri studenti» si legge tra i risultati della relazione «svolge il dottorato all’estero. Solamente in Austria, Francia, Spagna, Svizzera, Regno Unito e Stati Uniti ci sono più di 12 mila studenti italiani frequentanti corsi di dottorato. L’Italia ospita studenti da altri paesi in una quota pari al 15,7%, molto inferiore a Paesi Bassi (44,0%), Belgio (41,4), Regno Unito (42,5) e Francia (38,2%). Gli studenti in Italia provengono principalmente da paesi emergenti, i primi tre sono Iran, Cina e India».

«Molti dottori di ricerca in Italia trovano occupazione all’estero, circa il 13% dopo qualche anno, testimoniando la buona qualità della formazione ricevuta. I settori dove è più forte l’esodo sono proprio le STEM: il 32% nelle Scienze fisiche, il 27% in Scienze matematiche e informatiche, il 19% in Ingegneria industriale e dell’informazione. Non sorprende questa collocazione professionale fuori d’Italia: dopo 6 anni dal conseguimento del titolo, il reddito medio mensile è pari a 1.679 euro in Italia e 2.700 euro all’estero». Secondo l’analisi realizzata un gruppo di lavoro di diversi Istituti del Consiglio Nazionale delle Ricerche: di Ricerche sulla Popolazione e le Politiche Sociali (IRPPS), di Ricerca sulla Crescita Economica Sostenibile (IRCRES), per gli Studi sui Sistemi Regionali Federali e sulle Autonomie (ISSIRFA).

Occupazione

Questa Relazione, coordinata da Daniele Archibugi, Emanuela Reale e Fabrizio Tuzi, «solo lo 0,5% della popolazione in età lavorativa in Italia ha il dottorato di ricerca, contro l’1,2 della media dell’Unione. Anche gli iscritti al dottorato sono assai meno che nella media dell’UE: lo 0,14% contro lo 0,28%. È necessario aumentare il numero di coloro che conseguono il titolo di dottore di ricerca, circa 10 mila studenti l’anno, con migliori prospettive, per compiere un salto nella specializzazione tecnologica e produttiva verso settori e industrie a più elevato contenuto di conoscenza».

«Il tasso di occupazione dei dottori di ricerca è pari al 93,5%, ma meno della metà ritiene di sfruttare pienamente le conoscenze acquisite nel mercato del lavoro. La quota che trova impiego nel settore privato è inferiore al 10% nell’Industria e dell’8% nelle attività professionali, scientifiche e tecniche. In Italia si trovano raramente dottori di ricerca nel settore industriale».

Gender pay gap

Non è tutto, perché in questo contesto, pesa anche il gender gap, la discrepanza di genere tra le retribuzioni salariali tra uomini e donne, che riguardano la maggior parte delle discipline, anche se in varie misure, tanto che si spazia dai 22 euro di gap nelle discipline umanistiche fino ai 700 euro nelle materie mediche.

«Credo sia piuttosto inaccettabile» ha osservato Daniele Archibugi, ricercatore dell’Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Irpps) che ha coordinato la ricerca «il nostro lavoro indica che i dottorati di genere maschile sono associati a retribuzioni medie di circa 300 euro più elevate rispetto alle controparti femminili. Uno dei dati più preoccupanti riguarda le discipline mediche, in cui il gap raggiunge circa 700 euro. Ciò emerge anche tra i dottorati all’inizio della loro carriera, a tra 4 e 6 anni dal conseguimento del titolo. Questo implica che il divario non riguarda solo antichi retaggi delle difficoltà del passato, ma è un problema ancora molto forte».

Dopo il Pnrr

In un contesto di questo tipo, la reazione da parte del mondo della ricerca è da un lato di approvazione per le risorse messe in campo dal PNRR, ma anche di preoccupazione, soprattutto per quando il finanziamento straordinario finirà. A dar voce a queste preoccupazioni è stata la Presidente del CNR, Maria Chiara Carrozza.

«Il PNRR» ha detto «costituisce un’unica e probabilmente irripetibile occasione, per instaurare il circolo virtuoso tra ricerca e innovazione e sviluppo economico e sociale del paese; per avviare numerosi progetti di sviluppo scientifico e tecnologico e nuove collaborazioni tra mondo accademico, amministrazione pubblica, enti locali e industria; per una collaborazione tra settore pubblico e privato diretta verso la soluzione delle grandi sfide della società. Tali condizioni devono essere mantenute assicurando adeguate risorse ordinarie anche quando le risorse straordinarie del PNRR avranno esaurito il proprio compito».

Stesso concetto ribadito, il giorno dopo, da Giorgio Parisi che, nel suo discorso nell’Aula Enrico Fermi dei Laboratori Nazionali del Gran Sasso, davanti a Mario Draghi ha spiegato: «Il PNRR investe una grande quantità di risorse nella ricerca, ma cosa succederà quando finirà il PNRR e l’Italia dovrà restituire i prestiti? Quante saranno le risorse da destinare alla ricerca dopo la fine del PNRR?».

Finanziare la ricerca

«Avere una risposta a queste domande» ha ribadito «è fondamentale per attirare in Italia i ricercatori, di qualsiasi nazionalità, che attualmente stanno all’estero o i giovani che non hanno ancora deciso dove stabilirsi. La regolarità delle fonti di finanziamento è cruciale per la ricerca. Gli scienziati vogliono poter sviluppare le loro idee e per far questo è necessario che la ricerca sia finanziata in maniera costante. È difficile far venire ricercatori in Italia quando questi si rendono conto che potranno comprare, o non comprare, i reagenti chimici a seconda dei risultati delle prossime elezioni».

Per questo motivo, secondo Parisi «c’è una profonda necessità di avere un piano che stabilisca i finanziamenti minimi assicurati per la ricerca per i prossimi, sette anni in maniera che si sappia che anche da noi si possono fare progetti a lunga scadenza». Ma Parisi ha anche rilanciato una proposta. «Un piano di questo genere dovrebbe essere approvato dal parlamento a larghissima maggioranza e poi riveduto (ma mai al ribasso) ogni due tre anni. Nel passato la dinamica politica poteva rendeva difficile un’approvazione con una maggioranza bipartisan. L’attuale situazione potrebbe rendere più facile l’approvazione a larghissima maggioranza di un impegno di finanziamento della ricerca per il prossimo futuro, anche dopo la fine del PNRR».

Gestire le risorse

Una proposta che lo stesso Draghi ha ripreso nel suo intervento al Gran Sasso: «Colmare questi ritardi richiede coraggio, determinazione, ma» come ha ricordato oggi il Professor Parisi «soprattutto necessita di continuità. Tocca a noi tutti prenderci cura della scienza, come la scienza si è presa cura di noi». Le preoccupazioni della comunità scientifica non sono solo legate al dopo PNRR, ma anche alle modalità con cui saranno gestite le risorse nell’immediato. Parisi stesso aveva sollevato la questione al Gran Sasso, che poi venerdì è stata messa nero su bianco da una nota della Commissione Ricerca dell’Accademia Nazionale dei Lincei in cui si «chiede che si ponga la massima attenzione al rischio di finanziamenti diffusi e poco fruttuosi» con il rischio di creare inutili cattedrali nel deserto.

«Occorre vigilare affinché questa grande occasione non si trasformi in una indiscriminata corsa ai finanziamenti, soprattutto per quanto riguarda i bandi dei Partenariati Estesi e delle Infrastrutture di Ricerca, e che si faccia attenzione alla scelta di temi di ricerca di base e applicata realmente innovativi, lungimiranti e volti allo sviluppo del Paese. Le infrastrutture di ricerca – laboratori, banche dati, apparecchiature e grandi attrezzature – oltre a essere costituite per ben precise finalità scientifiche, dovranno essere un’impalcatura a sostegno e a disposizione dell’intera comunità scientifica nazionale anche dopo la chiusura del PNRR: purtroppo non è quello che in molti settori si sta verificando», sottolinea la Commissione Ricerca dell’Accademia dei Lincei.

Strategia a lungo termine

«È importante un piano che preveda una continuità dei finanziamenti anche a fine PNRR. Non possiamo edificare cattedrali nel deserto poi abbandonate all’interrompersi del finanziamento pubblico, sarebbe una strategia perdente», dichiara Roberto Antonelli, presidente dell’Accademia Nazionale dei Lincei. «Bisogna pensare a fondi per l’assunzione di ricercatori non a termine, affinché il loro numero sia messo in linea con quello dei dottori di ricerca, come ha detto anche la ministra Messa nel suo intervento al CNR per la presentazione della relazione sulla ricerca e l’innovazione». 

Per saperne di più:

SCARICA IL PDF DELL'ARTICOLO

[bws_pdfprint display=’pdf’]

Iscriviti alla Newsletter

Ricevi gli ultimi articoli di Riparte l’Italia via email. Puoi cancellarti in qualsiasi momento.

Questo sito utilizza i cookie per migliorare l'esperienza utente.