C’è un punto – scrive Stefano Folli su Repubblica – che spiega la logica e anche l’urgenza del viaggio a Washington della premier Giorgia Meloni.
Evitare o almeno ridurre il rischio che la relazione storica tra Europa e Stati Uniti sia spezzata dalla crisi attuale.
Si dirà che non dipende certo dall’Italia, o meglio dalla sola Italia, che ciò avvenga oppure no. Tuttavia le circostanze offrono questa occasione e si tenta di coglierla.
Il primo ministro spagnolo Sánchez ha scelto di andare in Cina, quasi a dimostrare che gli Stati Uniti ormai sono nemici, o quanto meno avversari in questa fase, e che gli europei devono guardare altrove.
L’Italia meloniana si sforza invece di ricucire i brandelli di una tela antica, oggi lacerata.
Che ci riesca è tutto da vedere, tuttavia un fallimento del viaggio non sarebbe nell’interesse di nessuno tra i protagonisti del dibattito pubblico sia in Italia sia in Europa.
E nemmeno in Usa, al di là della nuova ideologia isolazionista che tutto semplifica e riduce a frasi fatte.
Nella sostanza sarà un viaggio di esplorazione politica rispetto a cui sono fuori luogo sia l’enfasi un po’ infantile dei sostenitori acritici della presidente del Consiglio sia il pessimismo a priori dei suoi detrattori.
Che esista un nesso tra il tema dei dazi e la guerra in Ucraina, è ormai persino ovvio.
Giorgia Meloni non può avere l’ambizione di sciogliere il primo problema e di facilitare il secondo.
Può tuttavia fare — se ne sarà capace — un discorso realistico, utile a rafforzare l’immagine e gli interessi italiani in America e al tempo stesso leale verso gli obblighi europei.
Del resto, lo stesso Trump ha riconosciuto che sulle tariffe le trattative devono riguardare l’Unione nel suo complesso, intesa cioè quasi come una singola nazione.
Ma c’è un altro aspetto centrale e tocca le spese per il riarmo, collegate in un modo o nell’altro agli sviluppi della guerra in Ucraina.
La premier dovrà capire se alla Casa Bianca siede oggi un Trump disilluso da Putin e disposto a ricredersi circa la volontà di pace che l’altro Trump, quello della campagna elettorale, convinto di mettere d’accordo russi e ucraini in 24 ore, aveva preso per buona.
Grave errore e imperdonabile sottovalutazione dell’astuzia di Mosca al tavolo del negoziato.