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Inizia la guerra Usa-Ue sui bitcoin | Lo scenario

Le banche “sono perfettamente in grado di servire i clienti delle criptovalute a patto che comprendano e sappiano gestire i rischi”. Lo ha dichiarato giovedì 30 il presidente della Federal Reserve, Jerome Powell.

Solo due giorni prima, la Sec, sotto la guida del presidente ad interim Mark T. Uyeda, voluto dal capo della Casa Bianca Donald Trump, scrive MF-Milano Finanza, aveva abrogato la Sab 121, ovvero la norma contabile che imponeva alle banche di registrare gli asset digitali come passività nei propri bilanci.

Rimosso questo ostacolo, le banche Usa non hanno più problemi a custodire criptovalute per conto dei loro clienti.

Vale la pena ricordare che nel maggio 2024, l’allora presidente Joe Biden aveva posto il veto a un disegno di legge bipartisan che avrebbe revocato la Sab 121.

Ma con la vittoria di Trump alle elezioni presidenziali dello scorso 5 novembre, la musica è subito cambiata. D’altronde, in campagna elettorale, il futuro presidente aveva promesso di far diventare gli Stati Uniti la capitale mondiale delle criptovalute e sta agendo di conseguenza.

Così, uno dei suoi primi ordini esecutivi è stato quello di istituire un gruppo di lavoro per fornire chiarezza normativa su una serie di questioni riguardanti il settore cripto, tra cui “la potenziale creazione e il mantenimento di una riserva nazionale di asset digitali”.

Si tratta della famosa riserva strategica in bitcoin, da tempo caldeggiata dalla senatrice del Wyoming Cynthia Lummis, ovviamente repubblicana, che qualche mese fa ha depositato un disegno di legge per istituirla.

Secondo Lummis, il governo Usa dovrebbe acquistare 200.000 bitcoin all’anno (pari a poco più di 20 miliardi di dollari ai prezzi attuali) fino al 2030 per poi conservarli per 20 anni, riuscendo così a dimezzare il debito pubblico degli Stati Uniti.

Forse i conti non tornano, però il piano Lummis ha dato il via a una vera e propria corsa degli Stati Usa per istituire una loro riserva strategica in bitcoin.

Nel giro di pochi giorni sono stati messi sul tavolo disegni di legge in materia da ben 14 Stati: Pennsylvania, Florida, Texas, Ohio, Alabama, North Dakota, New Hampshire, Oklahoma, Massachusetts, Wyoming, Utah, Arizona, Illinois e Kentucky.

Le assemblee legislative chiamate per prime al voto dovrebbero essere quelle di Arizona e Utah.

Finora l’unico Stato al mondo ad avere una riserva strategica nella criptovaluta creata da Satoshi Nakamoto è El Salvador, con 6.049,18 bitcoin, equivalenti a circa 637,3 milioni di dollari.

C’è da dire che mercoledì 29 gennaio il parlamento salvadoregno ha approvato una riforma della legge sul bitcoin che ne revoca lo status di valuta legale, cedendo così alle pressioni del Fondo Monetario Internazionale in cambio di un prestito da 1,4 miliardi di dollari.

Pertanto non è più obbligatorio accettarlo come mezzo di pagamento. “Il bitcoin non ha avuto l’adozione che speravamo”, ha ammesso il presidente Nayib Bukele, che nel 2021 era riuscito ad adottarlo come valuta ufficiale accanto al dollaro Usa.

Ma El Salvador continuerà comunque ad accumulare bitcoin.

Il fenomeno non è limitato al continente americano. Anche in Europa, o meglio in quella parte che non adotta l’euro, c’è movimento: Norges Bank, la banca centrale norvegese, ha rivelato di detenere azioni MicroStrategy per un valore di 514 milioni di dollari.

La società di Michael Saylor è considerata un proxy del bitcoin in quanto ormai il suo scopo principale è quello di accumularne il più possibile: l’ultima acquisizione di 10.107 bitcoin per 1,1 miliardi di dollari ha aumentato le sue partecipazioni totali a 471.107.

Oltre a MicroStrategy, Norges Bank detiene anche 530 milioni di dollari in azioni Coinbase, la più grande borsa di criptovalute Usa quotata al Nasdaq, e ha un investimento minore in Metaplanet, una società giapponese che segue una strategia di accumulo di bitcoin simile a quella di MicroStrategy.

Sia pure indirettamente, la banca centrale norvegese è quindi esposta al bitcoin.

Ma il vero colpo di scena arriva da Praga, dove il comitato direttivo della Banca Nazionale Ceca ha deciso di accettare la richiesta del suo governatore, Ales Michl, di valutare la fattibilità e l’opportunità di attivare una riserva in bitcoin.

In un’intervista al Financial Times, Michl ha dichiarato che la banca centrale potrebbe arrivare a detenere in bitcoin fino al 5% dei suoi 140 miliardi di euro di riserve, il che si tradurrebbe in acquisti per 7 miliardi di dollari.

Pur ammettendo “l’estrema volatilità” del bitcoin, Michl ha messo in rilievo il forte interesse degli investitori da quando BlackRock e altre società di Wall Street hanno lanciato l’anno scorso gli Etf sulla criptovaluta.

«Per la diversificazione dei nostri asset, il bitcoin sembra una buona cosa», ha detto Michl, aggiungendo che “ero solito gestire un fondo di investimento, quindi sono un tipico banchiere d’investimento, a cui piace la redditività”.

Tutti d’accordo dunque? In una lettera agli investitori, l’hedge fund Elliott ha ammonito che il sostegno dell’amministrazione Trump alle criptovalute sta alimentando la speculazione e che “l’inevitabile crollo” della bolla cripto “potrebbe causare gravi danni in modi imprevedibili”.

Sembra pensarla così anche la presidente della Bce, Christine Lagarde, che nella sua ultima conferenza stampa ha detto che “l’opinione del Consiglio direttivo Bce è che le riserve delle banche centrali debbano essere liquide, sicure e libere da sospetti di riciclaggio di denaro sporco o altre attività illecite.

Questo mi rende fiduciosa che il bitcoin non entrerà nelle riserve di alcuna banca centrale dell’eurosistema”.

L’Oceano Atlantico sta diventando sempre più largo.

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