Dopo l’aggressione di Mosca all’Ucraina, il ponte dell’energia tra la Russia e l’Unione europea, un tempo solido e poggiato su fondamenta costruite fin dai tempi della guerra fredda e in grado per oltre settant’anni di resistere a qualsiasi tempesta geopolitica, si è ridotto a un rudere.
Riceviamo ancora gas russo, scrive Il Sole 24 Ore, ma a forza di tagli (in parte voluti e in parte subiti) Gazprom è ormai un fornitore residuale, di cui puntiamo a liberarci del tutto: dominava il mercato Ue con una quota che era arrivata a superare il 40%, mentre oggi copre appena il 7,5% delle importazioni, scalzata dai concorrenti norvegesi, nordafricani e soprattutto dal Gnl, che per la maggior parte arriva dagli Stati Uniti. Quanto agli altri combustibili, abbiamo già interrotto quasi del tutto gli acquisti con l’imposizione di un embargo che risparmia (in virtù di esenzioni temporanee) solo modesti volumi di petrolio destinati ad alcune raffinerie centro europee.
Il divieto di importare carbone russo è in vigore fin dall’agosto 2022, lo stop al greggio – cui era più difficile rinunciare – è intervenuto il 5 dicembre: oggi da Mosca arrivano non più di 600mila barili al giorno, un quarto di quanto eravamo soliti acquistare in precedenza, ed è previsto che i volumi si azzerino entro il prossimo anno. Il 5 febbraio è intanto scattato anche l’embargo ai prodotti petroliferi, come il gasolio (per cui Mosca soddisfaceva addirittura al 60% delle importazioni). E ora la Commissione Ue sta valutando la messa al bando dell’uranio russo, impiegato nelle centrali nucleari: l’ennesimo colpo di piccone a un ponte energetico che sta inesorabilmente crollando.