Perché Donald Trump scatena la guerra dei dazi senza nemmeno avviare un negoziato e nonostante quasi tutti, anche a destra — dal Wall Street Journal agli economisti e ai think tank conservatori — lo avvertano che danneggerà l’economia americana tra ripresa dell’inflazione e gelata del commercio?
Si possono formulare tre ipotesi, scrive sul Corriere della Sera Massimo Gaggi.
La prima ipotesi è quella dell’abbaglio storico-economico: il sogno di sostituire le tasse a carico degli americani con i dazi pagati dagli esportatori stranieri.
Il suo ministro del Commercio, Howard Lutnick, vorrebbe tornare a inizio Novecento quando bastavano i dazi a coprire la spesa federale. Non è possibile.
Trump sa che rischia di creare inflazione e di frenare l’economia: avverte che all’inizio ci saranno difficoltà, ma si dice fiducioso che i suoi elettori capiranno e stringeranno i denti.
Quanto agli effetti negativi sulla crescita, conta di neutralizzarli con nuovi sgravi fiscali e un’ulteriore riduzione dei vincoli per le imprese.
Una seconda interpretazione (parzialmente sovrapponibile alla prima) è legata alla concezione di Trump della politica in termini non di cooperazione multilaterale, ma di affermazione della leadership americana attraverso l’uso della forza soprattutto economica.
Purtroppo dobbiamo considerare anche una terza ipotesi, ancor più radicale. L’ipotesi è che Trump, studiato da tempo il modo di governare in modo autoritario eliminando i vincoli che l’hanno frenato nel suo primo mandato, stia imponendo su tutti i fronti cambi di paradigma per affermare il potere assoluto dell’esecutivo, ignorando le leggi del Congresso (e, in qualche caso, la Costituzione), usando a sproposito poteri emergenziali, tastando il terreno per vedere fin dove può spingersi — all’interno e all’estero — senza incontrare grandi resistenze.