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Il lungo scontro Usa-Cina | L’analisi di Federico Rampini

Attribuire la crescente tensione tra Stati Uniti e Cina alle sole scelte di Donald Trump – avverte Federico Rampini sul Corriere della Sera – significa dimenticare i capitoli precedenti.

Molto più aggressivi dal lato cinese: dal Covid al pallone spia sui cieli d’America. E segnati da un consenso bipartisan sul fronte statunitense.

Ieri Trump ha bloccato le vendite di microchip Nvidia suscettibili di servire ai supercomputer cinesi: con quella decisione ha prolungato una politica di embargo sulle tecnologie avanzate che era stata perseguita dal suo predecessore democratico Joe Biden.

La questione dei macro-squilibri commerciali — la strategia mercantilista con cui la Repubblica Popolare ha accumulato avanzi sempre più colossali — è solo un pezzo del problema cinese visto da Washington.

La revisione in senso critico cominciò dieci anni fa verso la fine del secondo mandato di Barack Obama, non a caso. Fu nel 2015 che Xi Jinping svelò la sua strategia “Made in China 2025”: si proponeva di sostituire l’America nella leadership di tutte le industrie strategiche e tecnologie avanzate, per accerchiarci dal basso e dall’alto, surclassandoci sia nella competizione sui costi sia nella qualità.

E quando da una fabbrica cinese esce un’auto elettrica che non sfigura nel confronto con la Tesla, e costa meno, il cerchio si è chiuso.

I democratici Usa sotto Obama e Biden si erano convinti di dover reagire, perciò la sinistra americana pullula di “falchi” anti-cinesi quanto l’entourage di Trump.

Anzi, è proprio nel partito degli Obama e dei Biden che la strategia di contenimento di Pechino è stata arricchita sul versante geopolitico: con la costruzione di alleanze tra democrazie dell’Indo-Pacifico (Quad e Aukus), con i ripetuti avvisi lanciati a Xi contro l’annessione violenta di Taiwan.

Oggi la guerra dei dazi ha creato un’atmosfera inedita. L’antipatia verso Trump è a livelli tali, che molti europei tifano per un’alleanza Ue-Cina, sperando che questa serva a dare una lezione al “bullo” americano.

Essendo fresco reduce da un viaggio in Giappone, posso testimoniare che a Tokyo non ho trovato una simile tentazione: allarme e condanna per le mosse di Trump, questo sì, soprattutto nel mondo industriale; ma non al punto da dimenticare che la Cina rappresenta una minaccia superiore.

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