Giorgio Ferrari, su Avvenire, definisce “dolce-amara” la notizia che Trump e Putin hanno concordato di dare avvio ai negoziati di pace sull’Ucraina per chiudere al più presto la buia pagina di lutti e di orrore che da tre anni insanguina l’Europa.
“Dopo centinaia di migliaia di morti, di cinici sacrifici di carne da cannone, ecco che i due grandi signori della guerra finalmente decidono di intendersi. Parleranno di negoziati, di pace, di nuovi assetti. Dietro i quali si nasconde, ma neppure tanto, il bottino che entrambi già intravedono: terre nuove per la Santa Madre Russia (Donetsk, Lukansk, Mariupol), terre rare, intese come i preziosi gioielli della tecnologia futura, per Washington: 500 miliardi di controvalore, quanto basta per pareggiare i conti e far fruttare quei 174 miliardi di dollari finora spesi dall’America per sostenere Kiev. ‘Do ut des’, secondo la logica mercantilistica di Trump. ‘Do ut des’, secondo il neo-imperialismo putiniano, che in cambio della pace proseguirà quell’accaparramento di terre iniziato con l’annessione della Crimea del 2014 e prima ancora con la Georgia nel 2008.
Dolce-amara, dunque, la telefonata tra Putin e Trump. L’amarezza, non occorre dirlo, alberga nella totale assenza dell’Europa, nella sua documentata irrilevanza, nella plateale esclusione, la stessa riservata per ora a Volodymyr Zelensky, dalle trattative di pace. Qualcuno già chiama opportunamente “crepuscolo transatlantico” questo cruciale cambio di passo nelle relazioni fra le due sponde dell’oceano. L’importante è che l’Europa se ne renda conto, che il sonno dogmatico nel quale era assopita fino ieri si trasformi nella consapevolezza che occorrono visioni e modalità nuove per dialogare con l’amico americano. Sempre che sia ancora un amico”.