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[L’intervento] Francesco Saverio Marini (professore Diritto Pubblico Università Roma Tor Vergata): «Ecco i limiti della proposta governativa sul CSM»

Il Governo, dopo una lunga gestazione, ha approvato una ampia e complessa proposta emendativa del disegno di legge c.d. “Bonafede” sulla giustizia. Rispetto agli obiettivi, più volte affermati in ambito politico-istituzionale, di combattere le degenerazioni del correntismo e del carrierismo, l’emendamento governativo, al pari dell’originario disegno di legge, rischia di essere scarsamente efficace e, in alcuni punti, appare addirittura peggiorativo.

L’impressione è che il testo sia il frutto di un faticoso lavoro di mediazione, che, come talvolta accade, ha finito per scontare qualche eccessiva timidezza e per sacrificare l’esigenza principale di questo intervento normativo, che dovrebbe essere quella di realizzare un recupero di autorevolezza e di legittimazione della magistratura, dopo le note vicende che hanno caratterizzato il CSM.

È presto ovviamente per esprimere una valutazione definitiva, sia perché si tratta di un disegno di legge e quindi occorrerà attendere le auspicabili modifiche parlamentari; sia perché è una legge delega, caratterizzata in alcuni passaggi da principi e criteri direttivi generici, e si dovranno dunque attendere i futuri decreti legislativi; sia, infine, perché in molte disposizioni è prevista la possibilità di introdurre non meglio definite deroghe ed eccezioni, che bisogna vedere come verranno declinate.

Quanto al problema della politicizzazione della magistratura la sensazione è che ci si è concentrati sul dito e si è persa di vista la luna. Mi riferisco al tema delle porte girevoli, cioè al divieto per i magistrati che assumono incarichi elettivi o che lavorano come gabinettisti di ritornare a svolgere, temporaneamente o per sempre, le funzioni magistratuali.

Nel merito non può certo scandalizzare che una norma imponga ai magistrati di svolgere esclusivamente l’attività giurisdizionale, ma la soluzione, nella parte in cui è riferita agli eletti, suscita qualche perplessità di ordine costituzionale, visto che la Costituzione prevede che chi è chiamato a svolgere funzioni pubbliche elettive ha diritto di conservare il suo posto di lavoro.

E nel caso del magistrato il posto di lavoro non può che riferirsi anche alle funzioni che svolgeva prima di assumere la carica elettiva: in altri termini, quello che il Costituente vuole scongiurare non è solo che l’eletto rimanga senza lavoro o venga licenziato, ma anche che non abbia alcun danno nella sua carriera. Perdere la possibilità di svolgere funzioni giurisdizionali è evidente che incide sulle funzioni e sulla carriera del magistrato, che in questo senso non conserva il proprio posto di lavoro, ma solo il proprio trattamento retributivo.

Ovviamente la conservazione non impone che la diversa funzione svolta possa valere ai fini dell’anzianità: se si vuole, cioè, disincentivare il sistema delle “porte girevoli”, almeno per le “cariche elettive”, una possibile soluzione potrebbe essere quella di non considerare gli anni svolti fuori dalla magistratura ai fini della progressione di carriera.

Più a monte non credo che il problema della politicizzazione della magistratura sia solo, e forse nemmeno principalmente, quello dell’indipendenza esterna (problema che al più riguarda un numero contenuto di magistrati), bensì quello dell’indipendenza interna e, in particolare, delle degenerazioni del correntismo e del carrierismo. La questione principale, cioè, non è, o quantomeno non è soltanto, il rapporto tra i magistrati e gli organi parlamentari o di governo, ma soprattutto il rapporto tra i magistrati e quella sorte di associazioni partitiche, chiamate correnti, interne alla magistratura: correnti che hanno la forza di condizionare l’intera vita professionale di tutti i magistrati.

Su questo aspetto, il tema politicamente tra i più caldi sul quale la proposta governativa interviene è il sistema elettorale della componente togata del CSM. Rispetto all’obiettivo di limitare il peso delle correnti, la proposta è molto deludente; anzi potrebbe addirittura risultare peggiorativa rispetto alla disciplina vigente.

Anzitutto, non è stato previsto il sorteggio misto che, a mio avviso, rappresenterebbe, a Costituzione vigente, l’unico sistema per indebolire il gioco correntizio e che non suscita, a mio avviso dubbi di costituzionalità. È un sistema finalizzato a garantire l’imparzialità e l’obiettività delle scelte, specialmente laddove, come nel caso di specie venga applicato ad una categoria di persone omogenea, qualificata e selezionata per concorso, come sono i magistrati. La Costituzione prevede, infatti, che vi sia un’elezione, ma nulla impone sulle modalità della stessa o sulla quantità e qualità degli eleggibili. Del resto, se fosse vero il contrario dovrebbero considerarsi incostituzionali anche le norme, in vigore da oltre 60 anni e confermate nell’attuale proposta governativa, che prevedono limitazioni all’elettorato passivo, ad esempio per i magistrati che abbiano meno di tre anni di anzianità nella qualifica.

Va poi rilevato che la proposta di introdurre un sistema in parte maggioritario (a carattere binominale) in parte proporzionale, con addirittura meccanismi di recupero proporzionale, si muove in una logica di riconoscimento giuridico e di consolidamento delle correnti. Vero è, infatti, che è prevista la possibilità di una candidatura individuale, ma si tratta di un’ipotesi quasi di scuola, perché è evidente che il recupero proporzionale consente, anche attraverso metodi elusivi come la presentazione di “liste civetta”, di beneficiare del meccanismo solo alle organizzazioni radicate nel territorio e, dunque, alle correnti.

Invece, cioè, di combattere e, possibilmente, di smantellare il sistema correntizio, ci si è limitati a tenerlo in equilibrio tra le varie correnti. E alla stessa logica sembra rispondere anche la decisione di incrementare il numero dei componenti dell’organo, che già oggi potrebbe risultare ipertrofico. Decisione che peraltro appare in controtendenza rispetto ad una significativa riduzione del numero dei parlamentari e che sembra, appunto, giustificarsi solo con l’esigenza di tenere in equilibrio le varie anime magistratuali.

Nella stessa prospettiva, ma sotto il profilo funzionale, meriterebbe un’attenta riflessione la scelta di conservare il criterio dell’anzianità come criterio residuale, applicabile solo a parità di valutazione del merito. Quando sono entrato nel Consiglio di Presidenza della Corte dei conti, ero fermamente convinto, in ragione della mia esperienza all’Università, dell’opportunità di far leva sulla meritocrazia anche nella magistratura.

Dopo tre anni di esperienza ho più di qualche dubbio: nelle valutazioni dei magistrati è oggettivamente molto difficile far emergere il merito, così che spesso finiscono per prevalere altre logiche, per lo più correntizie, che poco hanno a che fare con il merito. Una valorizzazione del criterio dell’anzianità, eventualmente salva valutazione di demerito, potrebbe allora rappresentare un viatico per eliminare il peso delle correnti e circoscrivere la discrezionalità del CSM.

Apprezzabile è, invece, la proposta dell’art. 3 di valorizzare l’apporto dei componenti non togati dei Consigli giudiziari, che essendo soggetti esterni possono assicurare, meglio delle componenti togate, autonomia di giudizio. Si comprende, altresì, la scelta del voto unitario della componente degli avvocati, per evitare che il singolo avvocato possa condizionare i magistrati, ma si potrebbe immaginare che il voto pur unitariamente espresso abbia un peso corrispondente al numero degli avvocati che compongono il Consiglio.

Del tutto insufficienti, invece, in quanto meramente accennate e sostanzialmente ai margini dell’intervento normativo, risultano le altre misure introdotte dalla proposta governativa su aspetti fondamentali: ci si riferisce al tema delle funzioni del CSM (come quelle che riguardano il potere regolamentare o i pareri non richiesti agli organi politici) o alla questione del livello di discrezionalità delle scelte del CSM nelle procedure comparative o, ancora, al problema della separazione delle carriere o della responsabilità dei magistrati.

Su questi ultimi aspetti potrebbero intervenire i quesiti referendari, ma è evidente che solo il legislatore potrebbe e dovrebbe sciogliere uno dei nodi istituzionali che è alla base dei fenomeni degenerativi della magistratura, che è quello della qualificazione del CSM come organo di indirizzo politico della magistratura o, come sembra più in linea con il modello costituzionale, come mero organo di alta amministrazione.

Un ultimo aspetto di carattere generale riguarda il fattore temporale. Anzitutto, appare alternativamente velleitario o semplicistico immaginare che i due rami del Parlamento possano adeguatamente discutere e trovare una sintesi su tale pluralità di temi, per lo più complessi, politicamente sensibili e a carattere ordinamentale, in pochissimi mesi e con l’approssimarsi di una votazione referendaria che potrebbe incidere significativamente sulla riforma della magistratura. Andrebbe, cioè, coordinata la tempistica della riforma con la durata del Consiglio Superiore della Magistratura, perché è impensabile rinnovare l’organo senza aver prima approvato la riforma in itinere.

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