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Cecilia Alemani (curatrice Biennale Arte 2022): «Dalla crisi nascono nuovi linguaggi d’arte, adesso è tempo di ascolto»

“In questi momenti di grande crisi, nascono dei linguaggi artistici interessantissimi come la storia della Biennale, di questa mostra, racconta”. Cecilia Alemani sembra correre lungo le sale di “Le muse inquiete” al Padiglione centrale dei Giardini, tanto pare il desiderio quasi di gustare direttamente ogni momento della prima mostra della Biennale in epoca Covid19.

È una esposizione che l’ha vista nel ruolo di coordinatrice, in dialogo a distanza, a causa della pandemia, con gli altri cinque direttori per un progetto che vede in campo assieme le sei discipline e l’Archivio della Biennale come “settima musa”, in attesa di poter firmare l’esposizione d’arti visive slittata nel 2022. C’è la speranza nei prossimi mesi di poter ricominciare a vedere mostre e studi, di dialogare con gli artisti senza le distanze fisiche, non un metro ma spesso migliaia di chilometri, imposte dalla pandemia. C’è il desiderio di poter impostare una mostra, la sua mostra tra due anni, “da vedere”.

“Voglio – dice – usare questo tempo per ascoltare, aspettare, guardare come gli artisti stessi assorbono questi cambiamenti, queste trasformazioni radicali del mondo, e guardare a loro come la bussola dove andare. Invece di dire voglio fare una Biennale che racconti la pandemia, penso sia più interessante chiedersi è davvero una cosa che interessa agli artisti? Come la stanno digerendo”.

“Bisogna stare un po’ attenti perché penso nessuno voglia vedere la Biennale del Coronavirus”. “Non ho un progetto di mostra già chiaro”, rileva indicando però che centrale per lei nella costruzione di una esposizione “è quello che interessa agli artisti”. Ci possono così essere, ad esempio, le proteste razziali in America, “ma non voglio fare una Biennale che racconti quello. La Biennale deve rappresentare quelli che sono il desiderio, il linguaggio degli artisti, non necessariamente quello che succede nel mondo. Ci sarà sempre un artista che parla di quello che succede e a quel punto, attraverso la lente dell’artista, penso che sia ovviamente importantissimo riflettere anche su quello che succede a livello climatico, politico sociale, però c’è sempre un po’ il rischio di fare la Biennale telegiornale”.

“Quello che questa mostra mi ha aiutato molto a capire – dice – è la connessione, la successione delle Biennali non come enti completamente a parte, esperienze individuali, ma di leggerle in una successione temporale, non dico necessariamente strategica o politica come quelle di Ripa di Meana, e di guardarle come riflesso dei tempi in cui viviamo. Sia di quello che succede nel mondo sia di quello che avviene internamente alla Biennale”.

“L’attenzione alla storia che abbiamo dato a questa mostra – spiega – è una immagine di ciò che succederà molto negli artisti di adesso, cioè volgersi al passato per andare avanti e per imparare da eventi come la crisi del ’68, se vogliamo paragonarla a ciò che avviene in America da angolazioni diverse, ma sono dinamiche molto simili. Penso che gli artisti guardino molto di più alla storia adesso per imparare come si può plasmare il futuro. Voglio immaginare che la storia, uno sguardo storico sarà anche una metodologia importante nella produzione artistica”.

Ci saranno nuovi linguaggi per l’arte? “Immagino – risponde – che l’isolamento legato al lockdown produrrà delle opere più intimistiche, più personali. Improvvisamente ti rendi conto anche degli sprechi giganti nell’arte, nella cultura e immagino che ci sarà anche un riflesso nella produzione, non so dire ancora in che modo. Come sempre ci sono gli estremi: c’è quello più intimo, più modesto, e ci sarà anche l’artista che cercherà lo scandalo. A livello creativo è tutto molto interessante”.

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