Analisi, scenari, inchieste, idee per costruire l'Italia del futuro

[L’intervento esclusivo] Sergio Castellari (Primo tecnologo INGV): «Quando un evento estremo incontra un territorio vulnerabile avviene il disastro. In fumo 12 miliardi l’anno per 40 anni»

Sergio Castellari, Primo tecnologo INGV, esperto di clima e ambiente come Rappresentante Permanente dell’Italia alle Nazioni Unite, ha rilasciato delle dichiarazioni in esclusiva all’Osservatorio Economico e Sociale Riparte l’Italia in occasione del webinar online, dal titolo “Il clima che cambia, politiche di mitigazione e adattamento”. L’evento è stato moderato da Antonello Barone, ideatore del Festival del Sarà, e ha visto come ospite anche Marina Vitullo, funzionaria ISPRA; Emanuele Peschi, funzionario ISPRA.

Interviene da New York Sergio Castellari, che ci introduce rispetto a quella che è la situazione di quotidiano disastro ambientale che vediamo sui nostri territori. E per capire anche che tipo di lezione ci ha lasciato la pandemia.

«Vorrei iniziare a parlarvi di disastri ambientali. Gli eventi estremi – ad esempio alluvioni, ondate di calore, siccità – possono creare dei disastri. Ma quand’è che si creano dei disastri? Si creano quando c’è un territorio vulnerabile, che non ha molta capacità di resilienza, non ha capacità adattive. Una città che si trova vicino a un fiume, se questo fiume non ha spazio per potersi espandere quando c’è un’inondazione, o quando non ci sono sistemi di allerta per le ondate di calore».

«Quando un evento estremo incontra un territorio altamente vulnerabile, poco resiliente e preparato ad anticipare questi impatti, si crea un disastro che ha dei costi economici, che sono diretti e indiretti. Quelli diretti sono i danni principali, che avvengono nei primi giorni di un disastro. Sono stati fatti vari studi da progetti europei per cercare di stimare a livello europeo le perdite economiche. Sicuramente negli ultimi 40 anni – i dataset partono più o meno dal 1980 – abbiamo un aumento delle perdite economiche. In Europa, tra le perdite economiche dirette, abbiamo perso circa 500 miliardi di euro. E facendo la media siamo sui 12 miliardi di euro all’anno. Quindi una cifra notevole come perdite economiche dirette».

«Le perdite economiche più alte in questi 40 anni si sono avute in Germania, in Francia e, purtroppo, anche in Italia. La cosa importante da notare, questo si è visto in vari studi europei ed è stato anche comunicato dall’agenzia europea per l’ambiente a Copenaghen, meno di un terzo, circa il 20% di questi asset che hanno subito dei disastri era assicurato. Questo è un problema, perché crea un gap nella protezione dai disastri climatici dagli eventi estremi climatici. Ad esempio, nel nostro Paese noi abbiamo una percentuale – guardando i dataset dell’agenzia dell’ambiente – circa su 4-6% dei nostri beni che hanno subito dei disastri sono stati assicurati in questi 40 anni».

«Sicuramente questo ci fa già capire una via di azione: dobbiamo cercare di sviluppare dei nuovi meccanismi pubblici e privati per assicurare. Questo può anche portare a un’educazione, a un aumento della consapevolezza, sia nei costruttori di edifici, sia a livello di urbanizzazione, ma anche a livello di utenti, che quando comprano le case cercano di capire bene dov’è che si costruiscono, cercando di capire come l’assicurazione può aumentare ad esempio se si compra una casa in una zona pericolosa oppure no».

«L’altra cosa importante – qui ho fatto una somma di tutti i rapporti europei che sono stati pubblicati negli ultimi anni sulle perdite economiche – negli ultimi 100 anni, abbiamo avuto un aumento di più di un grado a livello di temperatura medio-globale. Bene, senza un adattamento ben efficace e ben pianificato, se questa temperatura arriverà sui 3 gradi si potrebbe arrivare a una perdita annua di 170 miliardi di euro. Stiamo parlando di una cifra molto alta rispetto a quello che si è perso negli ultimi 40 anni».

«A livello italiano, i colleghi del Centro euro-Mediterraneo per i Cambiamenti Climatici hanno pubblicato due anni fa un rapporto sull’analisi del rischio e i cambiamenti climatici in Italia, dove hanno anche cercato di stimare i costi degli impatti per vari tipi di scenari climatici. Sono, quindi, modelli climatici dove si presuppone una maggiore o minore riduzione delle emissioni globali e clima alteranti, e quindi un maggiore aumento della temperatura medio-globale, quindi una magigore incidenza di impatti nel territorio italiano.

«Se la temperatura aumenta e va fra i 2-5 gradi entro la fine del secolo potremmo perdere anche l’8% del nostro Pil pro capite. Queste sono stime che hanno sicuramente una certa incertezza, però ci fanno capire da una parte quanto è importante la mitigazione, quindi l’eliminazione delle cause, ma dall’altra anche l’aumento della resilienza e la prevenzione del rischio climatico».

«L’Italia, è stato già detto, è un Paese vulnerabile, dentro l’area Mediterranea che è un hotspot in cui gli impatti sono molto gravosi e possono creare dei danni anche, economicamente parlando, molto costosi. Abbiamo già una maggiore frequenza di incendi boschivi, maggiore rischio idrogeologico, impatti sulla produzione agricola, più frequenti periodi di siccità – ad esempio, ricordo l’estate del 2017, con una riduzione delle piogge di circa il 50%.  Ma anche meno acqua disponibile, maggiore richiesta di consumo di energia, perché si avranno estati sempre più calde, con maggiore frequenza di ondate di calore, intense e poi chiaramente questo può produrre degli effetti a catena sulla salute umana, in particolare sulle componenti più deboli della popolazione, anziani, bambini o quelli che hanno malattie cardio-respiratorie».

«Che cosa impariamo dalla crisi del Covid? Bene, io ho voluto mettere come spunto di riflessione la crisi del Covid perché questa crisi, che sta ancora finendo, ci ha sicuramente insegnato alcune cose. Si è visto per la prima volta come la comunità scientifica aveva la leadership su certi temi. Si è capito che è importante ascoltare il sapere scientifico, e anche ascoltare i cittadini. Questo ha fatto capire anche un aumento di consapevolezza dei cittadini rispetto al rischio. Si sono sentite due parole che, a mio parere, non si sentivano in Italia prima del 2020: la parola resilienza e la parola prevenzione».

«Adesso direi che purtroppo questa crisi pandemica ha fatto entrare queste due parole nel linguaggio comune del cittadino italiano. Si è capito che essere resilienti a un rischio sanitario, ma anche a un rischio climatico, è importante. Questo ci permette di condurre una vita in maniera più accettabile. Questo tipo di cultura (del rischio, della resilienza, della prevenzione, della ripresa, del recupero) è necessaria per affrontare anche il rischio climatico».  

Quali sono le politiche di adattamento che gli Stati devono adottare affinché questo dramma del cambiamento climatico non possa essere fermato, ma almeno gestito.

«Voglio parlare dell’adattamento, che è l’altra maniera per lottare contro i cambiamenti climatici. Da una parte abbiamo la mitigazione, quindi l’eliminazione delle cause, ma dall’altra c’è anche un’inerzia nel sistema clima. Impatti che noi viviamo adesso sono creati dalle emissioni degli anni passati. Stiamo ancora emettendo, quindi dobbiamo immediatamente pensare a politiche e azioni di livello nazionale. Qua ho fatto una lista delle principali azioni di adattamento, per spiegare che cosa vuol dire».

«Vuol dire usare in maniera più efficiente le risorse idriche. Avremo meno acqua nel futuro, avremo meno risorse idriche in Italia – e questo lo mostrano tutti i modelli climatici – quindi dobbiamo cercare di gestirla bene, cercare di pensare che nel futuro ne avremo meno. Dobbiamo adeguare le norme edilizie. Il settore dell’edilizia è un settore emissivo. Nello stesso tempo dobbiamo anche adattarci nella maniera giusta, che possa produrre anche dei benefici per la mitigazione. Dobbiamo costruire delle difese alle inondazioni, alle mareggiate. Si può lavorare in maniera ecosistemica, usando la natura, o si può lavorare anche costruendo delle barriere artificiali».

«Sviluppo o cambiamento di colture. Avere colture che sono meno idroesigenti, che hanno bisogno di meno acqua, sapendo che avremmo in Italia meno risorse idriche disponibili tra qualche decennio. E chiaramente, quello che viene chiamato “adattamento soft” è quello di policy, cioè costruire delle strategie, dei piani di adattamento locale, regionale e nazionale. Come siamo messi a livello europeo? Abbiamo avuto due strategie europee. La seconda, aggiornamento della prima, è uscita proprio l’anno scorso nel 2021. Ed è una strategia che tiene già conto delle azioni che sono state fatte a livello nazionale e regionale nei Paesi europei».

«Tutti e 27 i nostri Paesi membri europei hanno una strategia nazionale di adattamento, anche l’Italia. Questa strategia si concentra su tre concetti fondamentali.  L’adattamento più intelligente, che significa finanziare ancora di più la ricerca. Cercare di acquisire ancora più conoscenza sugli impatti, sul concetto di rischio, sulla probabilità settoriale, intersettoriale, a lungo medio e corto termine. L’adattamento più sistemico, poiché certe volte non ci si può adattare solo in un settore, ma dobbiamo in realtà rivoluzionare e ripensare la città. Cercare di sviluppare la rigenerazione urbana di certe zone della nostra città per renderle più resilienti, ma anche meno emissive. Questo porta a quello che viene detto “adattamento trasformazionale».

«Poi abbiamo l’adattamento più rapido. Il cambiamento climatico in poche centinaia di anni ha già creato degli aumenti di temperatura, dei cambiamenti del regime idrico e degli impatti nel territorio. Il cambiamento è rapido e dobbiamo anche essere noi rapidi nel prevenire il rischio climatico. In questa strategia viene definita l’importanza dell’Europa, che non è isolata, ma è in un contesto, in parte mediterraneo, in parte nordeuropeo e polare, quindi dobbiamo assolutamente cercare di sviluppare maggiori azioni internazionali anche di supporto nei Paesi vicini nel campo dell’adattamento. Nel bacino mediterraneo, ad esempio, il Nord Africa. Questa strategia punto, rispetto a quella passata, proprio perché sono stati condotti più di una decina di progetti europei molto importanti finanziati dalla Commissione europea e dal direttorato generale per la ricerca e l’innovazione, proprio nel campo delle soluzioni ispirate alla natura».

«Dieci anni fa se ne parlava poco. Alcuni Paesi erano più avanzati, sto pensando all’Olanda, con il suo programma terminato qualche hanno fa che si chiamava “Room for river” (spazio per il fiume), con lo scopo di permettere di creare delle piane alluvionali che permettevano di poter gestire meglio le esondazioni dei fiumi. Le soluzioni ispirate alla natura riescono ad affrontare tre problematiche fondamentali. Da una parte l’adattamento, con cui cercano di ridurre il rischio di disastri, dall’altra preservano la biodiversità e il degrado degli ecosistemi, e nello stesso tempo cercano anche di essere socioeconomicamente efficienti ed efficaci. Sono soluzioni win-win, che producono dei benefici in molti settori».

«Le soluzioni principali ispirate alla natura sono diverse, come i classici edifici verdi, che da parte permettono di usare meno aria condizionata, che se sprodotta ancora da combustione di combustibili fossili può produrre emissioni di gas serra. Quindi da una parte abbiamo adattamento ma anche mitigazione. Abbiamo il recupero delle piane alluvionali, che possono essere state distrutte negli anni e bisogna cercare di recuperare come è stato fatto in Olanda, dare spazio ai fiumi. Dall’altra le piane alluvionali urbane, io ho vissuto per anni a Copenhagen, che come tante città del nord hanno già iniziato a costruire da anni spazi che permettono la raccolta d’acqua quando si hanno delle mareggiate o delle inondazioni urbane, ma anche un uso dell’acqua per altri scopi per i cittadini».

«A livello europeo, quello che adesso ci ha dato una grande spinta, è il contesto del Green Deal, che è sicuramente una grande road map, che ha molti obiettivi, non soltanto la resilienza. Abbiamo l’obiettivo fondamentale e molto ambizioso di diventare resilienti ai cambiamenti climatici. Che significa cercare di gestire in maniera efficace, con danni socioeconomici ridotti gli impatti dei cambiamenti climatici entro il 2050. Ma allo stesso tempo, proprio perché la lotta ai cambiamenti climatici e alla biodiversità, che è collegata con il cambiamento, è una lotta unica, il Green Deal è l’unico road map a livello mondiale che ha questi multiobiettivi, anche di arrestare la perdita di biodiversità, ripristinare gli ecosistemi, raggiungere zero emissioni nette entro il 2050. Ma anche ridurre l’inquinamento».

«Pensiamo a quella viene definita la crisi triplice: inquindamento, biodiversità e cambiamenti climatici. Il Green Deal dell’Unione Europea, in anticipo su tanti altri Paesi, affronta questa triplice crisi in maniera efficace e speriamo che tutti i Paesi membri in questi anni riescano ad attuare tutte queste azioni entro il target del 2030 e poi del 2050. Abbiamo a livello europeo dei supporti molto importanti. Nell’Agenzia europea per l’Ambiente a Copenhagen abbiamo la Climate-Adapt, che ormai esiste da 10 anni, ed è la piattaforma europea sull’adattamento, che fornisce tutorial, supporto tecnico, per i comuni, le Regioni e le Nazioni su coem agire a livello di adattamento».

«Ci sono due strumenti molto importanti, che è la Adaptation Support Tool, per costruire una strategia o un piano che può essere comunale, regionale, nazionale e nello stesso tempo applicato a livello urbano. È diventata ormai la piattafroma europea più importante e più utilizzata dagli utenti per cercare di pianificare e attuare azioni di adattamento. In Italia come siamo messi? Sicuramente il Pnrr darà una spinta alle azioni di adattamento oltre che a quelle di mitigazione. Sappiamo che in Italia la strategia nazionale di adattamento fu adottata nel giugno del 2015, la strategia nazionale forniva una visione strategica negli anni su come agire, aveva definito i settori di azione e anche l’importanza dell’azione intersettoriale».

«Questa strategia presupponeva un piano nazionale, quindi un’attuazione almeno di alcune azioni settoriale e intersettoriali evidenziate in varie scale temporali dalla strategia nazionale, con una dotazione di risorse. Ecco, il piano nazionale è un po’ in ritardo e ancora in elaborazione. Abbiamo anche una piattaforma nazionale sull’adattamento, quindi diciamo una piattaforma tipo quella di Climate-Adapt, ma a livello nazionale, che però è ancora in va di elaborazione. Abbiamo però delle azioni concrete, già in atto, abbiamo un piano nazionale di interventi per la mitigazione del rischio idrogeologico, abbiamo un piano di riforestazione urbana, quindi soluzioni ispirate alla natura, che sono state anche dimostrate a livello europeo come quelle più efficaci in certi contesti a lungo termine, perché non richiedono degli aggiornamenti. Come potrebbe essere invece per una barriera artificiale per un’esondazione, dove la barriera deve essere rialzata comportando ulteriori costi».

«Abbiamo un programma sperimentale di intervento per l’adattamento ai cambiamenti climatici in ambito urbano. Come sappiamo, la maggior parte dei cittadini italiani vive in città piccole, non abbiamo grandi metropoli eccetto sei o sette città. Questo programma è indirizzato sulle ondate di calore, sugli eventi di precipitazioni estreme, di siccità, per le città con popolazione uguale o superiore ai 60mila abitanti. Questo è budget notevole. È un tipo di finanziamento per i tre tipi di azione e interventi green, quindi soluzioni ispirate alla natura, interventi più infrastrutturali e interventi di politiche e di misure».

«L’altra cosa a cui tengo molto è l’Agenzia Italiameteo. Fino all’anno scorso non avevamo ancora un’agenzia di previsioni meteorologiche a livello nazionale. È nata con un decreto del 2017 ed è partita l’anno scorso. Quest’agenzia dovrebbe coordinare tutte le realtà operative della meteorologia e della realtà osservativa a livello meteoclimatico. Tutto questo può servire perché può creare una governance più efficace dei dataset che abbiamo in Italia, che sono poi la base per costruire delle analisi del rischio e governabilità del nostro territorio. Come possiamo pianificare quest’azione di adattamento? Con strategie e piani».

«L’adattamento sembra semplice, un po’ di costruzioni infrastrutturali oppure fare un po’ di parchi. In realtà richiede sempre una riflessione, di tipo socioeconomica, sulla gestione degli ambienti urbani, a corto medio e lungo termine. È importante cercare di capire gli aspetti intersettoriali, ad esempio, se si lavora sulle siccità, sappiamo che può creare dei danni alle risorse idriche, ma anche di inquinamento, l’aumento dell’ozono atmosferico negli ambienti urbani e anche dei danni alla salute. Ma anche dei danni ai bene culturali. Questi sono impatti a cascata che richiedono sicuramente una governance molto molto intelligente».

«Quello che dobbiamo cercare di fare in Italia, visto che abbiamo una struttura nazionale basata su regioni, è aumentare la nostra efficacia a livello di governance verticale, ma anche orizzontale. Deve essere definito per ogni città e Regione il livello accettabile di rischio, che riusciamo a gestire ad esempio con delle soluzioni quasi a zero costo, uso più efficace delle risorse idriche, e invece soluzioni che richiedono delle riflessioni, come la rigenerazione urbana, un adattamento trasformazionale che trasformi alcuni contesti in maniera sostanziale, ad esempio a livello urbano».

«Dobbiamo anche ragionare, e questo si sta già facendo anche qua in Italia – anche se si è iniziato chiaramente prima nel Nord Europa in Paesi come la Danimarca, la Finlandia e i Paesi Bassi – sul concetto della resilienza dei servizi sociali. Se dobbiamo cercare di evitare o ridurre il danno creato da un evento estremo, dobbiamo anche valutare anche la resilienza dei nostri servizi sociali, dei nostri servizi di emergenza, nel contesto di un impatto, di una siccità, di un’ondata di calore, di un’inondazione».

«Dobbiamo anche fare una buona analisi degli eventi multi, perché purtroppo possono avvenire e ne abbiamo avuto degli esempi con le ondate di calore del 2003, che ha spinto la maggior parte dei Paesi europei a dotarsi di sistemi di allerta. Le ondate di calore, in pochi lo sanno, uccidono più delle inondazioni. È un dato di fatto che viene costatato in tutti i Paesi europei. Fondamentalmente per prevenire il danno delle ondate di calore dobbiamo creare dei sistemi di allerta e rendere le nostre città più verdi, più blu. Questo può ridurre sicuramente il numero di decessi. Non può ridurre tutti gli altri impatti, però può ridurre l’impatto socioeconomico e questo è molto importante».

«Costruendo le città o rigenerandole in maniera migliore cercheremo di ridurre sempre di più in futuro l’impatto. Significa anche spendere adesso dei fonti per spendere meno nei prossimi 30 anni, e dedicarsi alle scuole, alle università, alla ricerca, alla sanità o alle prossime pandemie. Questo è un concetto importante: cercare di pensare a lungo termine, oltre un mandato parlamentare, oltre a un piano di cinque anni. L’altra cosa che a livello di adattamento si è sviluppata ormai da più di dieci anni, da un concetto del mondo anglosassone sempre nel Nord Europa, sono i famosi percorsi di adattamento – gli adaptation pathways».

«Quando si vuole costruire una misura di adattamento si basa chiaramente su una valutazione del rischio climatico basata sul passato, ma anche di un potenziale rischio climatico che generalmente aumenta senza sensazioni di mitigazione o con unaumento delle emissioni di gas serra, però si cercano di fare con i modelli climatici diversi scenari. Bene, a seconda di questi diversi scenari si cerca di pianificare l’azione di adattamento, che richiede certi costi di pianificazione e attuazione. Se poi il clima cambia bisogna riaggiornare questa gestione in fase di progettazione e in fase di attuazione».

«Tutto questo, se viene sviluppato secondo questi percorsi d’adattamento questo può portare anche a una riduzione dei costi della progettazione di questa opera. Ad esempio, le famose dighe di controllo del Tamigi sono state pianificate, progettate e costruite con questi percorsi di adattamento. Anche questo è un contesto di lavoro e un approccio lavorativo che sta già prendendo piede nel nostro territorio, ma deve essere portato anche a livello dei piccoli comuni ed espanso ancora di più».

«Dobbiamo anche tener conto, e questo è stato chiarito in maniera molto efficace nel secondo volume sull’adattamento della IPCC di questo ultimo rapporto uscito pochi mesi fa, che l’adattamento ha dei limiti. In certe zone del pianeta se le emissioni di gas serra crescono sempre di più arriveremo a un punto in cui l’adattamento sarà immensamente costoso oppure non si riusciranno a ridurre in maniera efficace certi danni. Allora noi dobbiamo identificare questi limiti, capire quali sono le implicazioni anche dei limiti della resilienza e delle limitazioni delle nostre istituzioni coinvolte dall’adattamento. Quindi concentrarci anche sui limiti della resilienza delle nostre comunità e i limiti dell’adattamento incrementale, cioè quello di costruire una barriera a un’esondazione sempre più alta finché non diventa troppo costoso».

«Questo adattamento trasformazionale che a livello estremo vuol dire un’evacuazione di una piccola comunità, proprio perché il costo dell’adattamento è troppo alto ed era minore quello di evacuare una piccola comunità. Chiaramente questo non si può fare con grandi città, per questo dobbiamo cercare di ridurre le emissioni con il nostro Green Deal entro il 2030 e 2050».

«Chiaramente, il monitoraggio e la valutazione sono step del Adaptation Support Tool, strumento molto utile per l’adattamento nella piattaforma europea sul Climate-Adapt. Bisogna anche monitorare e cercare di valutare se sono state azioni di cattivo adattamento, cercare di sviluppare una metrica e degli indicatori che non sono banali, perché mentre l’indicatore per la mitigazione, riduzioni di gas serra, ragioniamo sulla CO2, ragioniamo per tonnellate, sull’adattamento abbiamo bisogno di tanti indicatori. Indicatori di aree verdi, zone di siccità, quanti edifici non hanno i pannelli solari oppure quanti edifici non sono stati rigenerati a livello urbano. Parliamo di tanti indicatori».

«Un esempio veloce, il framework di Sendai, il contesto per la riduzione del rischio disastri dell’Onu, richiede 38 indicatori per 7 obiettivi globali. Se invece andiamo a vedere gli obiettivi di sviluppo sostenibile, che sono 17, richiedo più di 230 indicatori per più di 160 obiettivi specifici. Quindi, affrontano tutta la tematica della triplice crisi, ma a livello di Sendai che fondamentalmente affronta tutti i disastri anche geologici (eruzioni vulcaniche, terremoti), però richiede più di 30 indicatori. Per l’adattamento, quindi, serve costruire una serie di indicatori che siano raccolti in maniera continua a livello comunale regionale e nazionale può aiutare per programmare un’ulteriore adattamento senza spreco di risorse finanziarie e umane».

«Concludo con queste domande, che ogni politico, che ogni stakeholder a livello comunale regionale e nazionale si pongono o dovrebbe porsi. Per quanto tempo una strategia e un piano d’adattamento sarà efficace? Tutto questo porta a riflettere su tutti i punti che ho esposto precedentemente. Quanto è difficile cambiare una strategia o un piano d’adattamento se le condizioni climatiche cambiano? Se si usano gli adaptation pathway questo permette di farlo in maniera più efficace. E per quali condizioni climatiche i nostri obiettivi non sono raggiunti? Questo presuppone degli indicatori, un monitoraggio e una valutazione efficace delle azioni di adattamento».

«Come vedete l’adattamento non è una semplice costruzione di barriere o alcuni edifici verdi o mettere un parco, fare una pista ciclabile, rendere una città più verde. Richiede una riflessione socioeconomica anche del comportamento dei cittadini, come cercare di aumentare la consapevolezza che si può arrivare a un livello accettabile di vita nonostante gli impatti dei cambiamenti climatici. Ma questo richiede, come ha detto la strategia europea di adattamento, un approccio più intelligente, più sistemico e più veloce».

Uno slogan finale.

«Due concetti, visto che è una domanda provocatoria. A noi piace vivere in una città con inondazioni, ondate di calore, le persone anziane che soffrono e i bambini che non respirano? Non credo. Può soltanto peggiorare nel futuro se non si riducono le emissioni e non si fa adattamento. Quindi, azioni e convenienza. Conviene. Se vogliamo vivere dobbiamo investire fondi adesso per adattarci e mitigare, perché soltanto così potremmo lavorare, altra parola chiave, per il futuro. Le future generazioni, non per noi, per i nostri figli e per i nostri nipoti».

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