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[L’Analisi Esclusiva] Ecco perché i ristori non bastano e il Pil dell’Italia è a rischio

“Attività correnti”.

Grazie a questo salvifico ombrello, la crisi di governo non dovrebbe bloccare almeno uno degli strumenti principali per tamponare e invertire l’impatto dell’altra devastante crisi: quella economica.

Il quinto decreto Ristori di questo anno tormentato di pandemia dovrebbe infatti vedere comunque la luce, raddrizzando anche alcune delle storture rivelate dai quattro precedenti.

Nella cassetta degli attrezzi anti-crisi, l’idea di aiuti a fondo perduto agli operatori economici per compensare gli effetti della recessione è del tutto eccezionale, sostanzialmente anomala e con pochi precedenti.

Ma sono anche le caratteristiche di questa crisi economica, dettata dalla pandemia.

Lo hanno capito al volo – con agilità e flessibilità sorprendenti, vista la storia degli ultimi anni – le istituzioni europee, accogliendo a tambur battente i suggerimenti di economisti che, a prima vista, apparivano, come minimo, coraggiosi.

E il governo italiano si è mosso su questa strada con celerità e generosità.

Da maggio ad oggi sono stati erogati alle aziende in difficoltà aiuti a fondo perduto per 10 miliardi di euro.

Concretamente, vuol dire che il ministro dell’Economia, Gualtieri, ha firmato oltre 3,3 milioni di bonifici, distribuendo, in media, un po’ più di 3 mila euro ad altrettante imprese.

Il punto chiave era ed è che non si tratta – soltanto – di affrontare di petto l’evidente disagio sociale della chiusura a catena di migliaia di imprese e attività.

Gli economisti chiamano il fenomeno isteresi e identifica i danni che un particolare evento determina anche al di là dei suoi effetti immediati e diretti.

Le potremmo definire le cicatrici che una crisi lascia e che devastano e sconvolgono il tessuto dell’economia.

Una cosa è la chiusura delle aziende inefficienti (è la “distruzione creatrice” evocata da Schumpeter), un’altra il collasso di imprese colpite da un evento del tutto estraneo e indipendente dalla loro attività: un terremoto o un’epidemia.

Le cicatrici che lasciano, in questi casi, le aziende che scompaiono segnalano l’azzeramento di competenze, risorse, strutture, che non si ricreano dall’oggi al domani.

Il risultato sarà, inevitabilmente, una ripresa economica più lenta e faticosa.

Tanto più vero, in quanto le conseguenze della pandemia non si dispiegano allo stesso modo su tutta l’economia, ma si concentrano su alcuni settori.

Quando diciamo che il Pil italiano, nel 2020, ha perso il 10 per cento, non vuol dire che tutti i settori hanno perso, allo stesso modo, il 10 per cento.

E’ qui uno dei fattori più solidi della differenza fra l’impatto della pandemia sulla economia tedesca, rispetto a quella italiana.

Non è solo un problema di efficienza, delle aziende e dei governi. Sia Germania che Italia godono di un ruolo di rilievo dell’industria manifatturiera.

E’ il settore, forse, meno colpito dalla crisi: la grande quarantena di primavera ne ha risparmiato circa il 50 per cento e l’intero settore è uscito sostanzialmente indenne dai lockdown di questo autunno e dell’inverno, continuando quasi normalmente l’attività.

Anche in Italia, solo il 5 per cento delle imprese manifatturiere ha gravi problemi di liquidità e solvibilità.

Ma in Italia, i settori, invece, più colpiti dalla crisi – turismo, ristoranti, bar, alberghi, intrattenimento – hanno, al contrario che in Germania, un ruolo di assoluto rilievo, fra il 15 e il 20 per cento del Pil nazionale.

E qui, in Italia, più che di devastazione, si può parlare di un pericolo desertificazione: la quota di aziende a rischio fallimento oscilla, in questi settori, intorno al 40 per cento.

E’ un quadro che potete sovrapporre, senza difficoltà, a quello dei Ristori forniti dal governo.

Il numero maggiore di bonifici a fondo perduto è andato ai ristoranti: 762 mila, per una media di 3.275 euro per uno e un totale di 2,5 miliardi di euro. Poi ci sono 441 mila negozi, che hanno assorbito 1,35 miliardi. I 209 mila alberghi, in media hanno ricevuto 4.720 euro per uno.

A seguire, il commercio all’ingrosso, i servizi alla persona, le agenzie di viaggio, intrattenimento e sport.

I criteri adottati, nel maggio scorso, per distribuire questi soldi rivelano la convizione, sia pure inespressa, che gli effetti della pandemia fossero contenuti e, soprattutto, esauriti con l’ondata di primavera.

Il peggio, insomma, sembrava alle spalle.

I beneficiari venivano quindi individuati in base ai codici Ateco, cioè la classificazione della loro attività prevalente, testimoniata dalla loro partita Iva. Sfuggiva così completamente l’interdipendenza delle diverse attività e delle catene di fornitura e consumo, che la crisi avrebbe evidenziato ancora in estate, in autunno, in inverno.

Ma, soprattutto, il decreto emesso a maggio per far fronte ad una epidemia, esplosa fra marzo e aprile, puntava ad una compensazione del solo calo di fatturato registrato ad aprile, rispetto allo stesso mese del 2019.

Doveva, del resto, finire lì.

Ma l’epidemia ha continuato a colpire, con i suoi effetti diretti e indiretti su aziende e consumatori, anche nei mesi successivi. Invece, a fine anno, per distribuire il più in fretta possibile gli aiuti, si è scelto di erogare gli aiuti agli stessi che li avevano avuti per aprile.

Tagliando fuori tutti quelli – a cominciare dalle aziende ad attività stagionale, come turismo e agricoltura – che ad aprile non avevano registrato nulla, perché, ad esempio, non lavoravano.

Il testo del nuovo decreto dovrebbe chiudere questi due buchi.

Basta con i codici Ateco, gli aiuti andranno a tutte le aziende in difficoltà. E il criterio sarà – salvo sorprese – il calo del fatturato su tutto il 2020, rispetto al 2019.

In cassa ci sono, da distribuire, altri 10 miliardi di euro.

Ma, questa volta, davanti ad una pandemia che non rallenta, il ministro dell’Economia si è tenuto – all’interno di uno scostamento di bilancio complessivo 2021 per 32 miliardi di euro – i margini per nuovi interventi nei prossimi mesi.

Una boccata di ossigeno potrebbe non bastare.

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