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[L’analisi] Come uscire dal pantano della guerra. La pace da desiderio a progetto

In Ucraina la situazione prima del 24 febbraio era come un matrimonio andato in pezzi. La pace non c’era già più e ci si è illusi di pretenderla e di imporla con la forza delle armi. L’odio e il rancore rende difficile risolvere situazioni con la violenza quando sarebbe l’amore l’unica medicina. Ma l’amore non si impone. Rimettere insieme i cocci andati in frantumi non è mai frutto di una magia, ma l’esito di lunga cura di verità e di perdono per disarmare risentimenti e aggressività.

L’Europa, risucchiata nel turbine inconsulto della Nato e nella demonizzazione di Putin che un santo davvero non lo è, non aveva capito o non voleva capire cosa stesse accadendo. Si è buttata da subito nell’orgia muscolare e bellicista dove ognuno cerca di lucrare qualche beneficio da una situazione sempre più manipolabile. E così l’ideologia bellicista è parsa vincente e necessaria dal momento che gli arsenali erano pieni e si poteva sparare all’impazzata. E impunemente. In ogni guerra, ma specialmente in conflitti come quello che dilania l’Ucraina, nessuno vince la guerra solo con le armi, poiché neppure il vittorioso occasionale riuscirà a disarmare l’odio nei cuori che armano il braccio.

Di fronte alla precarietà della pace imposta occorre aprire gli occhi e chiedersi finalmente quale sia la via migliore per tornare ad essere uomini. Feriti ma umani. Ora tra i maggiori contendenti sono spuntati i primi segnali – se pur fragili e gracili – di una consapevolezza che non basta una corrida di sangue per uscirne con dignità umana. È certamente necessario far tacere le armi, ma senza illudersi che sia facile fare la pace. La pace da desiderio nostalgico di giorni tranquilli deve diventare un progetto mondiale curativo dove si è sparato, preventivo sempre e dovunque. Bisogna liberare una coscienza civile consolidata e condivisa di pace perché non tuoni più il cannone.

Sarebbe già molto se l’incredibile e ingarbugliata esperienza della guerra in Ucraina portasse nella comunità internazionale il convincimento che l’unico modo per non ripetere lo sbaglio della guerra sia progettare la pace come unico disegno evolutivo dell’umanità. E, in quanto progetto senza alternative, far seguire un adeguato cantiere per realizzare l’opera progettata. Se succedesse che la pace da desiderio fosse percepita come progetto inderogabile e ci si dotasse di un cantiere adeguato a realizzarlo, questa guerra dolorosa e mortifera non sarebbe stata del tutto vana. Anche se beffarda: fare guerra per convincersi che sia sempre la risposta sbagliata ai problemi.

Tutti dicono di saperlo, ma poi con una punta di innocente ipocrisia, si lascia alla guerra sempre un varco, magari esiguo, da cui si insinua e diventa dirompente. Più che di scuole di guerra c’è bisogno di scuole di pace. Il gran male della guerra è meglio prevenirlo che curarlo. E il primo passo della prevenzione è che si decida di volerla fare. Tutti verifichiamo l’esistenza più o meno attiva di una rete di organismi nazionali, interregionali, internazionali che sfornano bellissimi documenti di buone intenzioni; si inventano G di tutte le dimensioni che si radunano a scadenza o per emergenza. Ma non sembrano abbastanza efficaci.

Talvolta si riducono a vetrina internazionale di autopromozione e compiacimento come nel borgo leopardiano dove il sabato sera “tutta vestita a festa la gioventù del loco lascia le case, e per le vie si spande; e mira ed è mirata, e in cor s’allegra”. Il credo dell’apparire trionfa. Nel frattempo, si chiacchiera di riformare gli organismi internazionali, ridare loro autorevolezza e funzionalità, ma è evidente la difficoltà di riuscirvi. Si dice e invece non si vuole farlo davvero. Si considera il saper mentire come l’arte diplomatica somma. Occorre rifare l’uomo come insegnano le scienze psicoanalitiche: da macchina distruttiva che macina energie per avere e contare per sé, riportarlo a un essere capace di fraternità scelta liberamente, vissuta in armonia accorgendosi degli altri e facilitando la loro vita.

Elogiare, commemorare figure di pace, servitori della giustizia, modelli di integrità e disinteresse, guardandosi bene però dall’imitarli, è diventato uno sport mondiale. Dopo il Covid e dopo questa guerra l’umanità si trova a un bivio pericoloso: prendere coscienza che l’equilibrio successivo al secondo conflitto mondiale si è rotto. Bisogna crearne, quindi, uno nuovo possibilmente migliore. Questo vuol dire rifondare le ragioni della pace, sceglierlo come progetto mondiale e allestire un cantiere per liberarlo dalle ideologie e costruirlo concretamente. È pertanto evidente che uno sforzo generale per assicurare a tutti i popoli pari dignità, giustizia e percorsi educativi sia determinante molto più dell’accumulare armi negli arsenali, commerciarle e sperimentarne sempre di nuove.

Pienamente coscienti, invece, che decidersi di prosciugare il redditizio commercio delle armi rappresenta una sfida economica e produttiva alternativa gigantesca come lo è il passaggio da una economia dell’accumulazione per pochi, del consumo smodato e dello spreco a un’economia di Francesco. Già Francesco. Non è un caso che ci sia tanta animosità a discutere questa figura che critica l’attuale geopolitica di potenza richiamando la sensibilità del santo di Assisi.

 E lo sta facendo anzitutto cercando di rinnovare la fedeltà della sua Chiesa al Vangelo perché sia credibile nel suo appello alla fraternità e alla nuova coscienza ecologica senza le quali l’intero pianeta sarà perduto. L’uscita dall’orgia guerresca che tiene tutti impantanati nel conflitto solo nominalmente ucraino, comporta la lucidità di una rinascita liberante possibile con una contaminazione culturale (non vino nuovo in vecchie botti, ma pensiero nuovo in contenitori rinnovati) che mandi in soffitta la categoria del nemico, sostituita con quella di “Fratelli tutti”.

*Il giornalista che firma l’articolo ha recentemente pubblicato con l’editrice All Around un piccolo libro sulla pace dal titolo “Da Pinocchio a Pax Christi – La Lunga Marcia della Pace”. Vi si propone un percorso umanistico di pace sperimentato da avanguardie non di pacifisti – termine equivoco perché manipolabile – ma di artigiani della pace, coloro che volendo la pace cominciano con il cambiare sé stessi.

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