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Il triste destino del futuro demografico dell’Emilia-Romagna | L’analisi di Ramiro Baldacci

Lo stato di emergenza per l’Emilia-Romagna sembra non finire mai. La vita quotidiana dei cittadini fatica a riconquistare la normalità e le ricadute delle alluvioni toccano tantissimi settori del tessuto economico-sociale della regione. Ma le alluvioni, pur nel loro impatto drammatico e devastante, non sono l’unico pericolo che può condizionare il futuro dell’Emilia-Romagna.

Ce n’è un altro, più silenzioso e lento, ma altrettanto pericoloso, che si nasconde nelle pieghe dei numeri dell’Istat sulle previsioni demografiche che riguardano la regione.

Stando così le cose, il destino della regione da qui al 2080 è già segnato: meno donne, perdita di attrattività, meno giovani, meno lavoratori, raddoppio degli ultra ottantacinquenni, calo demografico quantificato in oltre 246 mila persone.

E tutto questo nello scenario “mediano”, ossia quello non troppo catastrofico e non troppo ottimista.

Crescita naturale

Attualmente, con i dati consuntivati al 2023, il dato della crescita naturale della regione racconta che in Emilia Romagna per ogni 1000 abitanti se ne perdono 5 all’anno. Nello scenario a breve periodo, ossia al 2030, la crescita naturale continuerà a registrare questo dato annuale, per poi peggiorare nello scenario a medio termine (2050) e a lungo termine (2080) con 7 persone in meno per ogni mille abitanti.

Questo perché i decessi sono il doppio delle nascite, come dimostra il rapporto tra il tasso di natalità (attualmente a 6) e il tasso di mortalità (attualmente 12) e la loro proiezione fino al 2080, quando arriveranno rispettivamente a 7 e 1).

L’età media della popolazione crescerà inesorabilmente, dagli attuali 47 anni fino ai 51 previsti nel 2080.

Aumenta la speranza di vita alla nascita sia per gli uomini che per le donne, e questo all’apparenza potrebbe essere un dato positivo, ma questo porterà a una crescita esponenziale dell’indice di vecchiaia (ossia il rapporto tra chi ha più di 65 anni e chi ne ha meno di 15) che oggi si attesta al 198%, per salire al 245% già nel 2030, al 288% nel 2050 e al 303% nel 2080.

Saldo migratorio

C’è un fenomeno che ha tenuto in piedi gli indicatori demografici dell’Emilia Romagna in questi ultimi anni, ed è l’effetto delle immigrazioni sia interne, ossia dalle altre regioni d’Italia, che estere.

Nel 2023 il saldo migratorio interno vede una crescita di 14.786 nuovi ingressi in regione, quello estero sale a 25.117. Non serve a spettare molto perché lo scenario cambi. Già nel 2030 avremo una contrazione di quasi 2 mila unità nelle migrazioni interne e di quasi 8 mila persone in meno dalle immigrazioni estere. Il decremento poi diventa inarrestabile, fino ad arrivare a poco più di 4 mila ingressi dall’interno nel 2080 e 15 mila dall’estero.

Sommando quindi i due effetti di crescita naturale e di saldo migratorio, abbiamo un saldo totale che attualmente registra un trend positivo, con una crescita annua di oltre 17 mila persone, ma che toccherà vette vertiginose di decremento nel 2050, con -7.000 persone all’anno, quasi 17 mila persone in meno intorno al 2060 per atterrare a una decrescita annua fissa di 10 mila persone.

Il possibile effetto positivo che l’immigrazione ha attualmente sui valori demografici è quindi destinata a disperdersi nel tempo.

Suddivisione della popolazione

Nel 2050 in Veneto ci saranno 1 milione di abitanti in meno | L’analisi

Ciò che influisce in maniera diretta sulla produttività della regione è però la suddivisione della popolazione dell’Emilia Romagna per fasce d’età. Già oggi la popolazione è composta per il 12% da giovani tra 0 e 14 anni, per il 63% da persone in età lavorativa cioè tra 15 e 64 anni e per il 25% da persone sopra i 65 anni.

Questo scenario è destinato solo a peggiorare. In una linea tendenziale complessiva di diminuzione della popolazione (dagli attuali 4 milioni e 437 mila residenti, l’Emilia Romagna avrà nel 2080 poco più di 4 milioni di abitanti), la suddivisione della popolazione vedrà i lavoratori crollare alla percentuale del 54% e gli over 65 anni aumentare al 34%.

Questo elemento ha un impatto diretto sul PIL pro-capite, perché l’indice di dipendenza strutturale aumenterà dall’attuale 58% all’84%, non consentendo a chi sarà chiamato a lavorare di produrre a sufficienza per le altre due fasce di età.

C’è un dato ancora più preoccupante. In una regione connotata da tempo da una presenza maggiore di donne rispetto agli uomini (ad ossi ci sono 2,26 milioni di donne contro i 2,17 milioni di uomini) ci sarà una sostanziale inversione di tendenza intorno al 2050, dove gli uomini saranno più delle donne, e questo divario si manterrà anche nello scenario a lungo termine, pur nel complessivo calo demografico.

Ovviamente questo trend inciderà fortemente anche sulla natalità e sull’occupazione femminile.

La situazione delle province

La situazione non è uguale in tutte le 9 province dell’Emilia-Romagna.

Per esempio Ferrara, con i suoi 393 mila abitanti, è quella che ha meno giovani di tutte e un’età media che già oggi sfiora i 50 anni.

Rimini è la provincia che ha il numero medio di figli per donna più basso di tutta la regione (1,1) e che ha visto il tasso di natalità quasi dimezzarsi negli ultimi dieci anni.

Bologna è la provincia che negli ultimi 10 anni ha visto raddoppiare il decremento della crescita naturale e dove le donne partoriscono a un’età media di 33,1 anni, la più alta della regione.

Parma ha visto rallentare l’apporto del flusso migratorio dal 2013 ad oggi, rispetto ad altre province che lo hanno visto raddoppiare.

Anche l’Indice di dipendenza strutturale vede al primo posto Ferrara, seguita da Ravenna, Piacenza e Forlì Cesena.

Questo vuol dire che anche eventuali misure correttive devono tener conto delle diverse realtà territoriali e del diverso tessuto economico e sociale che ogni provincia possiede.

Rapporto INPS

La gravità della crescita non controllata dell’indice di dipendenza strutturale di cui abbiamo parlato prima, si riflette in maniera diretta sul XXIII Rapporto annuale dell’INPS presentato a fine settembre alla presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

In quella occasione si è evidenziata in maniera particolare proprio la questione demografica sottolineando che nel 2050 i cittadini con 65 anni e più potrebbero rappresentare fino al 35% della popolazione nazionale e questo determina la necessità di ripensare l’attuale sistema di welfare. L’ a prospettiva è quella di un aumento del peso della fascia anziana della popolazione rispetto a quella in età lavorativa andrà di pari passo con la crescita dei consumi legati a questa categoria, alimentando la cosiddetta silver economy.

A ciò si affianca la questione giovanile, caratterizzata dalle difficoltà o dalla rinuncia delle giovani generazioni a trovare un lavoro stabile e ben remunerato, dalla bassa percentuale di accesso alla formazione universitaria e dalle sfide connesse alla creazione di un nuovo nucleo familiare.

L’INPS ha sottolineato come lo scenario demografico attuale stia determinando un inevitabile peggioramento del rapporto tra pensionati e contribuenti

Cosa fare?

Sin qui l’analisi, triste, ma che ormai conosciamo bene. È giusto ribadirla, vederne gli aspetti a breve, medio e lungo termine, ma resta il problema di fondo: cosa fare?

Ai dati ISTAT e a quelli INPS si aggiunge anche la previsione della Banca d’Italia che ha parlato di una contrazione del Pil, da qui al 2040, di 13 punti, sempre dovuta al calo demografico.

È chiaro che la risposta non può essere un semplicistico “bisogna fare più figli”. Far risalire la curva della natalità è sicuramente un elemento imprescindibile per garantire un futuro al nostro Paese.

Ma perché questo accada sono tanti i settori interessati: dal lavoro, soprattutto femminile e giovanile, alle politiche abitative, alle facilitazioni per le famiglie.

E per rispondere a queste esigenze serve la politica, una politica ispirata ai valori fondanti del suo agire, che metta al centro della sua azione la famiglia e le sue esigenze. Sia a livello nazionale, magari dando realmente attuazione alla proposta del ministro dell’Economia e delle Finanze Giancarlo Giorgetti di applicare un quoziente fiscale alla tassazione delle famiglie, che a livello locale, con azioni nella sfera del lavoro, dell’occupazione, delle politiche abitative, delle esigenze economiche di chi di fatto non riesce ad arrivare a fine mese. Non servono i bonus, servono politiche a medio-lungo termine capaci di risollevare la popolazione, anche perché chi decide di fare un figlio non è che diventa genitore “una tantum”, come un bonus, ma lo è per tutta la vita.

Il trend degli ultimi anni e le previsioni numeriche per i prossimi anni ci danno una conferma ineluttabile: se non succede qualcosa, se non arriva una scossa in positivo, il destino è già segnato, sia dell’Emilia-Romagna che dell’Italia intera.

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