Analisi, scenari, inchieste, idee per costruire l'Italia del futuro

Nove proposte per la ripartenza dell’Ambiente e dell’Energia

Dopo 200 giorni da quando è nata la piattaforma digitale www.ripartelitalia.it e il relativo think tank magazine, l’Osservatorio Riparte l’Italia ha deciso di mettere insieme le idee e i suggerimenti di oltre 500 esponenti della società civile e di elaborare, sulla scia di tali considerazioni, 100 proposte per l’Italia, raccolte in un unico paper.

Vi proponiamo le nostre proposte divise per argomenti, in modo che sia più facile navigarle, consultarle e approfondirle, corredando le singole proposte con il testo del capitolo di riferimento presente nel Paper, scaricabile qui.

Le Nove Proposte per Ambiente e Energia presentate dall’Osservatorio Riparte l’Italia:

  1. Ridurre l’impiego di prodotti e sostanze inquinanti nei processi produttivi
  2. Favorire la transizione verso energie pulite
  3. Impegnarsi sui temi cambiamento climatico sostenendo la ricerca e innovazione
  4. Riconvertire i sistemi produttivi obsoleti
  5. Adottare misure di fiscalità ambientale
  6. Adottare incentivi per la mobilità sostenibile
  7. Giungere all’azzeramento del consumo del suolo
  8. Implementare il verde urbano
  9. Adottare una visione ecologica integrale, che sappia coniugare i temi ambientali e quelli socio-economici

Il tema dell’ambiente ha ricevuto ampia attenzione all’interno dell’Osservatorio Riparte l’Italia. Le delicate sfide poste dai mutamenti climatici e dai crescenti fenomeni di inquinamento, acuiti per certi versi dalla Pandemia, hanno dato luogo a molteplici proposte sulle quali debbano essere le scelte idonee a garantire uno sviluppo sostenibile del Paese.

L’allarme climatico è stato di recente rilanciato dall’International Energy Agency (IEA), la quale stima che il fenomeno del surriscaldamento globale in atto abbia già raggiunto un livello medio pari a circa 1 °C rispetto all’età pre-industriale, con circa il 67% delle emissioni di Gas a effetto serra provenienti dal settore energetico; la metà delle quali causata dalla combustione di petrolio e gas. Per mantenere l’aumento della temperatura globale ben al di sotto dei 2 °C – ricorda IEA – gli Accordi di Parigi del 2015 prevedono che, rispetto a oggi, le emissioni del comparto energetico si riducano almeno del 50% entro il 2040, di 2/3 entro il 2050, per azzerarsi nel 2070.

La transizione energetica dalle fonti fossili a quelle rinnovabili ed ecocompatibili è un processo iniziato ormai da alcuni anni che coinvolge in modo crescente tutti gli attori. Tuttavia, proprio nel momento in cui maggiore appariva lo sforzo della comunità internazionale per tentare di accelerare il processo di transizione energetica, è esplosa una crisi globale senza precedenti, dovuta all’impatto della pandemia Covid-19 sul contesto economico ed energetico che rischia di comprimere le risorse altrimenti dedicate alla lotta al cambiamento climatico.

In particolare, l’effetto congiunto della crisi sanitaria ed economica causata dalla pandemia Covid-19 da un lato, e, dall’altro, del crollo del prezzo del petrolio legato alla guerra dei prezzi tra Russia, Stati Uniti e Arabia Saudita, prezzi per la prima volta nella storia andati in negativo, potrebbe rallentare, se non compromettere, i processi di trasformazione da Big Oil a Big Energy, inducendo i principali player a ridurre le risorse dedicate alla transizione energetica, sotto il profilo sia dell’efficientamento energetico, sia della decarbonizzazione sia, infine, della ricerca e sviluppo di nuove tecnologie di produzione di energia pulita (4 giugno 2020).

Non si deve dimenticare che il clima è una questione anche economica, intrecciata con temi sociali, che riguarda già il presente e non solo il futuro e che l’Italia, molto esposta alle conseguenze del riscaldamento globale, è chiamata a stringere un’alleanza con i Paesi del Mediterraneo per vincere la sfida contro gli eventi meteo estremi.

Di fronte all’opportunità di impiegare risorse europee, la politica deve pensare in termini di investimenti e non di costi. Sono le osservazioni di alcune associazioni ambientaliste al rapporto «Analisi del Rischio. I cambiamenti climatici in Italia», realizzato dalla Fondazione Cmcc (Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici) espresse durante un webinar (tenutosi nel settembre del 2020) in cui è stato illustrato lo studio secondo cui, senza azioni di mitigazione, l’Italia rischia un aumento della temperatura fino a 2 gradi entro il 2050 e fino a 5 entro la fine secolo (rispetto al periodo 1981- 2010) con costi tra lo 0,5% e l’8% del Prodotto interno lordo.

Nel rilevare che il clima è «una questione economica», Andrea Barbabella della Fondazione per lo Sviluppo sostenibile ha indicato che occorre «allineare il Recovery Plan agli obiettivi climatici», aggiungendo che le perdite annuali sono stimate, ad oggi, fra 130 e 140 miliardi di euro, ma che senza interventi adeguati «la bolletta dei danni è destinata ad essere ogni anno più alta» (18 settembre 2020).

«La sostenibilità, intesa nella sua accezione più ampia, non solo ambientale ma sociale ed economica al contempo, sarà uno dei driver della ‘ripresa’, tracciando la strada verso una transizione non solo ecologica che acceleri il percorso verso il raggiungimento degli obiettivi dell’Agenda 2030 e spingendo, in modo ancora più deciso, verso politiche come quelle indicate dal Green Deal europeo, attraverso un necessario processo di semplificazione della regolazione, volto a far ripartire rapidamente l’economia». Questa la riflessione di Stefano Laporta, il quale formula, al riguardo, alcune proposte: «si tratta di immaginare quindi un nuovo modello di vita e di sviluppo, in una logica integrata, che richiede di essere sostenuta da maggiore conoscenza e tecnologie sempre più avanzate. Il Green Deal europeo identifica 8 pilastri a base della trasformazione dell’economia europea per un futuro sostenibile, individuando nella ricerca e nell’innovazione lo strumento trasversale abilitante.

L’accesso e la disponibilità di dati e informazioni, validati e attendibili, il mantenimento e l’ampliamento di reti di monitoraggio e di misura, in particolare in relazione agli ecosistemi e alle loro dinamiche, sostenute dall’intelligenza artificiale, dalla robotica, dalle tecnologie quantistiche, potranno consentire scelte più consapevoli a supporto delle policy ma anche a supporto dei singoli operatori economici e dei cittadini.

Servono modelli che sappiano simulare gli effetti degli interventi programmati sui sistemi interconnessi sui cambiamenti climatici, sulla protezione e valorizzazione del capitale naturale, sui sistemi e le filiere produttive, sull’economia circolare, sulla protezione dai rischi naturali, sui consumi energetici, sul capitale umano, sulle dinamiche dei consumi, sul benessere sociale, che consentano di valutarne gli impatti e gli effetti. Particolarmente complesso risulterà, nell’era post-Covid, la gestione della transizione ecologica delle aree urbane, la sfida già audace di trasformare le nostre bellissime città, piene di storia, in smart city; da ora in avanti dobbiamo riconsiderare il concetto di mobilità sostenibile non più solo in termini ambientali o di emissioni ma anche di sicurezza e salute.

Gli urbanisti dovranno unire le loro competenze con gli altri specialisti e con gli users per immaginare città nelle città, con spostamenti ridotti, nuovi servizi e nuove modalità di lavoro agile (non necessariamente come quelle di questi giorni). In campo economico l’innovazione e la ricerca, insieme alla capacità di creare efficienti sistemi a rete e di simbiosi industriale, potranno aiutare il nostro paese a combattere la deindustrializzazione e la riconversione dei sistemi produttivi obsoleti e, sostenere il tessuto economico fatto di piccole e medie imprese, piccoli produttori, artigiani con un uso efficacie delle risorse ambientali. Infine, non sfuggo a uno degli elementi di maggiore criticità per la transizione verso lo sviluppo sostenibile: abbiamo una pubblica amministrazione con una età media degli addetti molto elevata, in ritardo sulla digitalizzazione.

In questo contesto, di nuovi strumenti regolatori, potrebbe rientrare il tema della fiscalità ambientale, per misurare e dare un valore economicamente rilevante all’uso delle risorse naturali o alla loro rigenerazione nei di bilanci pubblici, negli interventi economici, ma anche negli strumenti di politica fiscale» (10 maggio 2020).

Il fisico e climatologo Sergio Castellari, dopo aver sottolineato i tratti salienti della sfida climatica in atto, si sofferma sulle misure adottate e su quelle in via di adozione, a livello non solamente nazionale, formulando al riguardo alcune proposte: «nell’ultimo decennio tutti i Paesi Membri UE hanno adottato una strategia o un piano nazionale di adattamento. Ora la Commissione Europea sta sviluppando la nuova Strategia Europea di Adattamento che sarà pubblicata all’inizio del 2021. Nel giugno 2015 l’Italia si è dotata di una Strategia Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici (SNAC) e nel maggio 2016 il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare (MATTM), supportato dalla comunità scientifica, ha iniziato ad elaborare un Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici (PNAC).

Il 15 settembre 2020 il Governo ha pubblicato le linee guida del Piano Nazionale di Resilienza e Rilancio (PNRR), che include tra i suoi obiettivi quantitativi quello di rafforzare la sicurezza e la resilienza del Paese a fronte di calamità naturali, cambiamenti climatici, crisi epidemiche e rischi geopolitici.

Al momento in cui il PNRR verrà presentato alla Commissione Europea, sarebbe auspicabile che lo stesso potesse prevedere alcuni significativi interventi, quali: l’introduzione del concetto generale di resilienza ai cambiamenti climatici; l’adozione e l’implementazione dello stesso con dotazione di fondi e la previsione di un sistema nazionale ufficiale di indicatori di monitoring/reporting/evaluation per l’adattamento ai cambiamenti climatici in Italia; l’implementazione di un’efficiente piattaforma web nazionale sulla resilienza climatica e di piattaforme regionali di coinvolgimento dei più rilevanti stakeholder; la riattivazione della Struttura di missione contro il dissesto idrogeologico e per lo sviluppo delle infrastrutture idriche, prima denominata “Italia Sicura” e chiusa nel luglio 2018» (6 ottobre 2020).

Il fisico e climatologo Carlo Cacciamani si sofferma sul funzionamento e sul ruolo delle previsioni metereologiche nell’ottica del monitoraggio e del contrasto ai cambiamenti climatici: «l’informazione meteo-climatica, costituita dall’insieme delle attività di monitoraggio dell’evoluzione del “tempo”, la previsione meteorologica e la valutazione climatologica, rappresenta uno step importante a supporto di un vasto spettro di utenti pubblici e privati che, grazie anche ad un adeguato supporto “meteo”, possono creare servizi specifici a beneficio della “filiera” di attività che presiedono. Uno di questi utenti è certamente il Sistema di Allertamento nazionale di protezione civile per il quale l’informazione meteoclimatica permette poi di valutare a valle gli scenari di rischio indotti, ad esempio, da eventi meteo estremi che si abbattano su territori vulnerabili ed esposti.

L’Agricoltura è un altro grande “utente” del “meteo-clima” e necessita di specifici servizi meteo-climatici per la pianificazione ed esecuzione delle operazioni in campo (es: definizione del periodo ottimale di semina), nonché le pratiche agronomiche per la difesa delle colture (es: la somministrazione di sostanze chimiche ecc.). La strumentazione meteorologica disponibile oggi, sia di tipo convenzionale (stazioni al suolo, radiosondaggi dell’atmosfera), sia attraverso i sistemi di remote sensing (le reti Radar, le piattaforme satellitari) forniscono dati con un elevatissimo livello di accuratezza. Per quanto concerne invece la previsione meteorologica, oggi sono usati strumenti modellistici in grado di prevedere scenari futuri del tempo con grande dettaglio spaziale. Le previsioni meteorologiche sono essenziali per i “decisori” pubblici e per gli operatori privati. A fronte della grande necessità di “meteo” che il Paese chiede, in Italia l’offerta meteo-climatica di qualità è ancora troppo limitata e disomogenea.

Ancora oggi l’Italia non ha un servizio meteorologico nazionale civile, che possa fornire un’adeguata risposta alla domanda di “meteo” da parte di tutti gli utenti, pubblici e privati. Da sempre nel nostro paese, a livello nazionale, opera solo un Servizio Meteorologico militare (il servizio meteorologico dell’Aeronautica militare), che ha il compito di istituto di fornire supporto al volo aereo, oltre alle ulteriori funzioni strategiche in ambito militare. Solo attraverso la costruzione di una struttura meteorologica nazionale che sia in grado di poter coordinare un tale Sistema, mettendo a sistema tutto quanto esiste, in termini di monitoraggio, sistemi di previsione ma anche competenze e risorse umane, la meteorologia nazionale potrà evolversi.

Adesso forse si può raggiungere questo obiettivo, con l’attuazione dell’Agenzia ItaliaMeteo (Legge n. 205/2017). Tale norma ha istituito anche il Comitato di Indirizzo nazionale per la meteorologia e la climatologia, organismo composto da tredici esperti del settore e incaricato di assicurare il coordinamento e la regia strategica e, sul piano operativo, la nascita dell’Agenzia ItaliaMeteo, per la meteorologia, la climatologia e lo stato del mare» (4 novembre 2020).

Ad allarmare, oltre al fenomeno del riscaldamento globale e dell’inquinamento dell’aria, vi è quello del progressivo inquinamento dell’acqua.

In occasione della «Giornata mondiale dell’Ambiente» (22 marzo) del 2020, Legambiente ha pubblicato un dossier dal titolo: «H2O – la chimica che inquina l’acqua». Se ne ricava che in Italia circa il 60% delle acque di fiumi e laghi non è in buono stato e molti di quelli che lo sono non vengono protetti adeguatamente: dai pesticidi agli antibiotici, dalle microplastiche fino alle creme solari, molte sostanze e composti chimici usati ogni giorno inquinano anche il mare lungo le coste e le falde sotterranee (6 giugno 2020).

Un ruolo da protagonista nell’inquinamento dell’acqua, com’è oramai noto, è svolto dalla plastica.

Il problema, come ogni questione ambientale, ha una dimensione ovviamente globale. La quantità di plastica che finisce negli oceani potrebbe triplicare entro il 2040, raggiungendo un peso complessivo di 600 milioni di tonnellate. Un’impennata alla quale sta contribuendo non poco l’attuale pandemia di Covid-19, in cui il consumo di plastica monouso è aumentato sensibilmente.

A tracciare lo scenario è la ricerca pubblicata sulla rivista Science, coordinata da Winnie Lau, dell’organizzazione non governativa Usa «The Pew Charitable Trusts». Fra i contributi, quello dell’italiano Enzo Favoino, della Scuola Agraria del Parco di Monza. Sulla base di una simulazione, la ricerca indica che, se non saranno intraprese quanto prima azioni volte a ridurre la produzione e il consumo di plastica, nei prossimi 20 anni la quantità di questa sostanza inquinante è destinata ad aumentare da 11 milioni a 29 milioni di tonnellate: l’equivalente di circa 50 chilogrammi di plastica per ogni metro di costa in tutto il mondo.

Sempre secondo la simulazione, gli impegni assunti da governi e dal comparto industriale potranno contribuire a ridurre di appena il 7% entro il 2040 la quantità di plastica che raggiunge gli oceani. I maggiori colpevoli dell’invasione di plastica negli oceani sono, stando ancora alla ricerca, i rifiuti solidi urbani non raccolti. Puntare a ridurli – valorizzando quel sintagma di grande impatto qual è: l’economia circolare – è quindi cruciale, ma per la coordinatrice della ricerca non esiste un «proiettile magico» in grado di risolvere il problema.

Piuttosto sarà indispensabile coordinare più azioni, in un pacchetto che ne comprenda almeno otto. Fra di esse, i ricercatori indicano la sostituzione di alcune materie plastiche con carta e materiali postabili, la progettazione di prodotti e imballaggi riciclabili, l’aumento del riciclo. L’effetto che si attende è la riduzione, da qui al 2040, di circa l’80% della plastica che finisce nell’oceano ogni anno; attesi anche un risparmio per i governi stimato in 70 miliardi di dollari, sempre entro il 2040, la riduzione delle emissioni annue di gas serra e la creazione di 700.000 posti di lavoro (21 agosto 2020).

La vittoria della sfida climatica passa, sicuramente, attraverso una efficace transizione verso l’impiego e la diffusione di energie pulite. Francesco Starace, AD Enel, ha a tal proposito evidenziato che «da ormai più di un decennio stiamo cercando di intercettare e seguire quello che è un colossale movimento sulla transizione energetica a livello mondiale. Abbiamo davanti a noi materiali più leggeri, più resistenti, più riciclabili e questa è una delle forze che guida la transizione energetica accanto alla digitalizzazione. Noi da tempo seguivamo questa traiettoria che è economicamente conveniente.

I risultati lo dimostrano ogni giorno ed è ambientalmente necessaria e raccomandabile da un punto di vista geopolitico» spiega Starace sottolineando che «su questo l’Europa ha dimostrato una leadership sia di indirizzo politico che tecnologico» e, inoltre, che «l’Italia ha una delle economie tra le più efficienti in termini di quantità di energia per unità di Pil» (26 giugno 2020). La graduale dismissione degli impianti a carbone e la progressiva sostituzione con nuova capacità a gas e rinnovabile, in linea con il Pniec, resta una delle direttrici di Enel per i prossimi cinque anni.

A ribadirlo è stato Carlo Tamburi, a.d. e presidente di Enel Italia Spa, nel corso di un’audizione sull’individuazione delle priorità nell’utilizzo del Recovery Fund presso la Commissione Bilancio della Camera (nel settembre del 2020). L’impegno di Enel, ha confermato il manager, «è chiudere tutti gli impianti a carbone entro il 2025» (11 settembre 2020).

Anche un’altra major del settore Oil & Gas al livello mondiale, italiana, ha mantenuto ferma la propria strategia di transizione. Claudio Descalzi, AD Eni, ha ribadito che, nonostante l’inevitabile revisione del piano industriale del 2020 e, in parte, del 2021, «la strategia di lungo termine, disegnata coniugando la sostenibilità economica con quella ambientale, per costruire una nuova Eni, in grado di crescere nella transizione energetica fornendo energia in maniera redditizia e, al contempo, ottenendo un’importante riduzione dell’impronta carbonica» (4 giugno 2020).

L’idrogeno bussa alle porte del trasporto ferroviario per prendere il posto dei combustibili fossili. Con questo obiettivo il gruppo Fs Italiane e Snam hanno sottoscritto un accordo per valutare la fattibilità tecnico-economica e nuovi modelli di business in Italia. È il primo accordo in Europa tra un operatore ferroviario nazionale e un operatore energetico e di fatto è una prima possibile applicazione dell’idrogeno nel sistema che può innescare la trasformazione.

L’accordo, firmato dagli amministratori delegati del gruppo Fs Italiane, Gianfranco Battisti, e di Snam, Marco Alverà, prevede la realizzazione di analisi e studi di fattibilità e lo sviluppo di progetti congiunti su linee ferroviarie convertibili all’idrogeno sul territorio nazionale. Le due società sperimenteranno soluzioni tecnologiche innovative legate alla produzione, al trasporto, alla compressione, allo stoccaggio, alla fornitura e all’utilizzo dell’idrogeno per contribuire allo sviluppo della mobilità sostenibile (24 ottobre 2020).

Sui vantaggi che la diffusione dell’idrogeno potrebbe recare, nell’ottica della progettazione di un futuro sostenibile, è intervenuto Giuseppe Coco: «La maturazione della possibilità di usare l’idrogeno come fonte energetica è avvenuta in maniera abbastanza repentina negli ultimi anni. L’idrogeno è stato per anni la chimera delle politiche energetiche, un carburante disponibile ovunque, e che bruciando produce acqua è il sogno di ogni ambientalista. Tuttavia i problemi pratici di sintesi e trasportabilità del carburante rendevano appunto chimerico lo sviluppo di una tecnologia dell’idrogeno.

Negli ultimi anni un calo deciso dei costi di sintesi dell’idrogeno ha reso relativamente meno utopistico il suo uso, anche se i costi di produzione dell’idrogeno verde al momento sono non competitivi. Non dovremo ripetere l’errore commesso con le fonti rinnovabili. In quel caso abbiamo speso moltissimo, attraverso le incentivazioni molto generose, per l’installazione di impianti in gran parte prodotti da Paesi che si sono dotati per tempo delle tecnologie adeguate. In questo caso si tratta di essere coinvolti nei processi produttivi, una possibilità cui si accede solo spendendo adeguatamente oggi in ricerca e in incentivazioni allo sviluppo di tecnologie.

Pochi sanno che SNAM ha recentemente formulato un avveniristico piano per l’idrogeno nel sud Italia, che punta alla separazione della rete di gas naturale della Sicilia per farne un laboratorio di miscelazione di idrogeno e gas naturale, e poi di sperimentazione dell’uso della rete e di consumo di idrogeno su vasta scala per riscaldamento. Analogamente la conversione dell’ILVA, con la creazione di un parco produttivo di rinnovabili accanto alla fabbrica, potrebbe essere una occasione unica di sperimentare l’uso nell’industria pesante, che qualche anno fa sarebbe stato impensabile» (20 novembre 2020).

Ad avviso di Utilitalia, l’Associazione delle imprese idriche energetiche e ambientali, «bisogna agevolare il massimo utilizzo dell’energia da fonti rinnovabili, anche favorendo la diffusione e l’uso di sistemi di accumulo dell’energia su cui manca un chiaro quadro di regolazione per l’iter autorizzativo sugli impianti di storage. Un’agevolazione per gli impianti rinnovabili che passa anche attraverso una semplificazione degli iter autorizzativi per gli interventi di revamping e repowering sugli impianti esistenti (…). È necessario – si afferma ulteriormente – definire un chiaro quadro di regolazione con appropriate semplificazioni per le autorizzazioni per il rinnovamento di progetti esistenti, in grado di ridurre gli impatti sul territorio.

Senza dimenticare l’esigenza di una razionalizzazione, valorizzazione e incremento della produzione del parco di impianti rinnovabili esistente». Utilitalia pone inoltre l’accento sulla necessità di un riordino della normativa sull’autoconsumo: «sarà urgente per via dell’aumento della diffusione della generazione distribuita; in particolare, bisogna salvaguardare un patrimonio nazionale come le reti di distribuzione di energia elettrica, che dovranno essere sempre più in grado di sostenere la cooperazione ai fini dell’autoconsumo dei singoli clienti finali» (21 maggio 2020).

L’Italia è impegnata nella lotta per la conservazione dei valori ambientali. «Sono rimasta colpita dal piano strategico nazionale per il Clima e l’Energia, un esempio di interazione tra politica e grandi aziende, e da come è stato interiorizzato da Terna». Così Valentina Bosetti, presidente Terna, giusta la quale il Piano (elaborato nel dicembre del 2019 dal MISE, unitamente con il Ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare e il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti) è un esempio di quella «visione di lungo periodo» alla quale aderiscono poi «tutti gli investimenti».

Il Piano struttura in 5 linee d’intervento, che si svilupperanno in maniera integrata: dalla decarbonizzazione all’efficienza e sicurezza energetica, passando attraverso lo sviluppo del mercato interno dell’energia, della ricerca, dell’innovazione e della competitività̀. L’obiettivo è quello di realizzare una nuova politica energetica che assicuri la piena sostenibilità̀ ambientale, sociale ed economica del territorio nazionale e accompagni tale transizione» (6 luglio 2020).

Massimiliano Atelli ricorda – in occasione dell’appuntamento annuale con gli Stati generali del verde urbano (lunedì 23 novembre) – che su questo fronte l’Italia è da anni un Paese all’avanguardia: «Ci siamo dotati di una legge in materia di spazi verdi urbani e di alberi nei centri abitati, nell’ormai lontano 2013, e da allora vi è stato un progressivo e costante farsi largo di questo tema (grazie anche a una formidabile spinta dal basso, nei territori, e alla crescente attenzione del mondo produttivo, per ragioni dapprima reputazionali e poi di integrazione delle politiche di forestazione nelle rispettive politiche aziendali) nell’agenda politica nazionale.

Dove ha trovato – con i 30 mln stanziati dal D.L. clima di fine 2019 – una sua definitiva collocazione. Questi soldi derivano dai proventi delle aste sulle quote di emissione ETS, i c.d. permessi di inquinare, il che anche sul piano simbolico assume un’alta valenza, perché rilancia il messaggio che ad ogni azione (climalterante) deve corrispondere una reazione (una controazione, se mi passate il giorno di parole). Ogni albero è un vero e proprio sistema produttivo, che realizza effetti utili, anzitutto sul piano della salute umana (e anche, di riflesso, sulla spesa pubblica e privata per morbilità e mortalità), per il solo fatto di esistere e di essere mantenuto (se con attenzione costante, anche a basso costo, ma da mani esperte: che significa ampliare lo spazio per il più green dei jobs) in buone condizioni.

Ma a questo tema – che è ormai non solo nell’agenda politica nazionale, ma si impone all’attenzione dei governi e di miliardi di persone in tutto il mondo – la spinta che viene dal pubblico, seppure indispensabile, non può e non deve bastare. Da questo punto di vista, va dato atto che – anche nel nostro Paese – la spinta creatrice del privato sociale e della finanza d’impresa (CSR, ma non solo), ha colto da tempo l’importanza di questo aspetto e si sta applicando nella ricerca del modo più congruo di integrare le proprie azioni in questo campo con le politiche pubbliche, per un verso, e con le rispettive politiche aziendali, per altro verso» (23 novembre 2020).

A preoccupare e a stimolare la formulazione di idee e proposte è anche il problema del consumo del suolo.

A commento dell’edizione 2020 del Rapporto «Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici» elaborato dal Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente (SNPA), Stefano Laporta sottolinea: «Purtroppo, il consumo di suolo, il degrado del territorio e la perdita delle funzioni dei nostri ecosistemi, con le loro conseguenze analizzate approfonditamente in questo rapporto, continuano a un ritmo non sostenibile.

I dati di quest’anno confermano la criticità del consumo di suolo nelle zone periurbane e urbane, in cui si rileva un continuo e significativo incremento delle superfici artificiali, con un aumento della densità del costruito a scapito delle aree agricole e naturali, unitamente alla criticità delle aree nell’intorno del sistema infrastrutturale, più frammentate e oggetto di interventi di artificializzazione a causa della loro maggiore accessibilità.

Tali processi riguardano soprattutto le aree costiere e le aree di pianura, mentre al contempo, soprattutto in aree marginali, si assiste all’abbandono delle terre e alla frammentazione delle aree naturali. Ciò rappresenta un grave vulnus in vista dell’auspicata ripresa economica, che non dovrà assolutamente accompagnarsi a una nuova accelerazione del consumo di suolo, che i fragili territori italiani non possono più permettersi. Non possono permetterselo neanche dal punto di vista strettamente economico, come ci indica ormai da tempo la Commissione Europea. Raggiungere al più presto l’obiettivo europeo dell’azzeramento del consumo di suolo è, quindi, la premessa per garantire una ripresa sostenibile dei nostri territori attraverso la promozione del capitale naturale e del paesaggio, la riqualificazione e la rigenerazione urbana e l’edilizia di qualità, oltre al riuso delle aree contaminate o dismesse.

Per questo obiettivo sarà indispensabile fornire ai Comuni e alle Città Metropolitane indicazioni chiare e strumenti utili per rivedere anche le previsioni di nuove edificazioni presenti all’interno dei piani urbanistici e territoriali già approvati» (22 luglio 2020).

Sul versante della tutela degli ecosistemi marini, l’Italia, nella Giornata ONU Mondiale degli Oceani, ha aderito alla campagna #30by30 lanciata dal governo britannico, per rendere area marina protetta il 30% dei mari entro il 2030: «Se ci prendiamo cura del mare, il mare si prenderà cura di noi», ha detto il ministro dell’Ambiente, Sergio Costa. Proteggere la salute dei mari porta benefici alla pesca e al turismo, alla biodiversità e al clima.

L’iniziativa sembra destinata ad incontrare il favore degli italiani, se è vero che, come emerge da un sondaggio commissionato dall’Istituto nazionale di Oceanografia e di Geofisica sperimentale (Ogs), l’84% degli stessi considera il mare un bene da tutelare «con urgenza», quantunque solo il 47% ritenga di avere un buon livello di conoscenza sul tema. Per favorire lo sviluppo economico legato al mare, il 66% degli italiani vuole un’agenzia europea e il 52% un Ministero del Mare. D’altronde, secondo un report dell’Agenzia europea dell’ambiente (AEA) riferito al 2019, l’88,4% delle acque balneabili in Italia è di qualità eccellente, sopra la media Ue dell’84,8%.

E uno studio del Cnr, condotto nei mari di tutti il mondo, rivela che il 92% delle microfibre tessili trovate in acqua sono di origine maturale (cotone e lana) e solo l’8% sono sintetiche (10 giugno 2020).

Greta Tellarini ha indirizzato le proprie riflessioni sul tema del mare e del sistema economico che ruota attorno ad esso: «questa fase emergenziale ha evidenziato la strategicità dell’industria marittima e della catena logistica, che rivestono importanza vitale per il funzionamento dell’economia del Paese, nonché la capacità di resilienza dei porti che hanno continuato ad operare, pur in termini di minore efficienza, anche nella fase di lockdown.

L’eccezionale situazione potrebbe richiedere l’individuazione di immediate ed urgenti misure di sostegno straordinario dell’economia marittima, nonché un’accelerata realizzazione o completamento di interventi ed investimenti, anche già programmati, con effetti nel medio e lungo periodo. Uno strumento è la definizione di misure volte ad agevolare la revisione/modifica dei contratti di concessione (demaniali e di servizi), finalizzata ad un adeguamento degli stessi ai mutati assetti dell’industria marittima. In considerazione del calo dei traffici marittimi (e del congestionamento di terminals) e della conseguente inutilizzabilità di aree portuali, potrebbe essere utile definire nell’immediato misure volte a garantire alle Autorità di Sistema Portuale (AdSP) un’istantanea flessibilità di intervento sugli strumenti urbanistici portuali, in deroga all’art. 5 della Legge 84/94, al fine di modificare la destinazione d’uso delle aree portuali inutilizzate. Occorre accelerare la realizzazione dei lavori di completamento dei Corridoi Ten-T e quelli relativi ai raccordi ed ai collegamenti ferroviari e stradali dell’ultimo miglio.

Un ulteriore strumento di impulso alla crescita può essere rappresentato dalle Zone economiche speciali (ZES) e dalle Zone logistiche semplificate (ZLS). Con riguardo ad esse, tuttavia, risulterebbe opportuno un intervento di revisione del quadro normativo di riferimento in un’ottica di sburocratizzazione. Al fine di sostenere l’economia del mare e promuovere progetti di intermodalità, anche in termini di sostenibilità ambientale, sarebbe particolarmente incentivante procedere alla conferma anche nel futuro (se non all’aumento) dei provvedimenti di ferrobonus e marebonus, incentivi già adottati e riproposti dal nostro Paese per garantire il sostegno di modalità di trasporto più ecologiche (mare, rotaia) rispetto a quella stradale» (21 maggio 2020).

L’Ambiente è un valore trasversale, che incarna e al contempo simboleggia l’idea di comunità, di casa comune, i cui abitanti hanno il dovere di cooperare per un bene che trascende l’interesse individuale.

L’Osservatorio ha ospitato le riflessioni del Cardinale Pietro Parolin sul tema dell’Ambiente, riguardato in un’ottica di ampio respiro: «Andrebbe accolto l’avvertimento della pandemia che ha svelato l’estrema fragilità di una modernità che si pensava solida e inattaccabile. Nell’alternativa tra la paura e la cooperazione si tratta di scegliere. Anche per la Chiesa è suonata l’ora di affrettarsi a diventare ciò che realmente è: popolo di Dio. Inclusivo e fraterno».

Prosegue il Cardinale: «La priorità non è l’economia, in quanto tale, ma l’essere umano. Il Covid-19 non ha provocato solo una crisi sanitaria ma ha colpito molteplici aspetti della vita umana: la famiglia, la politica, il lavoro, le imprese, il commercio, il turismo ecc. Il carattere espansivo e interconnesso della pandemia ci ricorda costantemente l’osservazione di Papa Francesco che “tutto è connesso”. La priorità non è l’economia, ma la persona. Ciò implica anzitutto prendersi cura della salute. Tuttavia, la Dottrina Sociale della Chiesa, che è radicata nell’antropologia cristiana, ci ricorda che non ci si può limitare a curare solo la salute del corpo. Occorre badare all’integralità della persona umana, che dev’essere quindi l’obiettivo prioritario dell’impegno politico ed economico, in un’etica di responsabilità condivisa nella casa comune.

La pandemia ha rivelato tanto la nostra interdipendenza quanto la nostra comune debolezza, la fragilità condivisa. Quando dominava la logica della dissuasione nucleare, San Giovanni XXIII, nella Pacem in terris, sottolineò l’interdipendenza tra le comunità politiche: “Nessuna comunità politica oggi è in grado di perseguire i suoi interessi e di svilupparsi chiudendosi in se stessa”. E Papa Francesco nell’enciclica Laudato si’ sottolinea: “L’interdipendenza ci obbliga a pensare a un solo mondo, a un progetto comune”. D’altronde – lo ricordava Giovanni Paolo II nella Sollecitudo rei socialis – oggi siamo di fronte ad una interdipendenza tecnologica, sociale e politica, che esige urgentemente un’etica di solidarietà. Francesco ha rilanciato il tema dello sviluppo umano integrale nel contesto di una “ecologia integrale”, ambientale, economica, sociale, culturale, spirituale.

L’insegnamento sociale della Chiesa, a cui moltissimi riconoscono solidità di fondamento e di orientamento, dimostra di sapersi aggiornare con continuità per rispondere alle domande dell’umanità con coerenza e visione d’insieme. Di fronte all’estremizzarsi delle tendenze all’individualismo e all’autoreferenzialità, che si diffondono nel nostro mondo interconnesso da potenti mezzi di comunicazione e di informazione, spesso è proprio dalle periferie che può giungere una visione più umana. Ad esempio, dall’Africa ci propongono un concetto alternativo, da cui dovremmo lasciarci interpellare per pensare l’insieme e la comunità umana in modo solidale. È l’Ubuntu (in lingua bantu), cioè la “benevolenza verso il prossimo”: “io sono ciò che sono in virtù di ciò che tutti siamo”. Dobbiamo rinnovare le nostre relazioni e perseguire insieme la ricerca e l’impegno per un umanesimo integrale e solidale» (27 agosto 2020).

Del resto, per gli italiani la protezione dell’ambiente deve rivestire un’importanza centrale in un’agenda politica che aspiri ad ottenerne il consenso. Invero, stando ad alcuni sondaggi Ipsos, discussi durante il Festival dello sviluppo sostenibile, organizzato dall’ASviS, l’Alleanza per lo sviluppo Sostenibile (nel settembre 2020), il 71% degli italiani ritiene che se il governo non agirà subito per combattere il cambiamento climatico avrà fallito il suo compito, mentre il 66% dichiara di voler re-indirizzare il proprio voto se il partito di riferimento non prenderà azioni serie nei confronti del cambiamento climatico (24 settembre 2020).

SCARICA IL PDF DELL'ARTICOLO

[bws_pdfprint display=’pdf’]

Iscriviti alla Newsletter

Ricevi gli ultimi articoli di Riparte l’Italia via email. Puoi cancellarti in qualsiasi momento.

Questo sito utilizza i cookie per migliorare l'esperienza utente.