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Next Generation Eu e Pnrr: quando si faranno i conti veri sul Pil italiano? | Lo scenario

Due indizi fanno una prova: l’intero impianto di Next Generation Eu, nel quale si inserisce il Piano nazionale di ripresa e resilienza italiano, non è considerato un modello da replicare a livello europeo.

E poiché l’Italia è di gran lunga il primo beneficiario delle risorse previste da quel piano (con oltre 195 miliardi tra prestiti e sussidi) un giudizio negativo su Next Generation Eu rischia di tradursi in un giudizio negativo su come l’Italia gestisce il Pnrr.

Indizio numero uno: qualche giorno fa il Financial Times ha pubblicato un lungo articolo intitolato Il piano dell’Ue per la ripresa post-Covid sta fallendo?

L’analisi si concentra sull’Italia, con la prevedibile lista di problemi: troppi soldi in troppo poco tempo, rischio di frodi o sprechi per spenderli tutti, incerto impatto finale, la cautela di Filippo Taddei di Goldman Sachs (ex responsabile economico del Pd) che ricorda come gli anni degli investimenti principali sono il 2024 e il 2026.

Secondo indizio dei problemi con Next Generation: la proposta della Commissione per introdurre un coordinamento della spesa militare a livello europeo, intanto con 1,5 miliardi presi dal bilancio europeo, non è abbinata a una esplicita riproposizione del modello NextGen.

Cioè si dice che i fondi per gli acquisti comuni di armi e munizioni e per investimenti militari dovranno arrivare dal bilancio comune, ma Ursula von der Leyen non si avventura a promettere che saranno investimenti a debito, come è stato per NextGen.

Rimane difficile dire quanta parte dei 235,1 miliardi complessivi mobilitati – tra fondi europei e fondo complementare nazionale – riusciranno ad avere davvero un impatto sulla crescita.

Secondo l’ultima analisi del Pnrr Lab della Sda Bocconi, di febbraio, la parte di quelle risorse davvero spesa al momento è ancora minima: soltanto 18,6 miliardi, cui si aggiungono 27 miliardi circa di sconti fiscali che però non sono investimenti che aumentano il potenziale di crescita.

Anche quei 18,6 miliardi sono quasi tutte infrastrutture ferroviarie (oltre 12 miliardi), cioè investimenti che Ferrovie dello Stato, con la controllata Rfi, avrebbe fatto comunque, ma che con i soldi del Pnrr risulteranno più convenienti.

Ferrovie a parte, insomma, il Pnrr che è diventato vera spesa pubblica al momento si riduce a 3,1 miliardi per migliorare l’efficienza energetica di comuni e 300 milioni per gli edifici scolastici.

La revisione chiesta e ottenuta dal governo Meloni ha cercato di ridurre oneri ingestibili per i comuni più piccoli, sovraccaricati di progetti e risorse (anche se così molti progetti sono stati esclusi dal Pnrr e probabilmente saltati).

Riequilibrare le risorse tra comuni grandi e piccoli in base alla capacità di spesa non corregge però lo squilibrio territoriale: secondo i calcoli dell’Upb, a fine dicembre i comuni del nord avevano aggiudicato una percentuale di progetti più che doppia rispetto ai comuni del centro e del sud (23% contro 11%).

Anche soltanto da questi numeri si capisce perché l’impatto del Pnrr sulla crescita non potrà essere particolarmente entusiasmante.

Le ferrovie sono importanti, certo, ma non siamo nell’Ottocento: non è da lì che passa l’aumento del potenziale di crescita del Paese, soprattutto visto che sono progetti che già erano previsti da tempo.

Anche Ursula von der Leyen nella sua campagna personale per un secondo mandato alla Commissione non si concentra mai sull’impatto di Next Generation Eu: se la parte in teoria facile – spendere i soldi – è così incerta nei risultati, quella delle riforme che dovrebbero cambiare il Paese nel lungo periodo è ancora più vaga.

Ma, prima o poi, un bilancio di un piano che vale 750 miliardi per l’Ue e 235 per l’Italia andrà fatto.

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