Antonello Pasini, climatologo e ricercatore per il CNR, ha rilasciato un ampio intervento in esclusiva all’Osservatorio Economico e Sociale Riparte l’Italia in occasione del webinar online, dal titolo “Dalle Alpi al Mediterraneo, come impatta il cambiamento climatico”. L’evento è stato moderato da Carlo Cacciamani, direttore dell’agenzia ItaliaMeteo, e ha visto come ospiti anche Elisa Palazzi, climatologa e docente all’Università di Torino; e Piero Lionello, climatologo e docente all’Università del Salento.
È interessante approfondire il concetto di “rischio”, autore del libro “L’equazione del rischio”. Può spiegarci se c’è differenza tra pericolosità e rischio?
«Innanzitutto, quello che devo dire in quanto climatologo è che non c’è soltanto il cambiamento climatico dovuto al riscaldamento globale, ma ci sono anche altre cose. Il rischio, la nostra fragilità di fronte a questi fenomeni, siano queste ondate di calore enormi che possono impattare sulle città, siano questi eventi estremi, che sono l’altra faccia della stessa medaglia, soprattutto in una zona come il Mediterraneo in cui molti mi dicono “Se noi siamo invasi da questi cicloni africani, come mai ci sono anche eventi estremi”. Questo perché sostanzialmente questi cicloni riscaldano enormemente l’aria, ma anche il suolo e soprattutto il mar Mediterraneo. E non hanno la forza di rimanere sempre su di noi, ma quando se ne vanno e arrivano le correnti fredde ecco che arrivano contrasti estremamente forti e nascono quei fenomeni come le flash flood (alluvioni lampo) e così via.
«Ma non esiste soltanto quello che succede in atmosfera. Il rischio di danni dipende anche da dove impatta questo cambiamento climatico. Quindi, se impatta su territori o società più o meno fragili. Abbiamo sempre parlato di Mediterraneo e Italia, ma il cambiamento climatico colpisce dovunque. Pensiamo all’uragano Katrina, che ha fatto quello che ha fatto a New Orleans, oppure le inondazioni in Bangladesh. Ora, perché i danni sono maggiori e la vulnerabilità è maggiore in certi territori invece che in altri? Perché, per esempio, a New Orleans, almeno le classi più abbienti sono migrate, magari per sei mesi, poi magari sono tornati hanno incassato un premio assicurativo ed è ecco che hanno ricostruito, e tutto, più o meno è ricominciato come prima. Dopo un’alluvione in Bangladesh a queste persone rimane pochissimo e quella è la fine di tutto».
«Ma tornano a noi, ecco questa è l’equazione (R=PxVxE) che nel mio libro chiamo “l’equazione dei disastri” è l’equazione del rischio. Il rischio, come vedete, è il prodotto di tre fattori sostanzialmente: la pericolosità, dovuta agli eventi climatici; la vulnerabilità, che è propria del territorio; e l’esposizione, che è quella nostra e dei nostri beni. È chiaro che questa è una valutazione approssimativa di quello che è il rischio, perché questi tre fattori sono tre probabilità che dovrebbero essere assolutamente indipendenti l’uno dall’altra. Spesso non è così perché la vulnerabilità del territorio, per esempio la cementificazione, l’asfaltatura nelle città e nei centri urbani, posso retroagire sulla pericolosità dei fenomeni meteorologici. Dobbiamo diminuire il valore di questi tre fattori se vogliamo diminuire il rischio».
«La pericolosità è difficile diminuirla, ma quantomeno possiamo pensare di non aumentarla. Perché le ondate di calore dipendono dal riscaldamento globale, i massimi di precipitazione dipendono da quanta energia c’è in atmosfera, sostanzialmente molto dal calore che viene emanato dal mediterraneo. Quindi noi sappiamo bene che non pensiamo mai di tornare indietro con la temperatura. Pensiamo di stabilizzarci, possibilmente nel mezzo. I danni, la pericolosità meteo-climatica che vediamo oggi sostanzialmente ce la terremo. Allora cerchiamo di diminuire il resto».
«La vulnerabilità può essere di un terreno di campagna, ma può anche essere la vulnerabilità delle città. Quando su un terreno con copertura naturale in campagna cade della precipitazione, circa il 50% si infiltra in maniera superficiale o profonda, un 40% evapotraspira dal suolo e dalle piante, e solo un 10% defluisce in maniera orizzontale in superficie. Poi ci sono vari strati di urbanizzazione, si riduce l’infiltrazione e l’evaporazione – perché non ci sono le piante – e un 55% di acqua defluisce orizzontalmente in superficie».
«È chiaro che in queste condizioni vie e strade possono diventare fiumi in piena, che travolgono qualsiasi cosa creando grossi problemi. Come diminuire la vulnerabilità? Non abbandonando le campagne, ma mantenendolo. Non asfaltando e cementificando in questa maniera, quindi rendendo le città più resilienti e verdi, in modo tale che la pioggia violenta possa essere assorbita di più. Anche con lavori idrici, evitando cose che abbiamo fatto: tombamenti di torrenti sotto le città e così via. Perché il territorio italiano è obiettivamente fragile. Gran parte dei territori non in pianura, sono interessati dalle frane».
«Nell’ultimo cinquantennio in Italia abbiamo avuto un totale di più di 1.630 morti per quanto riguarda frane (2/3) e inondazioni (1/3). Tutte le regioni sono state colpite, così come tutte le province. I comuni colpiti sono stati ben più di 2.100. Tra frane e alluvioni tutto il territorio italiano è assolutamente a rischio. Addirittura, l’IRPI fa un calo sulla mortalità media per frane e inondazioni nelle regioni italiane e vediamo che al primo posto c’è il Trentino-Alto Adige, al secondo la Valle d’Aosta e poi la Campania e tutte le altre. Abbiamo un territorio estremamente fragile che dobbiamo mantenere, sia in campagna che in città».
«L’ultimo fattore è l’esposizione, ovvero dove noi andiamo a metterci come persone e i nostri beni. Bisogna da un lato creare una cultura del rischio, dovremmo fare come fanno i giapponesi con i terremoti, cioè a scuola insegnare cosa fare quando arriva un’alluvione lampo, ma anche cose banali a cui magari non si pensa. Magari c’è chi si rifugia in cantina invece che rifugiarsi in un piano alto. Dall’altro è necessaria anche una cultura della legalità, perché purtroppo in Italia dobbiamo smettere di pensare che fare un abuso sia una furbata del genio italico per aggirare la legge perché tanto alla fine me ne vengono solo benefici. Non è vero. Un abuso non è una furbata, è una cosa che ti può portare alla perdita di beni e qualche volta anche alla perdita della tua vita».
Dove c’è la possibilità di agire per cercare di cambiare un po’ la direzione?
«C’è una buona notizia: il cambiamento climatico, quello recente, è stato creato dall’uomo. Questa non è una sciagura, è una buona notizia, perché altrimenti, se fosse stato naturale, non avremmo potuto fare altro che difenderci, cioè adattarci. Una volta che sappiamo che le cause a monte sono le nostre dobbiamo agire sulle cause mitigando le nostre emissioni di gas serra e così via, per raggiungere questo mix fra adattamento e mitigazione».
«Dobbiamo adattarci, perché alcuni danni climatici li vediamo e ci saranno sempre. Quello è gestire l’inevitabile. Ma dobbiamo evitare l’ingestibile. Cioè, se andiamo a 5 gradi di aumento, i ghiacciai li abbiamo persi così come le risorse idriche, e una serie di cose non sarebbero più gestibili. La buona notizia è che sappiamo cosa fare e dobbiamo farlo. A partire dalle spinte dal basso, con gruppi di risparmio energetico, fino alla spinta sui politici, perché poi la transizione deve essere gestita da chi gestisce la res pubblica».