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Il fondo Made in Italy non basta per le imprese ad alto potenziale | Lo scenario

Nonostante gli incentivi alle imprese per aprirsi al mercato, continuiamo ad assistere a un numero grande, allarmante, di delisting. I capitali privati che entrano a sostegno di operazioni di delisting, se sono forniti da private equity, il più delle volte lo fanno in ottica di successiva ulteriore vendita della azienda a terzi, anche in attivazione della clausola di trascinamento alla vendita dell’intero capitale sociale.

C’è dunque del potenziale valore nelle nostre imprese che viene portato fuori dal mercato e troppo spesso indirizzato verso governance straniere, in virtù e in attivazione di successive clausole di trascinamento alla vendita. Occorre vere più investitori di mercato capaci di non avere ansia di liquidità giornaliera. Servono fondi chiusi che investano sul mercato. Servono Eltif, holding di partecipazione, permanent capital e fondi evergreen. È urgente e necessario.

Tutte le matricole per i primi tre-cinque anni sono per natura fortemente illiquide per vare ragioni, banalmente anche perché sono state aziende private per decenni, per generazioni, e il mercato non le conosce. Gli stessi azionisti storici calibrano la dimensione del flottante a quanto serve per accedere al mercato. Volendo utilizzare una metafora, anche il ghiaccio non diventa subito vapore, ma inizia a sgocciolare e poi si liquefà con i tempi della fisica. Così le aziende sul mercato trovano la liquidità nel tempo, ma devono essere accompagnate da fondi capaci di prendere posizioni senza dover sottostare a stringenti regole di liquidità giornaliera.

La funzione dei mercati borsistici, unico vero baluardo alla incessante vendita di gioielli italiani a buyer stranieri, va rinforzata con anchor investor non soggetti a continua ricerca di liquidità giornaliera, che siano capaci di investire nelle nostre Pmi tipicamente “non liquide”, con visione di lungo termine. Oggi la stragrande parte degli investitori sui mercati, invece, sono fondi Ucits tenuti al rispetto di elevatissimi indici di liquidità. Servono quindi al più presto più operatori di private investment in public equity, Eltif, holding di partecipazioni, fondi chiusi specializzati. Un mercato si anima quando a una proposta frazionata corrisponde una domanda altrettanto frazionata e interessabile a ciò che viene proposto.

Ci serve sfruttare e tutelare la leva che il mercato borsistico propone a sostegno della crescita delle nostre imprese con governance italiana. Si parla di fondo sovrano o fondo per il Made in Italy, bene, ma l’importante è che non sia la riproposizione di un ulteriore fondo private equity indirizzato e gestito da funzionari di Stato. Se si vogliono orientare fondi pubblici a tutela e sviluppo delle nostre migliori imprese lo si faccia, in leva di competenze e capitali privati, sostenendo operazioni di private investment in public equity sul mercato. Dobbiamo scongiurare che sia un investitore autoreferenziale diretto, di unica ispirazione, alimentazione e guida statale, poiché rischierebbe di trasformarsi in un nuovo Iri.

Abbiamo oggi particolare bisogno di capitali pazienti che siano in grado di supportare progetti di crescita e aggregazione delle nostre migliori imprese, preservandone l’italianità di governance, a beneficio dello sviluppo strategico di distretti e filiere. Dobbiamo permettere e spingere il private equity ad alimentazione statale, già esistente e di nuova impostazione, a svolgere anche attività dirette o, meglio ancora, indirette di anchor investor in operazioni di pre-ipo e di investimento privato in equity pubblico strutturato. È perciò fondamentale attrarre e mantenere società italiane sui listini borsistici. Non è utopia: con il fondo Ipo Club e IpoClub 2, i prebook dinamici Ipo Challenger, abbiamo tracciato un percorso riscontrando successo che auspichiamo possa trovare replica, diffusione e sostegno sistemico.

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