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Il calice amaro del Sud. Niente più vino in Sicilia e Puglia | L’intervento di Giuseppe Coco

Quando si discute di riscaldamento globale, molti pensano che i cambiamenti che dovremo affrontare siano limitati alla scomodità di far fronte a temperature un po’ più alte per alcuni decenni. Invece ci sono aspetti concreti su cui il clima potrebbe avere un impatto e che sistematicamente trascuriamo. Esiste ad esempio una consolidata letteratura sugli effetti del cambiamento climatico sulle viti e sulla produzione di vino almeno dall’inizio del secolo, che ne mette in luce anche alcuni aspetti paradossali. Il riscaldamento, ad esempio, ha reso le annate di Bordeaux degli ultimi decenni le migliori di sempre, perché praticamente a quelle latitudini le annate migliori coincidevano con quelle con temperature più alte. Anche per questo oggi praticamente non ha senso la scena tipica dei film degli anni 60, in cui un esperto chiede una particolare annata di Chateaux Laffitte. Negli ultimi decenni sono tutte buone. 

Negli anni passati alcuni agricoltori intraprendenti hanno cominciato a esplorare la possibilità di produrre vino nel sud dell’Inghilterra, in Sussex ed Essex, dato che i giorni di sole e le temperature sono aumentati in maniera tale da rendere praticabili almeno alcune varietà, quelle che maturano più velocemente. Si tratta delle avvisaglie di uno spostamento a nord delle zone coltivabili a vite che avverrà in futuro. In uno straordinario articolo dell’Economist di fine anno (2023) si preconizza il cambiamento definitivo della geografia del vino in Europa molto a breve, uno o due decenni al massimo. Se vi state chiedendo come questo impatterà sulla coltivazione di vite in Italia, sta per avvenire quello che pensate.

Se il trend di aumento delle temperature persisterà, larghe aree del sud diverranno insostenibili per la coltivazione della vite. Al 2050 potrebbero essere impattate quasi interamente la Puglia e la Sicilia. Potrebbero rimanere coltivabili alcune aree interne della Basilicata e Campania, probabilmente cambiando i vitigni. In realtà il cambiamento potrebbe gradualmente impattare anche zone con vitigni e produzioni di altissimo valore, come quelle toscane e potenzialmente tutto il sud della Francia, ma certamente prima il Mezzogiorno d’Italia. Diverrebbero utili per la coltivazione, oltre alla Inghilterra meridionale, vaste zone della Germania e della Polonia. Secondo alcuni addirittura le zone coltivabili per le varietà più popolari come Cabernet e Chardonnay potrebbero aumentare sensibilmente sul continente invece che diminuire. A finire quindi non sarà la coltivazione di vino ma la coltivazione di vino nel sud Europa.

Nelle nostre terre si vedono delle avvisaglie, dovute in parte alla siccità piuttosto che alle temperature, ma ancora affrontabili sostanzialmente anticipando le raccolte (che si spingono indietro fino all’estate piena e vengono fatte talvolta di notte). Ma le conseguenze non sono ancora disastrose. Come potrebbero diventarlo? Secondo alcuni una estate particolarmente calda, anche per gli standard attuali, potrebbe letteralmente distruggere le viti e rendere quasi impossibile il reimpianto nelle nuove condizioni climatiche.

A fronte di tutto ciò, vi immaginereste che ci siano iniziative continue per studiare concretamente e affrontare l’emergenza annunciata? Dopotutto nelle nostre regioni ci sono valanghe di fondi dedicati all’agricoltura e alla coesione e sviluppo, fondi comunitari che difficilmente potrebbero essere più coerenti con i mantra ripetuti costantemente negli ultimi anni: lotta al cambiamento climatico, sostenibilità e resilienza. Tutto quello che però queste politiche riescono ad esprimere sono esperti in coesione, sostenibilità, resilienza, parole vuote dietro le quali si nasconde il fallimento dell’azione pubblica, produttiva di effetti concreti.

Al contrario abbiamo un esercito di esperti non di un oggetto particolare, come la viticoltura, ma del veicolo, ad esempio la coesione. Nessun soldato o tecnico, tutti generali, intenti ad impostare la strategia e ad enfatizzare la sua necessità in innumerevoli convegni e consultazioni rinvenibili nei siti delle Regioni a riprova dell’attivismo nei popolari campi della coesione, sostenibilità e resilienza. Forse è questa la vera differenza tra la Cassa per il Mezzogiorno e la Politica di Coesione. In quel caso 300 persone in gran parte ingegneri, agronomi e architetti realizzarono opere pubbliche e l’infrastrutturazione di base perché sapevano farlo. Oggi una Pubblica Amministrazione enorme dominata da giuristi ed economisti (quando va bene) non è in grado di realizzare niente.

(Articolo pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno)

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