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I soldi che ci darà l’Europa rischiano di perdersi nella burocrazia italiana

Prestiti o sovvenzioni? 500 o mille miliardi? E’ una nuova dimensione della politica europea o un’esperienza temporanea e limitata da chiudere al più presto, appena passata l’epidemia? La proposta Merkel – Macron sul Fondo per la ripresa europea e la resistenza montata da quattro piccoli – ma cruciali – paesi, come Austria, Olanda, Svezia e Danimarca hanno aperto un capitolo decisivo per il futuro dell’Europa e per le sue ambizioni.

Se, tuttavia, confrontiamo il dibattito attuale con quello che fece seguito alla crisi finanziaria del 2008 possiamo misurare la svolta compiuta dal progetto europeo. Per quanto i quattro paesi renitenti possano erodere la portata e l’efficacia del Fondo, per la prima volta l’Unione europea si troverà titolare di un “buono del Tesoro comune” (la definizione è di Angela Merkel) i cui proventi saranno distribuiti secondo le necessità di singole regioni: i Padri Fondatori del sogno europeo hanno di che festeggiare.

Al di là delle battaglie di principio, dettagli e cifre che emergeranno nelle prossime settimane definiranno, nello specifico, la portata e l’ambizione del progetto rispetto all’emergenza coronavirus. Per l’Italia, tuttavia, c’è un problema in più, che Bruxelles non può risolvere, ma che solo Roma può superare. In un modo o nell’altro – prestiti o sovvenzioni –  dall’Europa arriverà un consistente flusso di miliardi. E’ il tesoretto che può assicurare la ripresa. Di fatto, probabilmente anche gli unici soldi di cui disporremo: come e dove utilizzarli?

Per gli standard normali, l’impegno profuso dal governo per far fronte all’impatto del virus è enorme.

Dopo aver passato anni a scontrarsi su qualche decimale di deficit, ci avviamo ad un disavanzo pubblico 2020 appena sotto il 10 per cento. Eppure, questi soldi sono appena sufficienti a tenere la barca a galla. Nella maximanovra da 55 miliardi di euro, appena varata, l’imperativo è la sopravvivenza. Quasi metà – 25 miliardi di deficit in più – sono assorbiti da ammortizzatori sociali vecchi e nuovi: oltre 12 miliardi di euro dalle necessità di finanziamento della cassa integrazione, 6,5 miliardi dal bonus per gli autonomi, altri 6 miliardi dai contributi a fondo perduto per artigiani e partite Iva.

Il salvacondotto alle famiglie per attraversare la quarantena, insomma. Aggiungeteci i 6 miliardi agli enti locali per le necessità immediate, i 5 miliardi per gli interventi urgenti nella sanità, i 3 miliardi per tenere in piedi l’Alitalia, i 12 per sbloccare i pagamenti arretrati alle imprese: la maximanovra era indispensabile, ma il suo orizzonte non arriva più in là di qualche mese. E poi?

Sbloccare gli investimenti era una priorità anche prima che si prospettasse l’aiuto europeo. Oggi, lo è dieci volte di più.

Tuttavia, ridurre la questione ad una applicazione sbrigativa a tappeto del “modello Genova”, dello strumento dei commissari e delle procedure eccezionali rischia di scavalcare la dimensione effettiva del problema, che è molto più pervasivo, radicato e ramificato di quanto suggerirebbe  la paralisi di un pugno di grandi opere. Lo scandalo più che il tempo burocratico necessario a realizzare una galleria autostradale, è quello che occorre per spostare il tombino di una fognatura comunale: non tutto si può fare a colpi di commissario.

A Palazzo Chigi stanno ultimando una ricognizione dei meccanismi degli investimenti pubblici. Ne viene fuori che il tempo medio per realizzare un’opera di importo inferiore a 100 mila euro (l’equivalente della ristrutturazione di un appartamento) è di 2 anni e 3 mesi.

Per un’opera che supera i 100 milioni di euro, il tempo medio di realizzazione diventa biblico: 15 anni e 8 mesi.

Cosa succede in questa eternità? La parola chiave per capirlo è “tempo di attraversamento”. Che non è il traghettamento al di là di una palude, sia pure metaforica, ma semplicemente l’obbligo di compiere le procedure burocratiche in serie, una dopo l’altra e solo dopo che l’altra si è conclusa. E’ come se, per avere una carta d’identità, uno non potesse produrre uno stato di famiglia, se prima non si è procurato il certificato di residenza, fare le foto, se ancora non ha in tasca i due certificati, comprare le marche da bollo, se già non ha certificati e fotografie, chiedere il bollettino postale, se non ha già marche da bollo, foto e certificati. Eccetera.

Il 54,3 per cento dei ritardi di una opera pubblica si verificano in questi tempi di attraversamento. Su 15 anni e 8 mesi di tempo medio di realizzazione di un’opera da 100 milioni di euro, insomma, 8 anni vengono persi non nei cantieri, ma perché i passaggi burocratici non possono essere avviati in parallelo. Solo in serie.

Per dimezzare i tempi degli investimenti, basterebbe, dunque, una direttiva amministrativa. Il paradosso, tuttavia, è che questa amministrazione, che si vorrebbe occhiuta, è in realtà cieca. Il 37 per cento degli investimenti che vengono seguiti dai ministeri, dalle diverse agenzie, compresa quella anticorruzione, non producono – risulta a Palazzo Chigi – dati aggiornati. Nessuno, in altre parole, ha il polso della situazione dell’investimento: lavorano, non lavorano, sono fermi e perché? Elemento che diventerebbe cruciale se si introducessero strumenti amministrativi e legislativi che consentano di spostare i finanziamenti da opere ferme e incagliate ad altre opere urgenti.

O ad opere in cui, almeno, c’è qualcuno che lavora. Non sempre, infatti, la responsabilità dei ritardi ricade sulle lentezze della burocrazia. Spesso, il problema è alla radice, nell’assegnazione dell’appalto. Un terzo delle opere pubbliche è fermo perché è entrata in crisi l’impresa appaltatrice, evidentemente non abbastanza solida, e il cantiere si è svuotato.

Dall’Europa arriveranno probabilmente i soldi. Ma, poi, bisognerà dimostrare, anzitutto, di averli spesi.

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