Analisi, scenari, inchieste, idee per costruire l'Italia del futuro

Ecco come cambia il mondo se The Donald torna presidente | Lo scenario di Guido Salerno Aletta

In giro per il mondo, la prospettiva della rielezione di Donald Trump aleggia come uno spettro.

Terrorizza un po’ tutti, perché è la manifestazione in campo politico di una identità sociale e imprenditoriale fuori moda, legata com’è ai modelli di business tradizionali, come l’immobiliare in cui gli appartamenti del grattacielo o le villette della lottizzazione devono essere venduti, magari a sconto per fare presto, ma tutti: pena il fallimento dell’iniziativa.

Trump vuole vedere i soldi veri, quelli che servono per pagare le imprese di costruzione e incassare il suo ricco profitto.

La fuffa dei mutui subprime, che hanno intossicato l’America, gli mette l’orticaria, perché ha pompato il mercato fino a distruggerlo: crede nel lavoro, nel risparmio e non nel debito in servizio permanente effettivo che da anni divora il ceto medio americano.

È inguaribilmente terragno, Trump: la stessa idea che persegue, quella dei conti commerciali degli Stati Uniti che devono tornare in pareggio, cozza con la teorizzazione monetaria di un centro dell’impero che scambia il proprio deficit mercantile nei confronti della periferia con la protezione militare apprestatale.

E che, anzi, vede nell’ingigantirsi del disavanzo dei conti la dimensione crescente del proprio potere nei confronti delle colonie chiamate a finanziarlo vendendogli le proprie merci.

Di qui, la sua richiesta ultimativa alla Germania di mettere a pari i conti, fin dal suo primo G7 a Taormina: un pareggio da raggiungere magari aumentando le spese per la difesa nell’ambito della Nato che comportano l’acquisto di armamenti americani.

L’acquisto di gas russo era già nel mirino di Trump contrario al raddoppio del North Stream: le sanzioni dopo l’invasione dell’Ucraina e il sabotaggio delle condotte sottomarine sono calzate a pennello.

In un modo o nell’altro, la Germania andava ricondotta a più miti consigli: da un’orbita geopolitica, per uscire serve una guerra. Trump ha fatto lo stesso ragionamento alla Cina di Xi Jinping: tanto vende agli Usa, tanto deve comprare.

I dazi a questo servono, ad appianare il deficit.

Di Taiwan, poi, interessa solo la produzione di microchip avanzati: quando sarà stata riportata in America, anche quest’isola sarà abbandonata al suo destino.

Non sarà la prima volta, né l’ultima.

Il ritorno alla presidenza metterebbe in crisi tre assetti strategici, in cui oggi è il contribuente americano a dover pagare il conto salato: in primo luogo, c’è il versante europeo con la guerra in Ucraina, per via del sostegno militare e finanziario a Kiev che ricade soprattutto sugli Stati dell’Unione, anche se con l’attivazione del Lend and Lease Act non è ben chiaro quale sia il saldo vero di questi aiuti.

in secondo luogo, c’è la questione mediorientale, visto che la libertà di navigazione nel Mar Rosso viene continuamente ostacolata dagli Houthi yemeniti con l’invio di droni esplosivi e il lancio di missili.

C’è di mezzo il traffico commerciale diretto al Mediterraneo attraverso Suez, e non certo quello verso gli Usa, che intervengono come i primi garanti della libertà dei mari.

In terzo luogo, ci sono le relazioni con l’Iran, che andrebbe isolato definitivamente per eliminarne la minaccia esistenziale portata ad Israele: non servirebbero a nulla, invece, i tanti e ripetuti tentativi di destabilizzazione, con le rivolte mediatizzate che strumentalizzano la giovane di turno che si ribella all’imposizione del velo islamico e che subisce per questo frustate a centinaia sulla schiena.

C’è dunque un’America unilateralista da ultimo incarnata da Joe Biden, che ripropone continuamente e a ogni costo l’intervento militare a garanzia della democrazia e degli equilibri geopolitici globali; e c’è l’America di Trump che si fa interprete di un grande ripiegamento: ognuno dovrà pagare il prezzo della sua pace, a cominciare dall’Europa che sarà chiamata a sostenere da sola il costo del conflitto in Ucraina, ovvero acconciarsi alla sua neutralità garantendone l’indipendenza, e che se vuole garantirsi la circolazione mercantile nel Mar Rosso dovrà impegnarsi direttamente invece di appartarsi tartufescamente sotto le ali dell’Aquila statunitense.

Israele, in prospettiva, dovrebbe finalmente acconsentire alla creazione di uno Stato palestinese, comunque smilitarizzato, come era nei piani di Trump che portarono alla stipulazione dei Patti Abramo, volti a creare un unico blocco geopolitico anti-iraniano.

Ma la rielezione di Trump, se mai ci sarà, arriverà troppo tardi, a cose fatte: per questo il premier Benjamin Netanyahu preme senza sosta su Gaza e in Cisgiordania.

La questione palestinese va superata prima.

La Cina dovrà rifarsi i conti: negli anni ultimi vent’anni è diventata via via sempre più ricca vendendo sui mercati aperti dell’Occidente, soprattutto per essersi categoricamente rifiutata di rivalutare la propria moneta, mantenuta artificiosamente competitiva: la sua volontà di potenza va ora contrastata con il divieto generalizzato posto alle esportazioni di tecnologie informatiche di punta, e in particolare di quei microchip che non solo vengono incorporati nelle produzioni industriali per sbaragliare la concorrenza ma che vengono impiegati per accrescere le capacità di controllo sociale attraverso l’intelligenza artificiale e per competere in campo militare.

La guerra, ibrida o tradizionale, si combatte sempre più con l’informatica.

Da una parte, c’è il sogno americano di Trump: quello di tornare a un’America prospera, che vive dell’impegno quotidiano dei suoi cittadini, capace di sbaragliare la concorrenza internazionale per l’indomita capacità delle sue imprese.

Dall’altra parte, c’è la realtà di un impero che si prolunga ubiquo militarmente e ancor più politicamente, che si erge a garante di una «pax americana» sempre più incerta e costosa da imporre, e che sfrutta il predominio del dollaro per mantenersi ancora forte.

Ma è questo dispendio di energie che ormai, secondo Trump, non magnifica più la forza degli Usa ma li indebolisce.

È tra queste due visioni che i cittadini americani sceglieranno il prossimo 6 novembre: al resto del mondo non resterà che prenderne atto.

SCARICA IL PDF DELL'ARTICOLO

[bws_pdfprint display=’pdf’]

Iscriviti alla Newsletter

Ricevi gli ultimi articoli di Riparte l’Italia via email. Puoi cancellarti in qualsiasi momento.

Questo sito utilizza i cookie per migliorare l'esperienza utente.