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Donne e politica: quando il (lento) progresso si traveste da traguardo | L’analisi di Chiara Vincenzi

Sempre più donne salgono ai vertici della politica, in Italia e nel mondo. O almeno così sembrerebbe. Impossibile ignorare l’ascesa di numerose leader che negli ultimi anni hanno segnato record e traguardi, portando con loro voci di “soffitti di cristallo” infranti e di inarrestabili “rivoluzioni rosa”. Ma siamo sicuri che questa ondata di nuove voci femminili nel mondo della politica sia stata così travolgente?

La prospettiva globale

Secondo quanto riportato nella mappa “Women in politics: 2023”, creata da Inter-Parliamentary Union (IPU) e UN Women, a livello globale le donne compongono solo il 26,5% dei Parlamenti, con una punta del 45,7% nei Paesi nordici, mentre in Europa il dato non riesce ancora a scavalcare la soglia del 30%. Insomma, considerando i numeri registrati nel 2021 – dove la percentuale mondiale di donne nei palazzi del potere era ancora inferiore, 25,6% – si può notare una timida crescita, ma non certo una travolgente rivoluzione.

I numeri diventano particolarmente sconfortanti quando si vanno a osservare i vertici dei Ministeri con portafoglio, dove le donne rappresentano solo il 22,8%. L’analisi, inoltre, evidenzia una questione ancora più interessante da osservare quando si esaminano da vicino i ministeri maggiormente affidati a donne. Al vertice di questa classifica, con una schiacciante percentuale del 84% di ministre, ci sono i dicasteri che si occupano di Diritti umani e parità di genere, seguono quelli che riguardano Famiglia e infanzia (68%) e Inclusione sociale (49%). Rimangono pochissime le ministre a cui viene assegnato un ruolo nell’Energia (11%), nei Trasporti (8%) e nella Religione (7%).

Il caso italiano

Senza andare troppo lontano, possiamo osservare la situazione che caratterizza l’Italia del Governo Meloni. Un caso rilevante dal punto di vista storico per la nomina della prima donna premier, dopo 76 anni di Repubblica e 30 presidenti del Consiglio uomini. Ma il corpo di governo designato dalla Presidente del Consiglio, conta solo 6 donne su 24 ministeri, peraltro tutti più o meno conformi ai campi di interesse rilevati dalle statistiche della mappa di UN Women. Un dato così basso non veniva registrato da quando il governo Monti aveva scelto di mettere in campo solo 3 ministre su 18.

Nel frattempo, l’opposizione ha eletto alle primarie del Partito democratico Elly Schlein che, con 587.010 voti (circa 53,7%), si è aggiudicata il ruolo di prima segretaria donna del partito, nonché più giovane ad aver assunto la carica. La sua posizione inedita porta con sé il peso di grandi speranze, che hanno fatto parlare di una “rivoluzione politica”. È stata lei stessa a dichiarare ai giornalisti dopo l’annuncio della sua vittoria: «Insieme abbiamo fatto una piccola-grande rivoluzione, e anche stavolta non ci hanno visto arrivare». Il suo mandato è appena iniziato, ma la domanda sorge spontanea: riuscirà Schlein laddove ogni suo predecessore ha fallito? Ai posteri l’ardua sentenza, ma nasce il sospetto che le sia stata affidata una missione titanica e molto al di sopra delle più ragionevoli aspettative.

Le eccezioni e la regola

Ponendo il caso italiano nel quadro globale, risulta evidente come questa sia più una (recente e non consolidata) eccezione e non la regola. Il tema della disparità di genere nell’ambito della leadership politica mondiale è un tema complesso e radicato nel tessuto stesso della società. A evidenziarlo è ancora una volta la mappa “Women in politics: 2023”: a livello mondiale solo l’11.3% dei Paesi hanno donne a capo dello Stato, e solo 19 su 193 governi sono guidati da donne. È evidente che, nonostante piccoli passi avanti e qualche sporadico successo, la strada delle donne nell’ambito della politica è ancora poco battuta e tutta in salita.

Ma le donne sono abbastanza brave?

E se il motivo per cui le donne non riescono a emergere fosse la meritocrazia? Certamente qualcuno se lo sarà chiesto. Ma, partendo dal presupposto che il principio di meritocrazia per essere valido dovrebbe prevedere pari opportunità di partenza e solo in seguito la selezione dell’eccellenza, uno studio del SSNR intitolato “Leading the Fight Against the Pandemic: Does Gender ‘Really’ Matter?” sembra smentire questo dubbio.

I ricercatori che hanno sviluppato l’analisi, prendendo in considerazione 194 Paesi, hanno individuato come, in quelli guidati da donne, le misure di isolamento durante la pandemia da Covid-19 sono state prese più rapidamente e, di conseguenza, la media dei decessi è stata la metà rispetto ai Paesi guidati da capi di Stato uomini. «Gli studi dimostrano che effettivamente, laddove c’è un numero consistente di donne in un governo, le iniziative politiche sono diverse, orientate alle politiche sociali, più egualitarie, attente ai bisogni della famiglia. E a beneficiarne, indirettamente, sono anche gli uomini», afferma Chiara Saraceno, docente di Sociologia della famiglia all’università di Torino.

Quando saremo pari?

Quindi, a che punto si trova la parità di genere? Secondo quanto riportato dal Global Gender Gap Report 2022, realizzato dal World Economic Forum, sarà necessario attendere altri 132 anni prima che si arrivi alla chiusura di questo divario. Un dato problematico, ancor più se osservato accanto a quello del 2020, che ipotizzava il raggiungimento del traguardo entro “soli” 100 anni. Insomma, la parità continua a presentarsi come una meta sfuggente. Questi rallentamenti nei progressi mostrano quanto sia facile retrocedere dai propositi di eguaglianza stipulati, ma anche quanto sia importante non perdere il focus.

È bene notare, inoltre, che questa riflessione si concentra sulla mera distinzione uomo/donna, ma il gap diventa una voragine ancora più ampia e profonda quando si inseriscono nuove variabili – come l’etnia, l’aspetto fisico, le abilità psicomotorie, l’identità di genere, l’orientamento sessuale e religioso, etc. Insomma, segniamo i progressi conseguiti e li celebriamo, ma siamo ben lontani dal traguardo finale.

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