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[L’Intervento] Massimiliano Atelli (Corte dei Conti): «Occorre creare un polo di formazione delle eccellenze per dar vita ad una nuova classe dirigente»

L’uscita del nuovo libro di Sabino Cassese – una riflessione ricca, articolata e profonda sul “buon governo” – è anche l’occasione, per l’ex ministro del governo Ciampi, per auspicare l’avvento di una nuova classe dirigente (l’autore si riferisce essenzialmente al settore pubblico, ma con alcune differenze il discorso è riferibile in certa misura anche al settore privato).

Il punto è importante, ma solleva subito una domanda di fondo: ci servono solo persone nuove, cioè talenti naturali (ammesso che in questo campo si possa impostare così la questione), oppure, piuttosto, ci occorrono persone – già mediamente capaci di loro – da rendere, mediante appositi percorsi formativi, “anche” all’altezza di guidare – settore per settore – milioni di persone?

I talenti naturali sono una risorsa formidabile, ma statisticamente non abbondano (in ogni tempo e in ogni dove).

Per dare un presente migliore e un futuro meno incerto a 60 milioni di italiani, non ne sarebbero sufficienti due o tre. Ne occorrono decine.

Credo, allora, che ci occorrano soprattutto persone – già mediamente capaci di loro – da rendere, mediante appositi percorsi formativi, “anche” all’altezza delle alte responsabilità da affidare loro, affinché guidino il Paese (anzi, il sistema-Paese) verso, appunto, un presente migliore e un futuro meno incerto.

Come si fa?

Beh, si potrebbe iniziare traendo – con umiltà – utili insegnamenti dagli errori di sistema, compiuti sino a oggi.

Da anni si invoca, da noi, la creazione di un polo di formazione delle individualità d’eccellenza.

Un’ENA italiana, per dirla in estrema sintesi.

Nulla di realmente simile si è sinora però visto, qui in Italia, perché, va detto, è impraticabile – nel nostro contesto culturale, sempre diffidente (per usare un eufemismo) verso la meritocrazia – replicare un modello che, apertamente, esalta le capacità del singolo per vocarle allo sviluppo all’interno di un sistema relazionale che affonda le sue radici anche sulla (comune) provenienza da quel polo.

Questo deficit va colmato, superando quella cultura.   

Ancora (guardando nuovamente al sistema francese), alla pratica sul campo, e quindi all’esperienza, si dà dignità non minore che allo stare curvi sui libri.

Di qui, sistemi di interscambio (sì, interscambio) che prevedono – per dirigenti, ambasciatori e, persino (cosa che per alcuni settori dell’opinione pubblica sarebbe considerata ai limiti dell’eresia, in Italia), magistrati – utili periodi di training con applicazione, a tempo, a esperienze di amministrazione attiva.

Non solo nelle strutture ministeriali, oppure nei grandi enti di Stato, ma anche nelle rappresentanze diplomatiche all’estero (in questo caso, ovviamente, per dirigenti e magistrati), o, ancora, nelle grandi società a partecipazione pubblica, quotate e no.

Domina, per converso, nel modello italiano, la cultura dei “compartimenti stagni”, nella quale chi è avviato ad un certo tipo di ruolo deve, soprattutto, stare sui libri e stare lontano dalla pratica attiva.

Un sistema, questo, che produce, per un verso, preparazioni teoriche medio-alte e, per altro verso, distanza, se non diffidenza (o, peggio, sospetto), rispetto alle cose concrete e alla loro intrinseca forza, e, a fortiori, verso tutti i campi diversi da quello, specifico, al quale si è stati predestinati sin dal principio.

Difficile, così, fare il salto di qualità, o lo scatto di reni, di cui avremmo bisogno in frangenti di speciale difficoltà, come quello attuale. Infine, e insieme, la c.d. selva dei divieti. Naturale pendant dell’impostazione culturale che non ama la meritocrazia è l’assunto che non già tutto quello che non è vietato dalla legge deve ritenersi consentito (secondo la pietra angolare del pensiero liberale classico), ma, piuttosto, solo quello che è espressamente consentito dalla legge è da considerare lecito.

Apparentemente, una posizione di fervida adesione morale ad una rigorosa istanza legalitaria (in nome della prevenzione della corruzione e di imbrogli vari).

In concreto, più realisticamente, un pensiero debole che sfocia in un atto di abdicazione (e prima ancora, di ripudio) all’idea che la soluzione al malaffare è la sanzione per i pochi che sbagliano, piuttosto che la proibizione generalizzata di condotte che, se tenute onestamente, sarebbe utili al sistema.

Il tutto, aggravato da periodiche contraddittorie contorsioni (si pensi alla presenza di certe figure pubbliche nelle commissioni di concorso oppure nei collegi arbitrali: per la legge, prima sì, poi no, poi ni, e via seguitando), legate a doppio filo non già ad un’idea forte, ad una visione generale, ma solo al fluttuare un po’ casuale di vicende scandalistiche di questo o quel momento.

Meno divieti, e semmai più sanzioni per chi sbaglia, quella è la strada.

Tirando le somme, ci occorrono non tanto persone nuove, cioè talenti naturali (se ne abbiamo, ovviamente, è meglio), ma piuttosto individui – già mediamente capaci di loro – da rendere, mediante appositi percorsi formativi, “anche” all’altezza di guidare – settore per settore – il Paese.

Farlo, significa riscoprire (ma non solo a parole) la meritocrazia, il valore dell’esperienza, e l’idea – liberale – della sanzione e del suo ruolo nel sistema.

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