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Ripensiamo alle cure per la malattia renale cronica

Nel periodo di lockdown imposto dalla pandemia Covid-19, alle oggettive difficoltà di contrastare la diffusione del contagio, se ne sono aggiunte altre, dovute alla tendenza della nostra sanità ad essere accentrata prevalentemente sull’attività ospedaliera, a discapito della medicina territoriale. 

Con le sollecitazioni per reinvestire sulla prevenzione provenienti dal mondo scientifico, sono emerse anche proposte per qualificare ed estendere le cure domiciliari sia per determinate patologie acute, sia per condizioni a carattere cronico. Il Ministro Speranza ha recepito i vari input sottolineando, in diverse occasioni, la necessità di aprire una fase nuova, garantendo le risorse necessarie al Servizio Sanitario Nazionale per sostenere uniformemente sul territorio nazionale, un adeguato sistema di cure universalistiche che preveda lo sviluppo della medicina territoriale.

D’altronde, il SSN ha fra i suoi obiettivi la deospedalizzazione per le cure dei malati cronici. Il Piano Nazionale della Cronicità (PNC), approvato dalla Conferenza Stato-Regioni nel settembre 2016, pone come riferimento il tema delle cure domiciliari, specificando come “l’obiettivo fondamentale dei sistemi di cura della cronicità sia quello di mantenere il più possibile la persona malata al proprio domicilio e impedire o comunque ridurre il rischio di istituzionalizzazione, senza far ricadere sulla famiglia tutto il peso dell’assistenza al malato”. Ne consegue che “il percorso del paziente con patologia cronica deve essere pianificato nel lungo periodo e gestito in modo proattivo e differenziato, per rispondere ai bisogni specifici e prevenire l’insorgenza di complicanze evitabili”.

Nel PNC un ampio capitolo è dedicato alla Malattia Renale Cronica (MRC), un problema di salute pubblica che coinvolge una larga parte di popolazione. Si stima che, nel mondo, circa il 10% della popolazione sia affetto da MRC. In Italia, secondo lo studio italiano CARHES, condotto dalla Società Italiana di Nefrologia, si avrebbe una prevalenza intorno al 7% circa: questo vuol dire che, nel nostro Paese, vi sono almeno 3 milioni di persone che hanno una patologia renale cronica. La MRC spesso coesiste con altre patologie croniche come il diabete mellito e le malattie cardiovascolari (CV) e condivide con tali patologie molti fattori di rischio. Il danno cronico renale, molto spesso, rimane asintomatico, ma con una tendenza intrinseca alla progressiva perdita della funzione renale, sino alla necessità di dialisi e trapianto.

L’evoluzione verso l’insufficienza renale grave non è automatica e non riguarda in modo univoco tutti i pazienti. Una parte delle persone affette da MRC va incontro al decesso o per ragioni anagrafiche o per il sopravvenire di severe complicanze che, spesso, riguardano l’apparato cardiovascolare. Un’altra quota di persone presenta un declino lento della funzione renale e potrebbe non arrivare alla fase di fabbisogno dialitico, i cosiddetti slow progressors.

Un’altra parte di pazienti può rispondere in modo efficace alle modificazioni degli stili di vita e alle terapie farmacologiche appropriate, volte a rallentare la progressione della nefropatia, posticipando nel tempo l’ingresso in dialisi (controlled patients). Infine, esiste una parte di pazienti fast progressors che, per fattori intrinseci alla nefropatia iniziale o per la presenza di altre patologie croniche, evolve in tempi più o meno rapidi verso uno stadio terminale della MRC, con necessità di una terapia sostitutiva della funzione renale, come la dialisi cronica o il trapianto di rene.

Giungere alla dialisi e al trapianto significa, a parte l’enorme disagio   per il paziente – costretto a legare la sua sopravvivenza e il suo stato di benessere a una macchina nel caso della dialisi, o all’assunzione continua di potenti farmaci antirigetto, nel caso del trapianto – erogare cure che richiedono un notevole incremento di risorse economiche. Volendo portare il tutto sul piano meramente economico, un soggetto allo stadio iniziale della MRC costa al SSN alcune migliaia di euro l’anno, mentre la spesa aumenta in modo straordinariamente rilevante negli stadi più avanzati.

Il costo diretto annuo del trattamento di un paziente in dialisi è stimato da un minimo di € 29.800, per coloro che sono in dialisi peritoneale fino a un massimo di € 43.800 per quelli in emodialisi. A tali costi diretti, sanitari e non sanitari, andrebbero aggiunti i costi indiretti. D’altra parte anche il trapianto renale ha i suoi costi, stimati in € 52.000 per il primo anno e in € 15.000 per ogni anno successivo al primo. Considerando che in Italia vi sono circa 50.000 pazienti in dialisi cronica, la spesa sanitaria è dell’ordine dei due miliardi di euro ogni anno.

Tenendo conto della progressione della MRC, la possibilità di ritardare almeno di 5 anni la progressione del danno renale per il 10% dei soggetti dallo stadio III allo stadio IV e di procrastinare, sempre di 5 anni, l’invio dei pazienti in dialisi, permetterebbe al SSN di risparmiare risorse per 2,5 miliardi di euro. Questo ci dice che sarebbe quantomeno auspicabile mettere in atto percorsi di tipo diagnostico e terapeutico (PDTA), che devono essere gestiti sul territorio, al domicilio del paziente, nelle cosiddette Case della Salute, nei piccoli ospedali di prossimità, attraverso una collaborazione tra specialisti nefrologi, medici di Medicina generale, altri specialisti e tutto il personale sanitario non medico quali infermieri, dietiste, psicologi, ecc.

Non è pensabile che gli ospedali italiani seguano assiduamente e direttamente tre milioni di pazienti nefropatici, in maniera da impedire loro di arrivare alla dialisi o di rallentare la progressione della malattia. Vanno creati progetti regionali come il PIRP (Prevenzione Insufficienza Renale Progressiva), che la Regione Emilia- Romagna ha messo in atto da oltre 10 anni e che permette di seguire in maniera ottimale sul territorio oltre 30.000 pazienti con MRC. Un progetto che ha permesso di ridurre di oltre il 10 % i pazienti che arrivano annualmente alla dialisi.

Ma non è solo la terapia conservativa che va ripensata in termini di deospedalizzaione, anche la dialisi va rivista in una visione meno ospedalo-centrica e che preveda la domiciliarizzazione dei pazienti.

La dialisi è una procedura salvavita che si rende necessaria quando i reni perdono la loro precipua funzione di eliminare, attraverso l’urina, le sostanze di rifiuto presenti nel sangue. 

La procedura tradizionale, nota come emodialisi, prevede che il sangue del paziente sia fatto passare in un circuito extracorporeo, dove un filtro elimina le sostanze tossiche ed il sangue sia reimmesso nell’organismo depurato dei prodotti di scarto e dei liquidi in eccesso. Un’altra metodica è la dialisi peritoneale che utilizza invece come filtro la membrana di rivestimento interno dell’addome (il peritoneo). Le due metodiche sono in genere eseguite in ambiente ospedaliero, ma possono – grazie ai progressi della tecnologia dialitica – essere portate al domicilio del paziente.

I trattamenti dialitici domiciliari, laddove correttamente indicati, costituiscono una forma ottimale di terapia perché, a parità di efficacia depurativa, consentono una migliore riabilitazione del paziente, una sua migliore integrazione nel contesto socioculturale in cui vive, e la possibilità di mantenere un’attività lavorativa e sociale. Inoltre vengono liberate risorse in termini di posti letto, di personale sanitario e di attività di supporto (trasporto dei pazienti verso i centri dialisi, logistica ambientale, stoccaggio dei materiali), intervenendo così su criticità particolarmente gravi senza un impoverimento dell’offerta, ma migliorando l’assistenza sanitaria globale.

La dialisi peritoneale ha una sua precipua vocazione domiciliare e può essere l’opzione migliore se il paziente non riesce a tollerare i rapidi cambiamenti dell’equilibrio dei fluidi connessi all’emodialisi.  Inoltre ha altri indubbi vantaggi, potendo essere eseguita oltre che a domicilio del paziente, sul luogo di lavoro oppure anche durante i viaggi.Anche l’emodialisi, pur essendo una tecnica con un circuito ematico extracorporeo e, quindi, più complessa, può, al giorno d’oggi, essere eseguita a casa del paziente. Infatti, a partire dagli anni 2000, l’interesse intorno ad un approccio domiciliare è cresciuto grazie allo sviluppo di apparecchiature sempre più “maneggevoli”, allo sviluppo di tecniche di telemedicina e di teledialisi. Inoltre numerosi studi ne hanno attestano i benefici clinici, psicosociali ed economici.

A domicilio si assiste ad un vero e proprio cambiamento socioculturale, che vede il malato non più come soggetto passivo, ma come persona che partecipa attivamente al processo di cura. È un paziente sempre più informato, che acquista competenze che riguardano la gestione della propria terapia, e che diventa quello che oggi potremmo definire un “paziente esperto” e motivato.

Infine la terapia domiciliare è più “versatile” di quella ospedaliera, in quanto consente di variare la durata di ogni singolo trattamento, l’orario nell’arco della giornata e la frequenza settimanale, a seconda delle esigenze cliniche e psicosociali della persona.

Il trattamento domiciliare incide in misura minore sull’attività lavorativa o sulle attività di svago, come per esempio le vacanze. Accade spesso che taluni pazienti in emodialisi, anche giovani, lascino il lavoro perché non compatibile con l’organizzazione dei centri dialisi o rinuncino a recarsi in vacanza per la paura di non trovare centri disponibili o per alcuni timori legati alla gestione dell’accesso vascolare.

Un altro aspetto non trascurabile è di tipo relazionale, dal momento che spesso i pazienti in dialisi presso la struttura ospedaliera, più facilmente sviluppano una dipendenza passiva dagli operatori sanitari. La dialisi domiciliare incoraggia l’indipendenza e l’autonomia del malato, lo responsabilizza e accresce la fiducia in sé stesso e verso le persone che lo assistono. Non mancano però i problemi che rendono difficoltosa la domiciliarizzaione della dialisi. I pazienti in dialisi hanno, in genere, una elevata età media che, spesso, supera i settant’anni, sono inoltre gravati da patologie multiple ed hanno problemi o di accesso vascolare o di accesso peritoneale. Spesso poi un paziente anziano ha un partner anziano, che teme le manovre complicate e che non accetta la responsabilità della gestione della dialisi.

Sono questi tutti aspetti che non devono essere sottovalutati, pena l’insuccesso dei programmi di deospedalizzazzione. Per supplier, almeno in parte, a tali problem, sono state proposte le cosidette dialisi domicilari “assistite”. Si tratta di dialisi peritoneale e di emodialisi condotta da un infermiere esperto che si reca al domicilio del paziente. Qui però sorgono alcuni problem: i costi del personale sanitario da impiegare per l’assistenza domiciliare (che, nel caso dell’emodialisi, deve fornire un’assistenza continuativa); il fatto che il personale sanitario dedicato deve essere ben addestrato, che deve esservi un collegamento funzionale e pratico con il centro madre.

Tutte condizioni, quelle anzidette, che devono essere soddisfatte facendo ricorso alle risorse disponibili del Servizio Sanitario Nazionale, valutando caso per caso gli interventi, che devono però sempre tenere conto della volontà del paziente ed essere condotti in completa sicurezza, mantenendo la continuità assistenziale. La maggiore autonomia e la conseguente responsabilizzazione che deriva dall’autogestione della propria salute può avere un effetto terapeutico chiaro, i pazienti hanno una migliore percezione del loro stato di salute, possono ridurre la necessità di farmaci e di ricorso a controlli periodici ed a ricoveri ospedalieri. Non da ultimo, la deospedalizzazione riduce la morbilità legata alla potenziale trasmissione di malattie infettive all’interno della stessa popolazione in dialisi.

Una recente survey condotta dalla Società Italiana di Nefrologia, in epoca di pandemia Covid, ha dimostrato che l’infezione COVID-19 è stata piuttosto frequente nei pazienti in dialisi, visto che il 2,26% dei pazienti ha avuto una malattia clinicamente rilevante e che nel 33% dei casi ha, purtroppo, avuto un esito fatale. Però vi erano importanti differenze sulla possibilità di ammalarsi tra la popolazione in emodialisi ospedaliera (in una percentuale del 3,5%) e quella in dialisi peritoneale domiciliare (1,38%). Frequenze di malattia così diverse sottolineano, ancora una volta, la necessità che, anche per le terapie dialitiche, il baricentro dovrà essere spostato verso le cure domiciliari. Allora dobbiamo approfittare del rilancio, che deve avvenire dopo una tragedia, com’è stata la pandemia Covid-19, per ripensare, attraverso una visione olistica, alle cure ed alle terapie per le persone che portano il peso di una severa malattia renale. 

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